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    C’è Vocazione e vocazione



    Alberto Martelli

    (NPG 2010-06-23)


    I tema vocazionale, anzi, addirittura il termine stesso “vocazione”, ha sofferto negli ultimi decenni alcune difficoltà che ne hanno allo stesso tempo allargato e offuscato il significato. Il senso di questo intervento vorrebbe essere quello di mettere in un ordine ragionato le idee che si rifanno a tale ambito semantico affinché la pastorale ne possa guadagnare in incisività e significatività, oltre che in fedeltà al vangelo e alla tradizione ecclesiale.

    TRA ENFASI E DIMENTICANZA

    Provando a parlare di vocazione, specie in ambito di pastorale giovanile, si incorre nella maggior parte dei casi in un duplice fraintendimento: o associare al termine le cosiddette “vocazioni di speciale consacrazione”, separandole quasi istintivamente dal “normale” cammino giovanile cristiano; oppure parlare di ogni scelta personale in ambito di fede, dal volontariato al mestiere, alla scelta di quella o quell’altra persona con cui fidanzarsi, ecc… mettendo così sullo stesso piano ogni opzione e decisione del soggetto.
    Si potrebbe forse imputare a ragione di tale confusione l’oscillazione tra l’enfasi sul tema, quasi che soltanto chi “ha la vocazione” sia destinato a “farsi santo”, e la dimenticanza del tema stesso, nella sottesa consapevolezza che parlare di vocazione nel modo precedente fosse istintivamente sentito come qualcosa di troppo stretto, come un vestito che pur splendente, non calza e non potrà mai calzare sulla reale vita dei giovani e dei cristiani in generale.
    Così, se alla prima opzione corrisponde la preoccupazione di procurare, quasi procacciare vocazioni alla Chiesa e a Dio, alla seconda corrisponde l’enfatica fiducia che dice che se le vocazione sono necessarie, ci penserà Dio e procurarsele per sé e per il bene del suo popolo.
    La pastorale vocazionale, o animazione vocazionale, come più recentemente si è preferito chiamarla, ha sofferto in questo modo di una duplice iattura: la dicotomia e/o l’assorbimento, ma entrambi i punti di vista soffrono tutto sommato di uno stesso male: l’incapacità di una definizione di vocazione che tenga conto della sua complessità e che soprattutto vada oltre il gesto puntuale della scelta di vita del giovane, tornando ad essere una riflessione complessiva sull’uomo e sul suo rapporto con Dio singolarmente e nella Chiesa.
    Il problema vocazionale è innanzitutto un problema antropologico ed ecclesiale. Parlare di vocazione non è solo parlare di una scelta, ma è cercare di descrivere in qualche modo l’intera persona alla luce di una chiamata e, di conseguenza, vocazione e vocazioni non sono relegabili al fatto personale, ma sono sempre e comunque un fatto ecclesiale che connota tutto il popolo cristiano e ne definisce l’immagine e l’identità.
    Trattare del tema vocazionale dando credito alla teoria secondo la quale la vocazione è un caso così eccezionale che occorre separare totalmente il suo cammino e il suo discernimento dal resto dell’azione pastorale della Chiesa verso i giovani, ha causato in questi anni alcune crisi e problemi che ne hanno minato alla radice la possibilità di essere un efficace e ecclesiale cammino di crescita. Il tema vocazionale infatti resta in questo modo prigioniero di proposte separate, spesso non preparate e dunque non accoglibili, legate ad un discernimento che ha come solo scopo il verificare se il soggetto “ha la vocazione” senza badare al suo cammino complessivo di crescita.
    Al contrario, una pastorale vocazione in generale riassorbita dalla più generica cura della fede del giovane, ricade nell’oblio della singolarità della persona e della sua speciale missione ecclesiale, e si attiene alla sola speranza che da un buon cammino generalista cresca, quasi per germinazione spontanea, una scelta così specifica e impegnativa come la vocazione di speciale consacrazione.
    In ogni caso il risultato è sotto gli occhi di tutti.

