“Io sono la verità” (Gv 14,6)
Carmine Di Sante
(NPG 04-03-3)
“Quid est veritas, “cos’è la verità”? – chiede il procuratore Ponzio Pilato a Gesù, consegnatogli dal sommo sacerdote Caifa per essere giudicato per le affermazioni con cui rivendicava di essere lui il re dei giudei (Gv 18,38).
A questa domanda pretende dare risposta la filosofia che, da sempre, è e si vuole come ricerca della verità, come a-letheia, il termine greco per verità che significa non-occultamento, dis-occultamento o s-velamento, secondo l’etimo della parola dove la particella “a” ha valore privativo e la seconda parte, letheia, da lanthano, vuol dire nascondimento.
Secondo la definizione classica dovuta a Tommaso d’Aquino e risalente, nella sostanza, allo stesso Aristotele, la verità, per la filosofia, è adeguatio rei et intellectus, “l’adeguazione tra la cosa e la mente”, tra la realtà intesa come interrogazione alla intelligenza e l’intelligenza intesa come potenza di conoscenza che la riflette in sé, come in uno specchio, rap-presentandola e così riproducendola e com-prendendola, nel duplice significato di prenderla per riprodurla nella mente e, riproducendola, di sapere cos’è. Per la filosofia le cose ci sono per essere conosciute e il senso dell’esserci dell’uomo nel mondo è di conoscerle. Per essa tra le cose e l’intelligenza umana c’è una tacita connivenza, per cui le cose si offrono all’intelligenza, come l’amata nelle braccia dell’amante, e questa le dis-vela o dis-occulta, togliendo il velo che le custodisce nel segreto.
Per Heidegger alla radice della violenza dell’occidente c’è la concezione della verità così intesa, che sottrae le cose al mistero da cui provengono per ridurle ad oggetto della volontà di dominio dell’uomo; e ad essa il filosofo tedesco oppone la sua nuova interpretazione dell’aletheia, da intendere non come l’io che disocculta le cose bensì come le cose che, provenendo dal loro nascondimento, si disoccultano e si offrono all’uomo come dono da accogliere nella riconoscenza e nello stupore.
Per Heidegger a fondamento del dominio della tecnica che si sta facendo sempre più planetaria e onniavvolgente, dalla conquista dello spazio alla manipolazione dell’embrione, alla ricostruzione della mappa del genoma umano, ci sarebbe questa nuova concezione della verità, da ciò che si disocculta o svela per l’uomo a ciò che è disoccultato o svelato dall’uomo: “Che la verità sia concepita come ‘messa in chiaro’ significa infatti farla risultare da un’operazione del soggetto (l’io, l’esistente che fa luce in questo o quel modo da lui escogitati, per esempio adeguando la cosa all’intelletto, o immaginando la cosa propria rappresentazione), e non da un atto di quella matrice oscura che a sua volta ‘illumina’ e fa essere il soggetto. Solo l’arte avrebbe saputo salvaguardare questo secondo senso; gli autori invece che stanno alla base di tutte le sempre soltanto presunte svolte del pensiero – Platone, Cartesio, Fichte e infine Nietzsche, che porta il processo alle estreme conseguenze – hanno tutti pensato la verità nel primo modo. Dopo Nietzsche la tecnica ha via libera: la tecnica realizza la volontà di potenza, organizzando il mondo come puro oggetto del soggetto, cioè come qualcosa che non ha altra verità o senso al di fuori di quelli che gli derivano dai vari usi o fruizioni o manipolazioni da parte del soggetto. Dall’‘abisso senza fondo’ di questa perfetta alienazione – sempre secondo Heidegger – non si esce per mezzo di un gesto del soggetto, che evidentemente non potrebbe che confermare la volontà di potenza, ma semmai in virtù dell’iniziativa dell’essere, di cui però, nel nulla in cui siamo, non si può dire nulla” (S. Quinzio, La croce e il nulla, Adelphi Edizioni, Milano 1984, pp. 22-23).
