Suggerimenti per la vita dei giovani preti e la loro formazione pastorale
Domenico Sigalini
(NPG 2004-03-21)
Premessa
Il punto di vista necessario da cui ci si deve porre è che non si tratta di preti giovani, ma di giovani che fanno i preti, dove, al di là del gioco di parole, quello che emerge come nota caratteristica non è la giovinezza del prete, ma la giovinezza in sé, che si è rivestita dell’essere presbitero, che fatica ad essere vissuta in termini veri, nuovi e decisi nella missione presbiterale e che nello stesso tempo si presenta come ricchezza che può donare alla vita di un presbiterio e novità di vita spirituale e slancio pastorale. Si tratta infatti di far convivere una sorta di controsenso: la giovinezza di un qualsiasi ragazzo delle nostre comunità cristiane e la saggezza, maturità che il vocabolo stesso “presbitero” esige e nello stesso tempo entrare nella tradizione pastorale della Chiesa e inscrivervi la freschezza del punto di vista giovanile.
Quando diciamo giovane, diciamo tutta una serie di nuovi modi di affrontare la vita, di difficile situazione di postmodernità liquida nel darsi identità, di nuovi modi di comunicare, di spazi “eterni” per decidersi, che non possono essere lasciati all’automatismo di una impostazione educativa classica, che ancora in alcuni seminari sopravvive, e tanto meno alla sola qualificazione di tipo universitario che offre la teologia. Non esiste più nessun luogo protetto che può costringere un giovane a concentrarsi in una prospettiva educativa. Il cellulare e internet sono solo due porte, ma sempre aperte e capaci di creare immaginazione e relazioni oltre ogni pur libero e tollerante modello educativo. Fanno parte ormai della sfera assolutamente interiore e pure insindacabile della persona. Non si tratta di controllo, ma di educazione personale. L’approfondimento culturale universitario, fatto pure di studi sacri, non è sufficiente a creare quella sintesi interiore di cui ha bisogno un giovane, per vivere da prete. L’essere presbitero non è come esercitare una professione, come avviene per tutti gli altri mestieri cui abilitano i corsi universitari, ma è rispondere a una vocazione che coinvolge tutta la vita, la scelta di fede, la scelta affettiva, l’identità fino nella profondità della coscienza. È sicuramente anche una collocazione sociale, ma molto di più e prima una missione ecclesiale.
Anche i giovani preti desiderano, come tutti, essere felici e amano la loro vita.
Anche per loro vivere:
– è quell’insieme di sentimenti, di tensioni, di desideri, di gioie e di speranze, di delusioni e di certezze che tutti siamo;
– è il loro corpo col tempo passato nel silenzio dell’anima, o stretto tra i molteplici impegni che non lasciano loro respiro, o costretto sotto le domande petulanti di qualcuno;
– è il loro diario interiore, quel sacrario intenso fatto di gusti, di cose da possedere e da amare, di musiche da ascoltare, di sfizi da cavare, di hobby da coltivare;
– è l’insieme delle loro rabbie, del mandare al diavolo tutti, gridato tra i denti, perché non ne possono più, e tornare comprensivi a fare quel che debbono;
– è l’insieme delle ore passate senza trovare alcun senso alla vita;
– è l’insieme dei battiti di cuore, delle emozioni per una persona che vorrebbero amare, ma che hanno deciso solo di servire;
– è l’insieme dei doppi pensieri di cui tutti ci vergogniamo e che nessuno dovrà mai sapere;
– è l’insieme dei progetti e dei sogni, delle fanciullaggini che ancora si trovano in corpo, delle piccole innocenti soddisfazioni che si prendono e che nessuno capisce;
– è sentirsi fatti per cose grandi, ma trovarsi sempre a piedi come polli;
– è star bene, essere su di giri un giorno, e l’altro invece annoiarsi a morire;
– è dialogo intenso e intimo con un Dio, amico, ineffabile e personalissimo, e sentire il peso di una ripetitività che li svuota;
– è celebrare l’Eucaristia qualche volta con un senso di timore e consapevolezza di mistero, e altre volte sentirsi espropriati di un minimo di partecipazione interiore;
– è voglia di concentrare l’attenzione su di sé, perché non avrebbero mai pensato di giungere a tanto, e sentirsi proiettati o risucchiati dal dovere, dal ruolo, dagli altri...;
– è volersi fare i fatti propri, e sentirsi sempre su un piedistallo, stretto dentro una categoria;
– è volersi esprimere per quello che si è, e sentirsi sempre valutato per il ruolo che si ha...