    LA VOCAZIONE ALLA VITA

    Una celebre canzone di un noto cantautore italiano riporta alla luce della nostra consapevolezza una verità che spesso viene sopita dal fatto di essere fin troppo nota. Così infatti inizia la sua opera: “Nessuno viene al mondo per sua scelta, non è questione di buona volontà”; per concludere con il verso che ne segna il titolo e anche il concetto fondamentale: “La vita è un dono”.
    Spesso relegata all’ambito della poesia, quasi fosse semplicemente una bella frase da innamorati o da predicazione, il fatto che la vita sia un dono va invece riscoperto in tutta sua la pregnanza antropologica.
    Come dicevamo prima, parlare di vocazione vuol dire infatti rivedere da capo e dal profondo il nostro concetto di essere umano, concetto che la semplice frase “la vita è un dono”, pur relegata nel campo dell’affettività e del sentimentalismo, ha sempre custodito dall’oblio che ha dovuto sopportare nel campo della ragione e di buona parte della filosofia contemporanea, moderna e post-moderna.
    Il nostro immaginario collettivo ha infatti ormai introiettato una immagine filosofica della coscienza in cui il primato viene dato ad un io sostanzialmente preformato rispetto alle sue relazioni con gli altri e con le cose, o ad una coscienza individuale che come una stanza vuota è presente a se stessa e grazie a questa consapevolezza iniziale coltiva da sé la certezza della propria esistenza. Un “Cogito ergo sum” che è ormai diventato insomma non solo proverbiale, ma anche semplicemente un dato di fatto, creduto fideisticamente più che pensato ragionevolmente.
    La domanda che scuote questa certezza e che la consapevolezza del dono della vita riporta alla ribalta è molto semplice eppure disarmante: ma è proprio vero che all’inizio ci sta l’io?
    Per risolvere la questione occorre tornare alle evidenze fondamentali della vita, facendo una sorta di operazione fenomenologica di riscoperta di come è effettivamente la realtà della nostra esistenza, di come io, voi, i nostri giovani nasciamo e ci formiamo alla coscienza personale.
    L’esperienza “semplice”, cioè non filtrata da presupposti filosofici fuorvianti, dimostra alla nostra consapevolezza e di fronte al nostro concetto di uomo il fatto che la coscienza di ogni persona è destata da un’azione pratica di dedizione amorosa e relazionale. Nella vita di tutti i giorni, così come in modo radicale nella vita del neonato, ci rendiamo conto di chi siamo, e impariamo a dire “io” di noi stessi, nel momento in cui un altro, o meglio uno a noi prossimo, non semplicemente estraneo e non semplicemente uguale a me, volendoci bene concretamente e non solo a parole, ci dimostra il suo amore e la sua dedizione, si occupa di noi, dimostrando alla mia coscienza e al mondo il mio intrinseco valore come persona non solitaria effettivamente esistente.
    Conosco me stesso, anzi, forse più radicalmente potremmo dire che sono me stesso, in quanto amato effettivamente da qualcuno.
    Ogni bambino sa che la coscienza di sé è destata dall’amore dei genitori e che questo permetterà a lui un giorno di essere così consapevole di sé da poter decidere della propria vita; decidere, in modo radicale, quale forma di dono darsi, nella consapevolezza che dalla forma di un dono egli è nato.
    L’esperienza iniziale della coscienza appare dunque radicalmente “graziosa”, nel senso che la coscienza di ognuno di noi è innanzitutto debitrice di sé ad un amore precedente, che in ultima analisi è per definizione un amore teologico, di Dio che è Amore.
    La persona si qualifica immediatamente come luogo dialogico; l’immagine di un uomo autarchico ed autonomo è una astrazione assurda. Ogni ragionamento sulla persona che metta l’autorealizzazione e il primato della scelta dell’io prima della chiamata/relazione, appare in questo modo irrimediabilmente segnato da un difetto antropologico assolutamente fondamentale.
    Per il nostro tema questo modo di ragionare, questa evidenza riscoperta, può essere dunque l’appoggio fondamentale per riportare alla ribalta, nel giusto senso e nella giusta profondità, la questione vocazionale.
    La vocazione non è qualcosa che interviene in seconda battuta al cospetto di un io formato a monte da essa, e che quindi chiede umilmente il permesso di “dialogare” con chi, di diritto, potrebbe rispondere che innanzitutto viene la mia scelta e la costruzione di me, e dopo l’ascolto di altri da me.
    Questa mentalità suona immediatamente corrotta, anzi, direi anti umana e anti cristiana. La vocazione è all’origine della definizione stessa dell’io. Il dialogo con Dio che sta alla base della scelta vocazionale, sta alla base della costruzione stessa dei fondamenti della persona. Parlare dunque di vocazione in modo appropriato significa per ogni operatore pastorale far riscoprire che tale tema non può essere in seconda battuta e non può essere ignorato o diluito, perché la vocazione, come chiamata/risposta ad una dedizione amorosa a me precedente che mi chiede di strutturare la mia vita nella direzione di tale stessa dedizione d’amore, è semplicemente ciò che ogni uomo è chiamato a fare per essere tale fino in fondo.

