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    La chiesa e la guerra

    Andrea Riccardi

    chiesaeguerra

    La Chiesa e la guerra è il tema antico che ha fatto più discutere nel Novecento e continuerà a farlo.
    Sto soprattutto parlando della Chiesa cattolica: un’internazionale di credenti in tanti Paesi diversi. Essa ha un centro, la Santa Sede, fuori da uno Stato, anzi collocata in un suo Stato, voluto per sottrarsi alla sovranità altrui. La Chiesa contemporanea ha guardato con preoccupazione la guerra, cercando di evitarla con ogni mezzo. Le parole di Pio XII del 1939 (scritte da Montini, il futuro Paolo VI) esprimono questo sentire: «Nulla è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra. Ritornino gli uomini a comprendersi. Ritornino gli uomini a trattare». Recentemente si ritrovano gli stessi accenti in Benedetto XVI: «La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi...».
    Si può parlare di pacifismo? La Santa Sede ha usato il termine modesto di «imparzialità» durante le due guerre mondiali. Il che le ha valso accuse di parzialità, addirittura di silenzio (la questione di Pio XII, ultimamente riaccesasi). Già da un secolo prima, la Chiesa di Roma aveva cercato di sottrarsi dalle contese bellicose degli Stati. Rifiutò di aderire al blocco continentale voluto da Napoleone, padrone d’Europa. Un ecclesiastico spiegò in un tempestoso colloquio con l’imperatore: «Il santo padre, essendo padre comune dei fedeli, non può trascurare gli uni per essere unito con gli altri». Aggiunse: il suo è un «ministero di pace». Stesso problema nel cuore del Risorgimento, quando Pio IX rifiutò l’appoggio alla causa italiana per non schierarsi contro l’Austria.
    Sono storie remote. Ma, nella diplomazia della Chiesa, la memoria e i precedenti contano e tra pontificati, pur cambiando uomini e scenari, c’è continuità. Tra Ottocento e Novecento, con le mediazioni di Leone XIII, si sviluppò la vocazione vaticana ad avvicinare i belligeranti. Giovanni Paolo II fu protagonista d’una mediazione che evitò il conflitto tra Cile e Argentina. Le due guerre mondiali, soprattutto, sono state un terreno invivibile per un’internazionale come la Chiesa di Roma, i cui fedeli si sono schierati su opposti fronti. Parlare di pace e cercarla, come fa la Chiesa, non è facile. Benedetto XV, dopo la Nota alle potenze nel 1917, fu accusato di disfattismo. Pio XII, che non sperava in una vittoria tedesca (anzi piegò l’antisovietismo dei cattolici americani), fu critico verso la volontà angloamericana di non accorciare i tempi di guerra negoziando con i nemici. L’imparzialità è difficile, quando la guerra all’ultimo sangue travolge tutto e suscita passioni: richiede riservatezza, si paga con l’isolamento e l’impopolarità, si manifesta nell’impegno di carità per le vittime di ogni parte.
    Gli anni della Guerra fredda sono stati duri per la Chiesa perseguitata dai regimi comunisti mentre il cattolicesimo era necessariamente schierato con l’Occidente. Uno schieramento particolare, perché mancano rapporti diplomatici con gli Stati Uniti e la Santa Sede si manifesta appiattita sulle ragioni occidentali e sulla Nato. Con il disgelo, con Giovanni XXIII e Paolo VI, la Santa Sede mostra interesse ai Paesi decolonizzati e non allineati. C’è una politica orientale vaticana senza entusiasmo: «ars non moriendi», la definì il segretario di Stato di Paolo VI. Fino ad allora il Vaticano non aveva rapporti diplomatici con parecchi Paesi: con Israele, gli Stati Uniti, il Sud Africa, il Messico, quelli comunisti.
