Guerra e pace

Mario Pollo

(NPG 1995-08-03)

La guerra continua ad insanguinare il mondo sia nella sua forma diretta di conflitto tra eserciti, sia in quella più subdola di violenza sulle popolazioni inermi. Gli orrori delle stragi in Bosnia, in Ruanda, in Sudan, in Cecenia e in molte altre parti del mondo dimenticate dai mass media, a cui occorre aggiungere quelle prodotte dagli attentati terroristici, sono lì a ricordare che i sogni di pace che la nostra civiltà elabora, come tutti i sogni, sono fragili ombre destinate a svanire all'alba.
Ma oltre a questa desolata constatazione la coscienza delle persone, almeno di quelle più pensose e sensibili, è scossa da un dilemma che offusca la certezza che il rifiuto della violenza delle azioni di guerra sia in molti casi concreti la strategia più giusta.
Infatti di fronte alla violenza brutale di eserciti aggressori feroci e sanguinari contro le popolazioni innocenti sorge l'interrogativo se la risposta non violenta sia giusta o se, al contrario, la giustizia esiga l'intrapresa di azioni di guerra contro questi oppressori.
Non è un caso che proprio in questo periodo sia rinato il dibattito intorno alla guerra giusta e che di fronte, ad esempio, ai raid aerei della Nato nei cieli della ex Jugoslavia molte persone definibili come amanti della pace abbiano affermato che essi sono giusti e necessari.
In questi giorni sembra che la profezia del pacifismo sia stata sconfitta dagli abissi della realtà umana e della distruttività che alberga in essi.
Ci si rende sempre di più conto che la pace nella storia non nasce gratuitamente, che essa è il frutto, purtroppo, di una serie di equilibri politici, economici e etnici, che spesso più che sull'amore per la vita e per la giustizia sono fondati o sulla paura reciproca o sull'interesse.
Basti pensare al fatto che i bombardamenti aerei della Nato sono stati il mezzo per indurre i serbi bosniaci a sedersi al tavolo delle trattative per la pace.
Questo significa che l'uomo che ama la pace e lavora per realizzarla, nelle condizioni odierne della storia, non può rinunciare alla guerra, s'intende giusta, se vuole costruire la pace. Perché, e la realtà della vita quotidiana lo dimostra, se chi è portatore degli ideali di libertà, di giustizia, di pace e, quindi, di amore per l'uomo e la sua vita non è in grado di opporsi alla violenza degli ingiusti e degli assassini, finirebbe per favorire l'affermarsi di realtà sociali in cui i violenti imporrebbero le loro leggi e il loro modello di vita.
E questo il paradosso disperante che molte persone oggi si trovano a dover affrontare e che rischia di essere risolto con la negazione del valore nella vita umana dell'utopia del pacifismo e, di conseguenza, con la scelta di una politica interna ed internazionale in cui l'uso della forza riacquista una centralità che si sperava superata.
La soluzione corretta di questo paradosso forse sta nell'accettazione di tutti e due i poli che lo formano, accettando di farli interagire tra di loro. In altre parole significa pensare che la costruzione della pace in questa fase storica richiede che siano attivate tanto la costruzione non violenta di relazioni e di condizioni di vita pacifiche tra le persone e le nazioni, quanto la capacità di dissuasione, ovvero la capacità di far sentire a chi è contro la pace che si è in grado di difendersi dalla sua eventuale aggressione.
Questa affermazione può deludere i profeti disarmati della pace oppure far pensare alla classica soluzione pilatesca di un colpo al cerchio e di uno alla botte. Tuttavia questa sembra con realismo l'unica via percorribile.
Anche perché il coraggio di una scelta radicale di rifiuto di ogni forma di violenza, anche se di autodifesa, sarebbe pagato in termini di perdita di vite umane innocenti, della libertà di popolazioni intere e dall'affermarsi di profonde ingiustizie. È giusto pagare questo prezzo e soprattutto farlo pagare a quelle persone a cui non è stata data alcuna scelta tra difesa violenta e non violenta, in quanto esse sono solo e semplicemente le vittime della violenza?
Questo non significa che la profezia della non violenza debba essere rigettata o che i suoi seguaci debbano cessare di predicarla e di diffonderla. La sua presenza infatti è necessaria se si vuole che vengano sempre ricercate le vie per trovare le soluzioni pacifiche dei conflitti e perché vengano sempre più attivate tutte le azioni che possono costruire un mondo di pace.
Tuttavia questa profezia non può e non deve impedire a chi ha a cuore la libertà e la giustizia, di promuovere, magari con il cuore gonfio di tristezza e di angoscia, le azioni di difesa che le situazioni storiche concrete richiedono per impedire che le ragioni della violenza prevalgono.
Solo il dialogo tra la profezia della non violenza e la durezza della realtà possono far nascere quelle azioni politiche, economiche e sociali che possono produrre la vera pace.
In questo dialogo, che non deve essere esterno tra partiti e tesi differenti, ma interno alle stesse persone che lo promuovono, occorre rilanciare il ruolo dell'educazione e della promozione umana. Infatti le radici profonde della vera pace non sono esterne all'uomo ma affondano nella sua anima.
Questo significa che oltre ad operare perché siano realizzati modelli di vita sociale basati sulla non violenza e la pace, occorre lavorare, attraverso l'educazione, perché le persone riescano a donare le forze distruttive che sono presenti in loro e a trasformarle in forze costruttive.
Per dirla con un'immagine mitica, è necessario che le persone uccidano il drago e liberino la bella prigioniera, ovvero la propria anima. Solo un'educazione che promuova la realizzazione umana delle persone, ovvero la ricerca dell'armonia del loro essere attraverso la scoperta dell'amore per l'Altro da sé, è in grado di garantire che il faticoso cammino per la costruzione di un mondo di pace che può essere promosso dalla politica, dall'economia e dalla cultura possa dare risultati stabili e efficaci.
Ritornando al paradosso iniziale si deve constatare come purtroppo in questa fase storica la ricerca della pace debba ancora sporcarsi le mani con la difesa violenta. Anche perché la pace può esistere solo se essa è accompagnata dalla libertà, dalla giustizia ed è benedetta da quell'amore che nasce nelle persone che hanno scoperto che il senso della vita è nell'essere e non nell'avere... nella sequela di Gesù.