La guerra
nella letteratura
e nell'arte
Carlotta Ricci
Il contesto letterario
La cultura letteraria europea, e in particolare quella italiana del primo decennio del Novecento, furono largamente influenzate dalla cosiddetta filosofia dell'azione, una corrente filosofica eterogenea che convergeva però nell'esaltazione del volontarismo, del vitalismo e dell'attivismo.
In Italia la figura più emblematica di questo clima culturale fu quella di Gabriele D'Annunzio (1863-1938) che, dopo aver incarnato il ruolo di esteta decadente, si trasformò in cantore letterario del superuomo di Nietzsche, interpretandolo però superficialmente come l'individuo superiore capace di imporsi e dominare la massa. È in questa fase che D'Annunzio compose alcune poesie per celebrare la guerra di conquista della Libia (vedi le Canzoni delle gesta d'oltremare, 1911-12 tratta dalle Laudi, libro IV "Merope") che, pubblicate sul "Corriere della sera", lo consacrano come il vate dell'Italia in armi. Come tale, nel maggio 1915, con i suoi infiammati discorsi di piazza, D'Annunzio diede un contributo decisivo al movimento interventista che trascinò l'Italia nella Grande guerra.
Un altro scrittore e poeta che fece dell'esaltazione della guerra uno dei temi centrali della propria opera fu il futurista Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944). Nel Manifesto del futurismo (1909) Marinetti proclamò apertamente che la poesia doveva glorificare la guerra, "sola igiene del mondo". In seguito, Marinetti diede pratica attuazione al suo programma nel romanzo La battaglia di Tripoli (1912) e nel poemetto Zang Tumb Tumb (1914). Anche Marinetti fu, naturalmente, uno dei più accesi fautori dell'intervento italiano nella Grande guerra.
È quindi nell'ambito della cultura nazionalistica che si manifesta una più decisa adesione alla guerra, non solo come strumento di affermazione della vitalità di un popolo e dello stato, ma anche come manifestazione di volontà, coraggio e grandezza d'animo, se non, addirittura, come fenomeno estetico, secondo quanto sostenuto da Enrico Corradini (1865-1931) nella sua apologia della guerra tra Russia e Giappone (La conferma del cannone, in "Il Regno", II, 1904, n.12) oppure da Giovanni Papini (1881-1956) in Amiamo la guerra! (in "Lacerba", II, 1914, n.20). Papini, attivo intellettuale fiorentino fondatore di "Lacerba" (1913), parla della guerra come di un "male necessario" all'elevamento morale di un popolo che, senza la sua benefica forza rigeneratrice, ristagnerebbe nella fiacchezza della vita quotidiana, senza essere più in grado di apprezzare la virtù del coraggio.
Egli giunge ad affermare che la guerra è utile e necessaria al progresso economico in quanto "i campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz'altra spesa di concime". Sono queste le forme più radicali dell'esaltazione del "bagno di sangue" propugnata da pensatori che colgono un contrasto insanabile tra gli effetti della civilizzazione, causa di imborghesimento e infiacchimento delle energie vitali dei popoli, e il riemergere della natura genuinamente selvaggia, vitale e grandiosa delle stirpi destinate a fare la storia.
La guerra nella letteratura e nell'arte
La tragica esperienza della Grande guerra lasciò un segno profondo nella produzione letteraria di tutti i paesi coinvolti, anche perché molti furono i poeti e gli scrittori che vi parteciparono in prima persona come soldati. Tra questi spicca, per coinvolgimento e capacità poetica, l'italiano Giuseppe Ungaretti (1888-1970). Egli stesso lasciò scritto di essere divenuto poeta proprio in trincea e che il suo stile gli fu quasi imposto dalle condizioni di vita sperimentate in questa situazione. Le sue due prime raccolte di liriche - Il porto sepolto (1917) e Allegria di naufragi (1919), poi riunite in L'Allegria - furono infatti composte al fronte, prima sul Carso e poi in Francia, dove Ungaretti combatté come soldato semplice nel 19° reggimento di fanteria.
Queste liriche costituiscono un vero e proprio diario poetico di guerra, tanto che ogni componimento porta in calce la data e il luogo di composizione. Ai temi della caducità, della dialettica tra la vita e la morte resi attraverso le metafore del miraggio, del naufragio o di fenomeni naturali di decadimento come l'autunno, corrisponde uno stile rapido ed essenziale, che utilizza il lessico quotidiano e una sintassi elementare, disgrega le forme metriche tradizionali ed enfatizza i vuoti e le pause, producendo un'intensità ritmica, fonica ed emotiva senza precedenti nella letteratura italiana. Per quanto riguarda la letteratura europea sono da segnalare: Il fuoco di Henri Barbusse, All'Ovest niente di nuovo di Erich Maria Remarque e La fine della parata di Ford Madox Ford.
Può essere molto interessante confrontare il racconto con la produzione cinematografica, pure assai ricca.
Tra i tanti film ancora oggi in circolazione, quattro meritano particolare attenzione: Uomini contro (1971) di Francesco Rosi, All'Ovest niente di nuovo (1930) di Lewis Milestone, Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, che può essere considerato un capolavoro nel suo genere e, infine, La grande guerra (1959) di Mario Monicelli che risulta interessante per la smitizzazione dell'eroismo che il regista compie.
Seppure in proporzioni più ridotte che in letteratura, la guerra incise anche sulla produzione artistica figurativa. In particolare, il tema della guerra ebbe un grande rilievo nell'opera dei pittori Otto Dix (1891-1969) e George Grosz (1893-1959), entrambi appartenenti alla corrente della Nuova oggettività, che rappresentò uno degli ultimi esiti dell'Espressionismo. Dix dedicò una notevole parte della sua produzione pittorica alla rappresentazione della Grande guerra, di cui fu testimone lucido, realisticamente crudo - quasi a livello fotografico -, denunciandone la miseria, le infamie e l'intrinseca stupidità (vedi Trincea nelle Fiandre, 1934-36).