Dove possono continuamente ritrovare ragioni fresche di vita, per sé ancor prima che per gli altri? È possibile disgiungere la loro vita da quella del loro popolo? Non si tratta di separare, sarebbe una falsità, ma di vivere in profondità, di aiutarli a scavare, nella propria dignità di persone e di cristiani, un atteggiamento di fondo che li porta ad imitare Gesù, che non era un sacerdote del tempio, non era un uomo dell’organizzazione, ma aveva una sua vita interiore conquistata e difesa coi denti dagli impegni, dagli “orari”, dalla gente.
Se questo è un punto di partenza, che anche noi preti adulti dobbiamo vivere, allora possiamo entrare più nel vivo del discorso e cercare di offrire ai giovani la nostra esperienza.
LA STIMA PROFONDA VERSO I GIOVANI PRESBITERI NELLA LORO SITUAZIONE ANTROPOLOGICA
La predichiamo per i giovani e spesso la neghiamo per i giovani preti. Per i giovani abbiamo tutte le comprensioni, ci morsichiamo la lingua quando ci scappa di dire: “ai miei tempi”, mentre con i giovani preti non c’è quella accoglienza incondizionata che è necessaria ai giovani come l’aria che respirano. Prevale sempre l’acida constatazione delle inadempienze, piuttosto che la calda comprensione di un percorso di crescita. Possono sentirsi dire dai superiori come i giovani dal Papa: voi siete all’altezza delle generazioni che vi hanno preceduto... il Signore vi vuole bene anche quando noi lo deludiamo… voi siete un pensiero di Dio, il palpito del cuore di Dio? Ci sembrano sprecate, ma se un giovane prete si sentisse dire questo dal suo vescovo o dal suo parroco, all’inizio della sua vita da presbitero, sarebbe molto più aiutato a vivere da prete che dall’elenco dei nuovi orari delle messe o degli impegni in parrocchia. La questione però non è solo di parole o di belle espressioni, ma di contesto e di nuove relazioni personali e pastorali.
Tale atteggiamento deve essere, non tanto generico, ma ben circostanziato, secondo alcune caratteristiche tipiche del mondo giovanile.
La lenta transizione all’età adulta
* Il fatto: sappiamo da rilevazioni non casuali,[1] oltre che dall’esperienza quotidiana, quanto sia difficile e arduo per un giovane diventare adulto. Riporto, per la precisione, i dati Iard. Se per passaggio all’età adulta si intende avere acquisito almeno questi cinque elementi: fine del percorso formativo, acquisizione di un lavoro, indipendenza economica dai genitori, creazione di una propria famiglia, esperienza della paternità o maternità, nel mondo giovanile di oggi tale acquisizione diventa ancora più lenta. Non è un fenomeno solo di oggi. È da tempo che si parla in Italia di famiglia lunga. Oggi però siamo in grado di chiarire che il fenomeno non è dovuto principalmente a mancanza di lavoro o di alloggio, o ad allungamento di percorsi scolastici, ma a un condensato di motivazioni psicologiche, sociologiche, famigliari, personali, di identità e di immagine di sé, che caratterizzano la nostra società [2] e che influiscono sulla decisione del singolo in termini di modo di pensare, di cultura. Non c’è uno slittamento globale di tutte le tappe, ma una vera dilazione anche tra l’una e l’altra. Per esempio, non è detto che, terminati gli studi, o trovato il lavoro, l’indipendenza economica e abitativa, si decida di fare la nuova famiglia.
I passaggi sono più lenti tra gli scolarizzati; questo, secondo me, indica anche che tutto l’impianto formativo è separato dalla vita, dal gusto di vivere, dalla dimensione più umana e coinvolgente dell’esistenza, è astratto, è senza concretezza. Non è l’ignoranza che fa decidere di più di buttarsi nella vita, ma l’astrattezza che fa stare guardinghi e sfiduciati di fronte alle qualità della bellezza dell’esistenza. L’influsso dei genitori, in questo prolungamento, non è secondario, anzi è piuttosto complice.