    LA VITA COME VOCAZIONE

    Riprendendo quanto detto precedentemente, siamo dunque arrivati a chiarire che l’uomo è un preceduto da una chiamata d’amore che ne rende possibile l’esistenza.
    La coscienza viene destata, si diceva, da un gesto, un simbolo di grazia, ossia di dedizione relazionale gratuita e totale. È come se prima la persona venisse colpita e poi agisse, reagisse a tale azione subita. La coscienza non è dunque per prima cosa attività e consapevolezza, ma ricezione e passività; la sua attività si configura come presa di coscienza del ricevuto, come rendimento di grazie, come appropriazione e perseguimento di una promessa donatagli senza meriti propri. Di questo la pastorale deve tenere conto nella propria riflessione sul tema vocazionale. Non occorre inserire il concetto di vocazione e l’azione pastorale conseguente, come un corpo estraneo alla vita del soggetto, come se si potesse vivere in qualche modo anche senza di essa, ma occorre rendere conto che proprio di vocazione noi viviamo. Ovviamente non si tratta ancora di vocazione nel senso specifico del termine, che vedremo successivamente, ma nel senso che “vocata” è in radice la vita stessa.
    In termini cristiani: la coscienza corrisponde all’evento della creazione dal nulla e a quello del battesimo, dove l’azione della grazia suscita, crea, rende possibile la risposta d’amore dell’uomo e del cristiano. Dal punto di vista umano, la coscienza corrisponde al mistero della nascita, ossia dell’essere consegnati a se stessi dall’amore del prossimo, che interpella nella forma del dono.
    Proprio l’analisi di ciò che è la fenomenologia di un dono ci può dunque far procedere nel nostro ragionamento.
    Pur essendo gratuito e assolutamente non esigibile dal soggetto, un dono non è certo senza conseguenze. Ognuno di noi, quasi per istinto, sa che quando riceve un regalo, deve contraccambiare, almeno con un grazie. Non è che il regalo compri il nostro grazie, come se in qualche modo pretendesse di essere pagato, e assolutamente non può essere un vero regalo se si aspettasse questo grazie come qualcosa di dovuto, di esigito con la forza, quasi col ricatto. Ma sicuramente nel cuore del ricevente si accende una responsabilità. La coscienza, fino ad allora grembo passivo di ricezione graziosa, diventa in certo qual modo capace di responsabilità, anzi, diremmo quasi in dovere di responsabilità. Ora la parola passa all’azione, alla decisione libera del soggetto. Una libertà che è lungi dall’immagine comune del fare ciò che si vuole o del non far del male agli altri, nella magra e triste consolazione che la mia libertà si ferma là dove inizia quella altrui, e si conforma molto di più a quel comandamento evangelico del dovere d’amore che il dono stesso ricevuto non può che postulare nella vita stessa del soggetto.
    Da ricevente allora diventa donante, capace anch’egli di riscoprire ciò che ha ricevuto per rendere grazie e per essere a sua volta dono gratuito per la vita di qualcun altro che anela ad essere destato nella sua umanità dal suo gesto d’amore.
    Così, in linea di massima, sembra feconda l’ipotesi che la condizione adulta sia la fase in cui la persona deve restituire a livello sociale i frutti della sua evoluzione personale e deve, quindi, ricambiare i doni ricevuti nel corso del suo processo di formazione personale.
    L’adulto ha costruito la sua individualità originale, il suo Io, solo perché è esistito un Noi che gli ha fornito l’aiuto necessario al suo farsi uomo. Senza questo Noi, che è l’espressione della solidarietà concreta di un gruppo sociale, così come viene vissuta direttamente dall’uomo nelle sue fasi evolutive, nessuna persona raggiungerebbe l’autonomia e la responsabilità tipiche dell’essere autocosciente. Il Noi, ovvero la cura che ogni uomo manifesta per gli altri uomini che condividono con lui lo spazio-tempo sociale, è una sorta di prestito che ogni persona, una volta divenuta adulta, deve restituire con gli interessi, alle nuove generazioni, divenendo per esse una espressione concreta dello stesso Noi.
    La definizione di età adulta come età della gratitudine e della restituzione, fa immediatamente venire in mente che per essere adulti è intrinseco e non accessorio il fatto di aver ricevuto, e che la prima parola da dire su se stessi non è “io sono” ma “grazie”, il primo gesto non è il proporre ma il rispondere.
    Trascinata da questo fraintendimento, l’educazione sta rischiando di scivolare nelle scienze dell’educazione, dimenticando di essere una pedagogia, ossia una teoria pratica dell’uomo integrale a favore dell’uomo integrale.
    Il fatto che spesse volte nella Bibbia il chiamato riceva contemporaneamente un nuovo nome, indica proprio il fatto che la realizzazione di se stessi o si trova all’interno della chiamata divina, oppure si è semplicemente impossibilitati a trovare il proprio io, il proprio vero nome.
    In questo senso profondo la vita è allora una vocazione, ossia una precisa chiamata a responsabilità, dove la libertà del soggetto non si trova, come spesso noi pensiamo, preformata di fronte alla chiamata di farsi dono di sé, ma proprio configurata nell’essere-ricevere-dare il dono che è la sua stessa esistenza per il bene degli altri. Per questo motivo non esiste realizzazione dell’io se non nel senso dell’essere chiamati, del rispondere, del “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. La trasformazione della realizzazione di se stessi nel senso dell’autoreferenzialità è una prospettiva estremamente riduttiva, che non solo non permette nella pastorale un discorso vocazionale, ma che, in radice, non permette all’educazione la formazione dell’adulto, quell’adulto integrale che la narrazione evangelica ci offre in modo chiaro.
    A partire da qui prende allora significato la spinta ad inserire nel proprio progetto pastorale il tema vocazionale. Non come tema a parte, non come aggiunta ad una serie di opere che già mettiamo in campo, ma come uno dei filoni conduttori del tutto, come una delle tematiche portanti di ogni intervento, perché o l’adulto, il buon cristiano e onesto cittadino è un chiamato, aperto alla totale disponibilità della risposta, oppure semplicemente non è. La vocazione non solo è termine del cammino, tappa finale di un itinerario, proposta ulteriore rispetto alla strada fin qui fatta, quasi un agguato finale alla libertà del soggetto, finora sempre abituata ad agire per sé sola e ora costretta a fare i conti con altro da sé. La presa sul serio della vocazione rompe i piani della nostra pastorale perché riconfigura fin dall’inizio i nostri itinerari per essere ripensati a partire non dalla distanza con Dio, ma dalla relazione con Lui.