    Il rapporto con Israele - come recentemente ha sottolineato Ernesto Galli della Loggia - ha una valenza particolare, tanto che questo studioso ne fa lo specchio del limite della politica di «pace» del Vaticano. In realtà è un caso speciale, per le implicazioni legate ai Luoghi Santi, alla minoranza cristiana, al complesso rapporto Chiesa-ebraismo (che ha avuto una svolta solo con il Concilio). Del resto lo strumento delle relazioni diplomatiche non era così decisivo per la Chiesa fino a Giovanni Paolo II, che aprì rapporti ufficiali con Israele nel 1993, dopo quindici anni di pontificato. Wojtyla, primo papa a visitare una sinagoga, aveva una sensibilità particolare per gli ebrei e Israele. Resistette però alle pressioni americane per stabilire rapporti ufficiali con Israele. Poi si convinse delle relazioni con l’avvio del processo di pace. Il viaggio di Wojtyla in Terra Santa nel 2000 mostrò come, in una situazione difficile, la Santa Sede riuscisse, con successo, a proporre il suo discorso di pace a israeliani e palestinesi, senza ignorare il dramma della Shoah e la sicurezza di Israele.
    Non è da sottovalutare la preoccupazione vaticana per le minoranze cristiane nel mondo arabo, condivisa dalla Francia. Il Libano e queste minoranze sono state da sempre sentite come una realtà capace di fare la differenza per un Medio Oriente non tutto musulmano. La fragilità della minoranza cristiana si è vista nella guerra all’Iraq: il crollo della dittatura baathista di Saddam (inammissibile, ma considerata triste garanzia per i cristiani dall’allora patriarca Bidawid) ha lasciato campo all’aggressività islamica. Un elemento non considerato, quando si decise la guerra. I cristiani siriani temono qualcosa di analogo. I cristiani iracheni sono ridotti a quasi la metà di prima della guerra. Lì è avvenuto il crollo più vistoso e rapido della presenza cristiana in Medio Oriente da più di cinquant’anni.
    Al di là del Medio Oriente, c’è da chiedersi se, nel XXI secolo, la posizione della Santa Sede non sia illusoria, frutto di purismo astratto. Il Vaticano non pretende di essere un tribunale internazionale che condanni di volta in volta le violazioni, le politiche aggressive o altro. Anche se talvolta i papi ne parlano, non è la missione prioritaria. Ma ammonire sui rischi della guerra è un compito a cui la Santa Sede non rinuncia. Sembra che la sua esperienza storica la confermi nella convinzione che guerre e rivoluzioni lasciano il mondo peggiore di come lo hanno trovato. Inoltrarsi nel terreno della guerra rappresenta un’«avventura senza ritorno», per usare le parole di Giovanni Paolo II. È una coscienza che la Chiesa di Roma ha maturato da più di due secoli. Meglio è per lei consigliare il dialogo, l’applicazione del diritto internazionale, il negoziato. La Chiesa non si sente pacifista, ma pacificatrice (papa Wojtyla non si è confuso con il pacifismo). Sa che torti e ragioni non si dividono mai equamente tra le parti, ma considera la guerra come una soluzione che non risolve e alla fine travolge.
    Il cattolicesimo differisce dall’ortodossia, identificata con le battaglie della nazione: si pensi alla benedizione del patriarcato russo alla guerra di Stalin. La differenza si fa più profonda con le altre religioni, come l’islam. La posizione cattolica non ha fatto l’unanimità dei governi, è stata considerata utopista, insensibile alle ragioni della giustizia. Ma è stata quella dei papi del XX secolo. Rappresenta anche una risorsa unica della coscienza occidentale rispetto ad altri mondi. Non è un caso che gli Stati Uniti, dal 1939 a oggi, non sempre in coincidenza di vedute con il Vaticano (dal giudizio positivo di Roosevelt su Stalin alle guerre in Iraq), abbiano però considerato la Santa Sede un interlocutore rilevante anche sul quadrante internazionale. La visione delle relazioni internazionali della Chiesa di Roma è un elemento che rende originale e più complessa la coscienza occidentale di fronte a fatti decisivi come la pace e la guerra. Anche in questo campo, tra Dio e Cesare c’è distinzione.


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