* Il nodo per i preti: diventare adulto, per un giovane prete, è ancora più necessario, proprio per la sua missione. Sappiamo che la scelta di iniziare gli studi teologici non è più, come qualche decennio fa, una scelta definitiva, ma l’inizio solo di una ricerca, che spesso non ha come unico sbocco l’ordinazione presbiterale. Del resto, sappiamo anche come non pochi presbiteri abbandonano il sacerdozio proprio solo alcuni anni, se non mesi, dopo l’ordinazione sacerdotale. Lo stesso capita a ragazzi e ragazze che si separano dopo pochissimo tempo della celebrazione del matrimonio. Gli studi statistici hanno fotografato che, verso il 25° anno di età, c’è una nuova rimessa in discussione delle proprie decisioni o una necessità di riprendersi in mano la vita con un’altra maturità, non sempre più serena e capace di assumersi rischi e responsabilità.[3] Non si tratta di rivedere solo l’età della ordinazione, ma sicuramente di proporre esperienze capaci di far sperimentare rischio, solitudine, frammentarietà, insicurezza, non come incidenti di percorso, ma come passi obbligati, entro i quali scrivere le proprie decisioni e nello stesso tempo garantire affidamento a una guida esperta, laboratori di pastorale concreta, relazioni di vita significative, vita interiore personale e condivisione di responsabilità.
La difficoltà a costruire una propria identità oltre le delusioni del contesto sociale
* Il fatto: in una società dell’incertezza, che si chiama anche società liquida, la prima sicurezza che ne risente è quella della identità, per la costruzione della quale la fatica è improba. L’identità propria che ogni persona ha cercato di costruire a fatica, quando si vede che non è più spendibile o nel lavoro o nel campo degli affetti, diventa un peso e serve di più avere agilità per cambiarla, che forza di resistere. “La principale e più snervante delle preoccupazioni non è quella di trovare posto all’interno della solida struttura della classe o della categoria sociale e, una volta trovatolo, di difenderlo e scongiurare lo sfratto; ciò che preoccupa è invece il sospetto che questa struttura faticosamente conquistata possa venire repentinamente lacerata o dissolta”.[4]
* Il nodo per i preti: se questo è vero, esiste una data che può dire conclusa la costruzione di una figura presbiterale? è una acquisizione definita o pur sempre uno stato di vita che esige un lento cammino di crescita, sempre da percorrere, anche se entro decisioni irrevocabili? Lo stesso modo di vivere l’essere preti è molto vario all’interno della vita ecclesiale di oggi. Il primo ruolo o incarico presbiterale non è sempre visto nella prospettiva dell’identità che si è costruita nella preparazione. È possibile una percezione di inadeguatezza. Esiste e quale è quell’elemento dell’identità che sta in tutte le possibili esperienze di vita sacerdotale e in quale di esse si può maggiormente aiutare il giovane prete a definire la sua identità sacerdotale? Non si tratta di navigare a vista, di rimandare sempre la scelta, perché il sacramento dell’ordine è un dono di Dio irrevocabile, da servire con coraggio e con dedizione, ma sappiamo quanto può contare per una felice vita da preti essere agili nell’interpretare tutte le situazioni di vita pastorale come cammino personale di realizzazione del piano di Dio su di sé e di santità. Non si deve procedere per tentativi, quasi che siano i modi di realizzare l’essere prete che contano, ma lo si aiuta a dare alla identità sacerdotale la decisione di servire il regno da prete, nella profondità della sua coscienza.
La precarietà, come leva per acquisire competenza e responsabilità (può esserci un prete giovane precario?)
* Il fatto: oggi la ricerca del posto di lavoro è per i giovani una fatica non piccola e piena di delusioni e un insieme di frustrazioni e incertezze. Infatti, se è vero che non c’è più quella grande disoccupazione degli anni passati, oggi c’è la precarietà, cioè la necessità di passare attraverso lavori eterogenei, diseguali, parziali. Il lavoro non è più una tappa finale irreversibile, ma una esperienza intermittente: diffusione di periodi di lavoro brevi, orario limitato, lavoro occasionale. Nello stesso tempo però è una nuova strada per trovare il proprio posto nel mondo e nella vita, per definirsi come persona e come adulto. Esagerando, ma non troppo, oserei dire che se un giovane trovasse immediatamente un lavoro definitivo e fisso, prima o poi si sentirebbe frustrato e mancante di qualcosa, per non avere applicato a tale ricerca le sue qualità, la risorsa grande che è il rischio, la necessità di una precarietà che, a suo modo, è pure formativa; non si farebbe tutta quella esperienza, non solo professionale, ma anche umana e relazionale di cui deve essere attrezzato per sentirsi sicuro e divenire adulto.