    LA VOCAZIONE ALL’AMORE

    In conclusione dunque, il termine vocazione indica, analogicamente parlando, la situazione antropologica fondamentale per cui l’uomo è chiamato a vivere una vita fatta di donazione di sé. Egli è dunque in primo luogo un “chiamato all’amore”.
    Ovviamente non si tratta ancora del significato specifico del termine, ma in ogni caso è indice del fatto che il tema vocazionale fa parte di diritto della pastorale e concorre ad illuminare l’identità stessa della persona.
    Chiarito il fatto che la persona ha come vocazione fondamentale il dovere di donare se stessa, a causa della responsabilità contratta dalla ricezione del dono della vita, a questo punto non ci resta che entrare nello specifico, o meglio nel concreto realizzarsi di questa vocazione all’amore che contraddistingue ogni persona, per individuare in questo modo il significato fondamentale, l’analogato principale del termine in questione.

    La concretezza dell’amore

    Parlare di amore oggi ha il grosso difetto di lasciare purtroppo indefinita la propria concretezza.
    La riduzione dell’amore a puro sentimento individuale (per questo insondabile e automaticamente giustificato) è probabilmente la piaga più grossa che l’amore cristiano deve combattere.
    Nessuno si misura con la definizione di cosa sia l’amore, perché per definirlo occorre decidere della sua concretezza: quali gesti sono amore e quali no, a quali condizioni, con quale oggettività e soprattutto con quale metro di misura. Fare una cosa del genere sembra sempre più, anche nel nostro linguaggio comune, irrealizzabile; d’altronde, come proverbialmente si dice, “all’amore non si comanda!”.
    Si è ormai svuotata la parola amore dei gesti di cui è costituita! Si richiama il valore, ma non si indica più come metterlo in pratica, oppure si lascia che ognuno decida come fare, con la conseguenza che anche i gesti più in contraddizione tra loro sembrano essere posti sotto la stessa stella.
    Contraddicendo questa tendenza, il cristianesimo pone con rocciosa fermezza il duplice comandamento dell’amore, comandamento assoluto e necessario per la salvezza, da cui dipende la vita e la morte di ognuno.
    La testimonianza di Gesù è perentoria: la vocazione all’amore che tutti contraddistingue deve essere vissuta come forma del dono di sé, quindi secondo la forma di vita data dall’eucaristia. Questo è l’unico modo per essere non solo cristiani, ma addirittura umani.
    Il sacrificio eucaristico, che celebra il memoriale del dono della vita di Gesù, diventa al tempo stesso la fonte inestinguibile a cui ogni uomo può attingere perché il sacrificio di Cristo possa compiersi e riprodursi nella propria vita.
    Per questi motivi, la comunità cristiana, come germe, esempio, sostegno, porzione dell’intera umanità salvata e illuminata dal sacrificio di Cristo, trova la sua origine, ma anche la sua massima espressione, nella celebrazione sacramentale del sacrificio di Cristo, massima rivelazione del suo amore umano e divino.
    Possiamo così affermare con certezza che la vocazione all’amore che contraddistingue ogni uomo, è vocazione alla partecipazione allo stesso mistero di Cristo, alla piena conformazione a lui.
    Questa conformazione, che trova la sua pienezza nella celebrazione eucaristica, ha però la sua prima possibilità di realizzarsi nella recezione del sacramento del battesimo: l’azione per cui Cristo, nella Chiesa e attraverso la mediazione testimoniale del suo corpo mistico, ci forma come figli di Dio a sua immagine e somiglianza.
    Eccoci dunque giunti a definire quello che sembra essere il primo significato specifico del termine vocazione: essa è innanzitutto la chiamata di ogni uomo al battesimo, ossia alla piena conformazione a Cristo nella Chiesa per la salvezza propria e di tutti.
    Questo significa che, in termini propri, il vocato per eccellenza, ossia il termine di confronto di ogni vocazione, ma anche il termine insuperabile di ogni santità personale è semplicemente il battezzato. Non c’è nessuna ulteriorità a questo in senso qualitativo. Non ci sono vocazioni ulteriori migliori o più perfette dell’essere conformati a Cristo. Il laico cristiano è colui che vive nella Chiesa la sua esistenza umana nella stessa forma in cui l’ha vissuta Gesù Cristo.