Se per la filosofia greca la verità si attinge nell’orizzonte conoscitivo, all’interno del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto, per la bibbia essa emerge e si attesta nell’orizzonte interpersonale e intersoggettivo, all’interno della relazione d’amore tra chi ama ed è amato. La differenza profonda tra la veritas greca e la veritas biblica non è che questa neghi il rapporto di conoscenza tra l’uomo e il mondo o che essa metta in discussione il principio di adeguamento tra il conoscente e il conosciuto, perché anche l’uomo biblico “conosce” il mondo e, come per il greco, la sua conoscenza è “vera” o “falsa” a seconda del suo adeguamento alla realtà conosciuta. Neppure la differenza tra la veritas greca e la veritas biblica coincide con la critica di Heidegger alla prima: se è infatti vero che la verità come il disvelamento della realtà al soggetto è più vicino alla bibbia della verità come disvelamento della realtà da parte del soggetto (questo spiega il fascino esercitato da Heidegger sulla teologia!), è ancora più vero che, per la bibbia, non si tratta della realtà che si rivela al soggetto dotato di intelligenza ma di un Tu – il Tu di Dio – che si china su ogni singolo uomo, nella sua unicità e singolarità irriducibile, accogliendolo e amandolo gratuitamente.
È qui che va colta la differenza irriducibile tra la veritas greca e la veritas biblica: nel fatto che la prima si istituisce nell’orizzonte conoscitivo identitario, mentre la seconda oltre e altro da esso, nello spazio dell’amore gratuito, dove prioritario non è il conoscere e l’essere conosciuti, bensì l’essere amati e l’amare come si è amati. Per questo, nel suo discorso di addio, Gesù si autodefinisce come la verità stessa (“Io sono la verità) e a Pilato che gli chiede cosa sia la verità, risponde: “Per questo io sono nato e per questo io sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Gesù è la verità e la sua vita è testimonianza della verità perché egli, con le sue parole e le sue opere e soprattutto con la sua morte in croce, è l’Amore stesso. Amore impensabile, gratuito e disinteressato che ritiene la vita di chi lo uccide più importante della sua, alla quale rinuncia facendo della sua morte liberamente assunta un atto di donazione di amore.
Ne Il Sogno di un uomo ridicolo e la mite di Dostoevskij, il personaggio centrale del racconto, per il quale tutto è indifferente e vuole suicidarsi, quando viene afferrato per un braccio da una bambina disperata che invoca aiuto, non solo desiste dal proposito di togliersi la vita, ma scopre e rivela l’unica verità da proclamare come assoluta: “La verità, perché io l’ho vista, l’ho vista con i miei occhi, vista in tutta la sua gloria (...): È una vecchia verità, ma è impossibile che io mi perda troppo. Perché io ho visto la verità, perché io ho visto e io so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la possibilità di vivere sulla terra. Io non posso e non voglio credere che il male sia la condizione normale degli uomini (...); io ho visto la verità; non me la sono inventata nella mia testa; l’ho vista, io l’ho vista e la sua immagine vivente ha riempito per sempre la mia anima. Io l’ho vista in una pienezza così totale per cui non posso credere che essa non possa esistere negli uomini (...). E intanto, la cosa è così semplice: in un giorno, in un’ora tutto potrebbe essere fatto di colpo! Ciò che conta: ama il tuo prossimo come te stesso, ecco quello che conta; è tutto qui, e non serve nient’altro: troverai immediatamente tutto il resto. E intanto, questa non è altro che una vecchia verità che è stata sempre ripetuta, che è stata letta bilioni di volte, eppure non ha ancora piantato la radici!”.
L’amore è l’unica verità che dà senso alla vita conferendole la forma della vita eterna, come vuole la parabola del buon samaritano (Lc 10, 29-37). Di questo amore Gesù è l’incarnazione stessa, come ci ricorda il segnavia che porta incise le parole: “Io sono la verità”.