* Il nodo per i preti: per un giovane prete non c’è ricerca del posto di lavoro, non c’è questo tipo di precarietà, come l’ha vissuta prima di entrare in seminario o come la vivono i suoi coetanei con cui deve confrontarsi. Gli resta dentro la carenza di un esercizio delle proprie capacità, una impressione di essere stato inscatolato in una catena di montaggio senza appello. Potremmo dire che non si tratta di un lavoro, ma di una vocazione. È vero, ma possiamo tener conto di alcune stanchezze, di alcuni confronti con i propri coetanei, di fallimenti nella propria missione, che giocano una parte non piccola nelle crisi del giovane prete. Un intervento sicuramente che potrebbe aiutare a superare queste secche è quello di attivare sempre di più impieghi pastorali di rete e diversificati. Un lavoro in unità pastorali per esempio, può benissimo offrire diversi modi di impiegare la propria qualificazione pastorale, la capacità comunicativa, i talenti personali, le propensioni. Non è poi così standardizzata la vita del prete, soprattutto se si opera in rete e si qualifica maggiormente la proposta di vita cristiana. Questa non è precarietà, ma offre quei vantaggi e quella acquisizione di libertà e responsabilità personale, che l’attivazione della propria fantasia nel cercare il lavoro produce in molti giovani.
Il modello comunicativo come spazio del proprio privato
* Il fatto: la comunicazione sta diventando, come è sempre stata e come è giusto che sia, da strumento per passare informazioni, a tessuto indispensabile di vita di relazione. Gli strumenti molteplici a disposizione, e in Internet e nel cellulare troviamo le espressioni più simboliche, offrono ai giovani uno spazio del tutto personale, privato, insindacabile, creativo con cui stabilire relazioni. Gli strumenti hanno fatto crollare i limiti spaziali, non solo i controlli, sono divenuti molto intriganti e molto pervasivi e creano non piccole assuefazioni oltre che sottrazione di tempo dedicato. Direi che da un certo punto di vista si è ampliata la sfera della vita personale, la sua vita privata, proprio perché ciascuno ha la chiave della rete delle sue relazioni. Sono relazioni virtuali, ma sempre relazioni sono. Capita allora che il giovane prete si dedichi a Internet per tutto quello che gli serve di informazioni, di relazioni, di posta, di dialoghi, spesso anche di svago e che il suo cellulare sia anche per lui il modello più coinvolgente di comunicazione con i suoi amici, i giovani, le piccole o grandi relazioni, i dialoghi spirituali…
* Il nodo per i preti: la gestione del virtuale, per un prete, che è sempre colui che presiede la comunione di una comunità, non ridotta a celebrazione di un rito, ma ampliata a tutta la vita, è decisiva, sia dell’esito del proprio lavoro, sia della propria vita personale. Se il virtuale si confonde con virtù (attitudine interiore a esprimere vita di fede), o anche solo con atteggiamento o comportamento (gesto concreto di solidarietà o comunione), allora avremo un giovane prete che si costruisce il suo loculo come fanno tanti giovani. Se invece il virtuale è veramente la gioia di provare le proprie capacità di relazione, per viverle al meglio nella sacramentalità degli incontri di salvezza e nelle relazioni personali, allora vale la pena di spendere qualche tempo in questo nuovo modello di relazioni, che aiutano a capire di più il mondo e le persone. Anche questo è un atteggiamento da educare, è una comunicazione da far crescere, è una abilità da acquisire. In questo campo, la condivisione degli stessi comportamenti con il mondo giovanile vale più di tante lezioni teoriche, se c’è una comunità che investe in questi campi, per ampliare la capacità comunicativa dello stesso messaggio di fede. Detto in termini più semplici, una parrocchia cablata, che si apre anche su questi fronti per l’annuncio della Parola, può aiutare il prete giovane a sprigionare queste nuove capacità, senza privatizzarle e imploderle.