    Eletti e chiamati ad essere Figli nel Figlio

    Questa vocazione è per tutti gli uomini. Ancora una volta ciò significa che nel nostro agire pastorale la vocazione non può essere corpo estraneo: è semplicemente, se così si può dire, l’essere conformati a Cristo nella comunità ecclesiale.
    In realtà però, proprio questa prima definizione di vocazione ci fa capire come essa non possa venire definita come semplice conseguenza di una pastorale ben condotta.
    Una buona animazione vocazionale non può essere scevra di un annuncio coraggioso, una proposta personale decisa e un costante accompagnamento personale. Questi tre elementi risultano essere essenziali per la comprensione e il conseguimento da parte del vocato della propria vocazione. La vocazione infatti, ossia la chiamata all’essere cristiano, pur apparendo come il compimento “naturale” dell’essere uomo o donna, non può dimenticare di essere pur sempre un compimento eccedente e salvifico.
    A partire dal peccato di Adamo, la conformazione di noi uomini sull’esatta immagine e somiglianza di Gesù è infatti perennemente intrecciata con la lotta contro il peccato e la concupiscenza, che conferisce in questo modo alla chiamata cristiana la caratteristica dell’inaudito, oltre che dell’assolutamente non conseguibile con le proprie forze. Inoltre, pur corrispondendo al desiderio dell’uomo, l’essere cristiani è per tutti, anche per i santi, anche per Maria, molto oltre, molto eccedente rispetto al desiderio umano, proprio perché pone l’uomo e la donna sulla stessa misura di Dio.
    Ecco che dunque la vocazione è contemporaneamente e tensionalmente compimento di ciò che l’uomo è, e richiesta alla libertà personale di essere lasciata condurre, in obbedienza allo Spirito, ben oltre il luogo in cui l’uomo può autonomamente aspirare di giungere. Senza un chiaro annuncio di tale meta, senza una proposta personale e decisa che metta il singolo di fronte a tanta benevolenza divina nei suoi confronti e senza un preciso accompagnamento personale, sarebbe impossibile per una semplice creatura raggiungere quelle mete che la vocazione divina gli propone.
    Ancora una precisazione importante: esistono varie forme di essere laico nella Chiesa, sono tutte vocazioni?
    Iniziamo ad addentrarci nel significato dell’essere laico. Esso è in primo luogo una personale conformazione a Cristo e, in modo assolutamente intrecciato e necessario, una appartenenza al corpo ecclesiale, come membra vive del Christus totus.
    Questo significa che la vocazione laicale comprende e trova la sua massima espressione nell’essere in comunione e nel fare comunione con Cristo e con gli altri laici nella Chiesa.
    Dal punto di vista antropologico esiste un modo naturale di fare comunione, che corrisponde in pieno alla natura dell’uomo e della donna e che la Chiesa ha da sempre assunto come proprio, tanto da “dedicarvi” un sacramento specifico: tale comunione è il matrimonio.
    Proseguendo questo ragionamento potremmo dire che se nella Chiesa non esiste la vocazione al single, perché tutto ciò che è Chiesa è comunione, la comunione principale degli uomini è anche il modo principale di realizzare la vocazione ecclesiale, ossia l’essere sposi e famiglia.
    I racconti della creazione nell’antico testamento e i discorsi di Gesù nei vangeli confermano questa idea: la vocazione dell’uomo è intrecciata a filo doppio all’“unite e moltiplicatevi”, e l’essere immagine di Dio significa non separare ciò che Dio stesso ha unito.

    Chiamati a fare comunione perché Dio è comunione

    Tornando al centro del nostro ragionamento possiamo dunque affermare che il battesimo segna una netta separazione rispetto al puro dato etnico e biologico, una decisa elezione da parte di Dio: l’entrata nella condizione cristiana. Esso è la prima e principale vocazione dell’uomo: l’essere figli di Dio. In questo modo il battesimo viene a compiere, nel senso evangelico del termine, ciò che già Adamo ha da sempre vissuto: la chiamata a formare una coppia, ossia una comunione di persone a “immagine di Dio”.
    Per questo l’elezione al battesimo è elezione al matrimonio, che resta la forma fondamentale e principale della vita di ogni cristiano, pur non essendo la vita laicale concretamente vissuta da tutti i cristiani.
    Se lo stato di vita del cristiano inaugurato nel battesimo è uno stato di comunione fondato da Cristo, il quale per eccellenza si è donato alla Chiesa e attraverso di essa al mondo, questo stato comunionale non è senza relazione al mistero della creazione dell’uomo e della donna e dunque al mistero della loro unione sponsale. Cristo, il quale non è venuto a dissolvere le opere della creazione, ma a dare ad esse il vero compimento, innalza a modello per la sua relazione con la Chiesa l’unione sponsale dell’uomo e della donna, consacrando tale unione espressamente come tratto distintivo del Nuovo Testamento. In questo modo le relazioni tra uomo e donna nel matrimonio e quella tra Cristo e la Chiesa divengono così strette che i due misteri possono essere compresi soltanto l’uno attraverso l’altro.
    L’unione tra uomo e donna non è niente di accidentale o di aggiuntivo per la persona umana, essa fa parte dell’essere uomo e donna nella sua intima identità, tanto che ogni narrazione biblica sull’uomo integrale e perfetto comprende l’unione e la comunione delle diversità tra uomo e donna, ma questa unione è proprio a “immagine di Dio”. Diventa così chiaro che l’identità del matrimonio non dipende semplicemente dalla “naturalità” dei sentimenti umani, o addirittura dalla condizione peccatrice in cui l’uomo si trova, ma viene da più lontano e mira più lontano. Cristo nel portare a compimento ogni cosa compì anche il matrimonio, riempiendolo di un contenuto di grazia che trae la sua origine dal mistero di Dio e trova il suo compimento nel mistero della croce, mistero di comunione e di fecondità, di dedizione e di unione indissolubile.
    La condizione del battezzato è però condizione viatrice, storica, ossia condizione di colui che, pur essendo già chiamato al matrimonio, deve ancora compiere un cammino di sviluppo personale e di coppia. Per questo fatto l’entrata nella condizione matrimoniale del battezzato è segnata da un sacramento particolare che concorre a definirne la nuova identità e a specificarne la condizione di fronte al coniuge, alla Chiesa e a Dio.
    Il matrimonio è, evidentemente, un istituto che non incomincia “cronologicamente” con Gesù, ma con Adamo. D’altra parte la fede ci insegna che Adamo ha un intimo legame con Gesù, perché l’uomo, fin dall’inizio, è creato in Cristo, ovvero tutto quanto possiede di creaturale ha un’intrinseca struttura filiale. Ciò significa che l’uomo può essere se stesso solo consegnandosi a Gesù e ricevendo in dono da lui la sua più propria identità; può conoscere il senso radicale dei suoi affetti, compreso quello coniugale, soltanto se gli viene rivelato.
    Per questo la rivelazione di Gesù conferisce la piena identità e il più autentico significato anche al vincolo coniugale.
    Ora se il matrimonio è un sacramento e se il sacramento è in sostanza l’azione propria di Gesù Cristo per unire a sé gli uomini e così costruire la Chiesa, da ciò consegue che il matrimonio è una “funzione” del Regno di Dio, ossia è orientato alla sua costituzione perché rende presente, e quindi attua, storicizza, l’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa.
    Una volta chiarito il senso del matrimonio come sacramento, ovvero come celebrazione attraverso cui Gesù Cristo unisce a sé gli uomini, introducendoli nel Regno, è necessario cogliere la relazione fondamentale che esso ha con il sacramento per eccellenza: la celebrazione eucaristica, in cui mediante il dono di sé Cristo compie in modo eminente la sua comunione con Dio Padre e con gli uomini e in cui abilita l’uomo alla stessa comunione vitale.
    Per questo la concezione cristiana del matrimonio è tutta orientata dall’Eucaristia, che esige e rende possibile all’uomo il dono totale della propria vita in conformità e in comunione con il dono di sé fatto da Gesù, che nel “fate questo in memoria di me” ci lascia il compendio della sua dottrina e il comandamento principale. Lì dove l’uomo e la donna sono chiamati a decidere radicalmente del loro amore, l’Eucaristia illumina e rende possibile la forma adeguata che deve assumere la loro decisione: il dono di sé. E questo è esattamente il sacramento del matrimonio, che propone l’amore coniugale come oblazione di sé, cioè come donazione incondizionata della propria vita a quella del coniuge. Si tratta evidentemente di una forma altissima e umanamente “insostenibile” di amore, che gli sposi possono assumere soltanto in forza dell’azione sacramentale del Signore e non con la sola forza della propria volontà o del proprio “umano” amore.
    Si può, pertanto, affermare che la stessa “carità” dell’eucaristia alimenta la carità del matrimonio; la stessa “grazia” dell’eucaristia opera nel matrimonio; lo stesso “Spirito” dell’eucaristia anima e vivifica il matrimonio.
    In base a quello che finora abbiamo suggerito sul sacramento del matrimonio, potremmo formulare questa definizione: il sacramento del matrimonio è la celebrazione attraverso cui il Cristo Risorto, con il dono dello Spirito, dà forma eucaristica all’amore sponsale di un uomo e di una donna, abilitandoli a donare la vita l’uno per l’altra in un legame indissolubile e fecondo che contribuisce all’edificazione della Chiesa.
    Al termine di questo ragionamento possiamo dunque affermare che soltanto analogicamente il matrimonio può essere definito vocazione. Esso è vocazione in quanto è attualizzazione dell’identità del battezzato, ma non nel senso di essere una chiamata specifica ulteriore rispetto all’essere battezzato stesso.
    Per questa stessa ragione occorre anche affermare che ogni forma in cui il laicato cristiano si può svolgere e attualizzare, non è vocazione in senso specifico, ma è vocazione in senso analogo, ossia nel senso che è la forma concreta in cui la vita di quel laico attualizza la propria santità personale e specifica, ma nulla aggiunge, dal punto di vista oggettivo, alla vocazione all’essere Christifideles laici.

    «La vocazione alla santità dev’essere percepita e vissuta dai fedeli laici, prima che come obbligo esigente e irrinunciabile, come segno luminoso dell’infinito amore del Padre che li ha rigenerati alla sua vita di santità. Tale vocazione, allora, deve dirsi una componente essenziale e inseparabile della nuova vita battesimale, e pertanto un elemento costitutivo della loro dignità. Nello stesso tempo la vocazione alla santità è intimamente connessa con la missione e con la responsabilità affidate ai fedeli laici nella Chiesa e nel mondo» (ChL 17).

    Il modo in cui tale santità si sviluppa nella vita di ognuno è assolutamente personale, segnato da molteplici fattori, non ultimo il fatto di svolgersi in un mondo peccatore e viatore, dunque imperfetto e ancora bisognoso di salvezza, ma in ogni caso, la vocazione resta sempre la stessa: è la vocazione battesimale.

    LA MIA VOCAZIONE È L’AMORE

    Le varie vocazioni però non possono essere definite soltanto attraverso il criterio delle scelte personali e singolari dei vari membri della Chiesa, ma hanno trovato nei secoli, ossia nella tradizione cattolica, un punto di riferimento ulteriore.

    La Chiesa è Madre dei suoi figli

    La Chiesa, oltre ad essere comunità di figli di Dio, è anche stata definita da sempre come Madre, generatrice di figli del Padre, mediazione non sostitutiva, ma necessaria per la formazione del corpo di Cristo e la nascita di nuove sue membra.
    Questo carattere materno ha contribuito fin da subito a definire due tipi di cristiani che all’interno della comunità occupano un posto particolare, il cui scopo è quello di favorire la santità di tutti.
    Il primo obiettivo è la possibilità di perpetuare la presenza di Cristo nella comunità mediante la riproposizione del suo ministero di capo e pastore dei fratelli. Questo ruolo, al quale si può essere introdotti soltanto da un preciso atto di Cristo stesso con la sua sposa, ossia da un sacramento, è svolto dai ministri ordinati, i quali assumono un ruolo non laicale, ma di ministero sacerdotale ordinato per il bene proprio e di tutti.
    Il secondo obiettivo è di riproporre in modo radicale la stessa vita di Gesù Cristo nella storia contemporanea, radicalizzando i consigli evangelici insiti nel battesimo fino a farli diventare veri e propri voti pubblici, con l’obiettivo di proporre a tutti i laici la concreta possibilità di vivere la propria esistenza esattamente nella forma in cui l’avrebbe vissuta Gesù se fosse stato nostro contemporaneo. Essi hanno dunque il ruolo di, per così dire, seguire Cristo più da vicino, additandolo in questo modo a tutti i laici come meta e sequela possibile. Tale compito non viene assunto mediante un sacramento particolare, ma mediante il riconoscimento da parte della Chiesa di una particolare condizione in cui il fedele si pone e viene posto dallo Spirito: la condizione di consacrato.
    Entrambi questi ruoli ecclesiali, il ministro ordinato e il consacrato, richiedono al fedele l’assunzione di una forma particolare di vita, di amore concreto, di risposta al dono ricevuto da parte del Padre, che non è richiesta a tutti i laici, ma è per il bene di tutti.
    Essi sono posti oggettivamente in una condizione differente perché chiamati ad assumere nella Chiesa una funzione di servizio e di luce sul cammino a vantaggio di tutti. Basti pensare alla differente condizione con cui essi vivono concretamente il comandamento dell’amore nella forma della castità e del celibato per rendersi conto di questa oggettiva diversità di stato.
    Questo ruolo che essi si assumono ha inoltre un carattere particolare: esso è permanente e pone il soggetto in uno stato di vita del tutto particolare che comprende ogni aspetto della sua esistenza e si estende per tutta la durata della sua vita. Non è soltanto una funzione transitoria, o una condizione di servizio transeunte, o di semplice ministero nei riguardi di terzi, ma un vero e proprio caratterizzare la vita intera della persona fino a conformarsi a Cristo in un particolare modo. La tradizione ecclesiale ha chiamato questi ruoli con il nome di stati di vita.
    Laicato, ministero ordinato e vita consacrata vengono così definiti dalla tradizione come i tre stati di vita della Chiesa e Giovanni Paolo II ha confermato l’attenzione della Chiesa verso di essi proponendo durante il suo pontificato tre Sinodi destinati a questi stati di vita con le relative esortazioni apostoliche (ChL, PDV, VC): «Questo Sinodo, venendo dopo quelli dedicati ai laici e ai presbiteri, completa la trattazione delle peculiarità che caratterizzano gli stati di vita voluti dal Signore Gesù per la sua Chiesa. Se infatti nel Concilio Vaticano II è stata sottolineata la grande realtà della comunione ecclesiale, nella quale convergono tutti i doni in vista della costruzione del Corpo di Cristo e della missione della Chiesa nel mondo, in questi ultimi anni si è avvertita la necessità di esplicitare meglio l’identità dei vari stati di vita, la loro vocazione e la loro missione specifica nella Chiesa. La comunione nella Chiesa non è infatti uniformità, ma dono dello Spirito che passa anche attraverso la varietà dei carismi e degli stati di vita. Questi saranno tanto più utili alla Chiesa e alla sua missione, quanto maggiore sarà il rispetto della loro identità. In effetti, ogni dono dello Spirito è concesso perché fruttifichi per il Signore nella crescita della fraternità e della missione» (VC 4).
    L’assunzione da parte del laico di uno stato di vita diverso da quello di partenza non può essere soltanto decisione personale o autodeterminazione, ma proviene da un preciso dono divino: la vocazione di speciale consacrazione. Eccoci dunque all’individuazione di un ulteriore significato proprio del termine vocazione: la chiamata al ministero ordinato o alla consacrazione.

    Vocazioni di speciale consacrazione

    Quindi, riassumendo: vocazione è in modo proprio usato per indicare la chiamata a far parte della Chiesa (vocazione battesimale) o ad assumere in essa un particolare stato di vita (vocazione di speciale consacrazione), mentre in senso analogo può essere utilizzato per indicare le forme concrete in cui si viene a definire lo stato battesimale, ministeriale o consacrato (le vocazioni singolari o proprie di ciascuno).
    Non deve trarre in inganno la suddivisione dei tre stati di vita, inducendo a credere ad una netta separazione degli stati. Come la storia della Chiesa insegna, a partire dal fatto che si sta sempre parlando in primo luogo di una comunione “corporale” di membra, l’identità del singolo cristiano può essere in realtà molto più complessa. Esistono infatti laici consacrati, ministri consacrati, forme di vita personali segnate da voti privati, nuove forme di consacrazione…
    Preme comunque far osservare che al di là dei cammini dei singoli, due sono comunque i riferimenti essenziali per un retto discernimento della vocazione di ciascuno: la scelta libera e consapevole della persona e il riconoscimento di tale volontà da parte della Chiesa fino a riconoscere in tale modalità di vita un esempio da proporre come tale perché santamente ispirato, radicato nel patrimonio rivelato della fede e ecclesialmente riconosciuto come modo privilegiato di vivere la conformità della propria vita a quella del Signore Gesù.
    La riscoperta della realtà sinfonica della comunione ecclesiale permetterebbe di uscire sia dal “clericalismo” della comunità cristiana, sia dal generico invito alla partecipazione in stile democratico, evitando quindi di bollare ogni scelta di vita come vocazione allo stesso livello di quelle qui sopra descritte e, contemporaneamente, isolare le vocazioni di speciale consacrazione a caso così estremo e particolare, da essere ulteriore e senza relazione con la “normale” via del cristiano.
    Se il discorso delle vocazioni mette in luce la complementarità e la reciprocità delle stesse, nessuna vocazione può essere definita senza rapporto con le altre. Nell’unità della vocazione battesimale, le molte vocazioni personali operano una concentrazione paradigmatica dei due elementi essenziali della vocazione, connotandoli diversamente a partire da una data situazione storica e umana: la dedizione al Signore, in una comunità fraterna.
    Ma ogni vocazione, o stato di vita, non è mai alternativa all’altra, anzi contiene in misura diversa anche taluni elementi dell’altra. In parole più semplici: ogni vocazione impara dalle altre ciò che manca a se stessa o, meglio, vede nell’altra la possibilità di concentrarsi sinteticamente attorno ad un elemento altrettanto essenziale del mistero di Gesù. Ognuno può e deve riconoscere sul volto dell’altro ciò che manca alla propria vocazione.
    In questo modo è possibile cercare di comprendere sempre meglio la particolare relazione reciproca dei tre stati di vita ecclesiali: lo stato laicale/matrimoniale, quello della consacrazione religiosa e del sacerdozio ministeriale.

    L’intreccio delle vocazioni

    In primo luogo lo stato sacerdotale e quello dei consigli evangelici, di fronte allo stato matrimoniale o laicale, possono venire illuminati come vocazione speciale, differenziata dal fatto che il primo esige una sequela più stretta a Cristo indirettamente, a motivo dell’ufficio conferito, la seconda la esige in maniera diretta, a motivo della forma di vita consegnata personalmente. Ma questi due stati di vita speciali, che sono caratterizzati da una seconda elezione divina dopo quella battesimale, sono chiaramente strumentali allo stato principale nella Chiesa, lo stato laicale/matrimoniale. I laici infatti devono rappresentare nella maniera più perfetta possibile l’amore cristiano a Dio e al prossimo nella loro quotidianità e irradiare così nel loro ambiente una luce calda, profonda, fruttuosa. Questo potrà accadere se essi tradurranno negli ambiti del mondo gli impulsi provenienti dalla Chiesa e li condurranno avanti competentemente.
    I laici dunque non devono attendere dalla comunità il conferimento di un ministero ulteriore al loro, come se il fatto di essere “semplicemente laici” non fosse ancora abbastanza per l’essere cristiani impegnati e maturi, così come consacrati e sacerdoti non si devono attendere dai laici che essi li sostituiscano nelle loro funzioni, né devono prevaricare rispetto ai loro ruoli e compiti specifici. Soltanto in questo modo sarà possibile fondare e sviluppare una CEP o comunità educante che sia effettivamente “ecclesiale”.
    A partire da questa profonda relazionalità delle vocazioni sarà possibile una reale e reciproca coappartenenza degli stati di vita ecclesiali attraverso cui l’amore diventi la forma ultima della vita ecclesiale.
    Riassumendo mediante le espressioni di un celebre teologo, potremmo dire:
    “Ogni stato di vita è tale in quanto rappresentazione di qualcosa che è presente anche negli altri stati di vita:
    – lo stato sacerdotale è la rappresentazione della assolutezza della redenzione di Cristo, la garanzia della sua presenza e dell’essere sacramentale della Grazia in tutta la vita della Chiesa. Esso è il custode e, per volere di Dio, la condizione che rende sempre nuovamente possibile questo essere;
    – l’ordine religioso è la rappresentazione dell’assolutezza del cristiano “dover essere” in base all’essere, dell’incondizionatezza della divina esigenza di coincidenza di essere e dover essere, quale viene presentata ad ogni cristiano: al prete per primo, ma così pure anche al laico;
    – lo stato laicale è lo stato della Chiesa stessa, la quale, collocata fuori del mondo dal fatto della redenzione e chiamata fuori da Cristo stesso, è autorizzata e chiamata dallo Spirito Santo ad essere uno stato di vita con il Figlio presso il Padre” (Von Balthasar).
    Pastoralmente parlando queste vocazioni in senso proprio, o di speciale consacrazione hanno dunque bisogno, nel cammino comunitario e personale, di una particolare attenzione, proprio perché esse si pongono come “ulteriori”, “speciali”, particolari rispetto al “normale” modo di vivere la santità dei laici. Grande cura deve essere infatti tenuta nei loro confronti sia perché il singolo possa discernere tale chiamata in modo libero e consapevole, sia perché la Chiesa possa vedere nella decisione del giovane una vera chiamata divina.
    Tali attenzioni pastorali e scelte di vita si collocano nel solco del cammino precedente del singolo e della comunità, dunque a buon diritto sono il frutto maturo della ordinaria pastorale giovanile ecclesiale, ma allo stesso tempo pongono un salto di qualità, una differenza sostanziale che non è soltanto frutto del cammino precedente, ma di un intervento diretto dello Spirito che deve essere individuato, curato, sostenuto e prolungato nella storia nel vocato. Per questo è assolutamente necessaria una efficace animazione vocazionale che, prolungando e specificando l’azione pastorale ordinaria, illumini le coscienze credenti e ne sostenga i cammini di santità.


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