LE SFIDE PASTORALI
Altrettanto importanti sono le nuove situazioni che si stanno imponendo nella prassi pastorale, nel tipo di lavoro apostolico che viene richiesto a un presbitero. I cambiamenti e la conversione pastorale non sempre sono percepiti dai giovani preti con immediatezza e nella accezione più corretta. C’è differenza tra lo slancio del giovane che intuisce la necessità di rinnovamento e l’effettiva conversione pastorale che si progetta nelle comunità cristiane. Spesso gli insegnamenti del seminario o dei corsi teologici sono distanti dalla prassi pastorale di una chiesa locale, anche se gli studi teologici devono essere in grado di offrire chiavi di lettura e pastorali aggiornate.
Un nuovo approccio ai temi della fede: dalla catechesi alla prima evangelizzazione
Uno dei cambiamenti più necessari è quello di orientare la prassi pastorale alla prima evangelizzazione. Senza contrapporla alla catechesi e con l’avvertenza di procedere per gradi, anche i giovani preti all’inizio del loro impegno pastorale si accorgono che oggi occorre puntare di più, soprattutto per alcune fasce di persone, al primo annuncio. Lo esigono i bambini per l’iniziazione cristiana, lo esigono i giovani che sembrano sempre al primo passo nel decidersi per la fede, lo esigono gli adulti che hanno bisogno di riscoprire il senso della pratica religiosa portata avanti fino a questo momento quasi per automatismi. Il giovane prete, con il primo annuncio, è costretto a coinvolgersi di più. Il mondo giovanile, per esempio, ha bisogno di chi si accompagna e aiuta a rimettere al centro la persona di Gesù; non servono le parole dell’imparato a scuola o a memoria, che spesso sanno di risposte a chi non si è fatto le domande, ma di autentico annuncio di salvezza, vissuto o desiderato o sofferto nella propria vita. A questo riguardo, sono più avvantaggiati i giovani preti che arrivano al seminario dopo esperienze di abbandono della fede. Ma è importante che si offrano sempre come presbiteri, non solo amici. La fede viene quasi sempre ripensata, messa in discussione, rimotivata e il giovane prete spesso richiama alla sua coscienza il cammino talvolta doloroso che ha fatto e non vorrebbe rimettersi in discussione dopo che ha trovato la pace. Alcuni giovani preti stanno poco volentieri con i giovani per questo. Può fungere da alibi uno smodato interesse per gli aspetti esteriori della liturgia. Ancor di più se non hanno risolto del tutto con chiarezza la propria decisione radicale per il Signore. La consapevolezza di essere al servizio di una verità e di una vita più grande e più vera di quella che ciascuno vive e il sapere che le persone vanno orientate a Cristo e non al proprio modello di vita non è una fuga, ma la consapevolezza che chi salva, tanto il presbitero che il fedele laico, è Gesù.
È diverso comunque preparare presbiteri al primo annuncio o prepararli alla catechesi. Occorrono tirocini diversi, anche di spiritualità personale. La missionarietà è diversa dalla cura d’anime e al giovane prete è richiesta più la prima che la seconda.
Un nuovo modo di fare pastorale: dalla autosufficienza alla necessità di un lavoro in rete
L’altra grande novità che ancora stenta a definirsi nei moduli preparatori dei presbiteri è la coscienza di far parte di un presbiterio e non di essere un battitore libero, di avere consapevolezza che occorre collaborare prima che fare. Sempre di più si va verso una collocazione della parrocchia entro una convergenza pastorale con altre parrocchie dello stesso territorio o con gli stessi problemi. Lo dicono i documenti dei vescovi, lo dice la Pastores dabo vobis: oggi non è più aleatorio collaborare, è necessario. Già alcuni giovani preti, proprio per facilitare questo cambiamento di mentalità decidono di vivere assieme, anche se entro certe omogeneità di età e di indirizzo; diventa però urgente offrire criteri per una conduzione comune di parrocchie nelle unità pastorali. Il problema diventa ancora più urgente se in questi nuovi assetti della parrocchia si coinvolgono, come è assolutamente necessario, i laici.
Oggi è necessario approfondire, oltre che l’identità teologica del prete, la sua ontologia, per così dire, anche e soprattutto il suo “proprium” nell’esercizio del ministero. In parole semplici, ci si può chiedere e si dovrebbe dare risposta a quest’interrogativo: qual è il compito proprio, specifico, non monopolizzante del presbitero in una Chiesa, in una comunità tutta profetica, tutta sacerdotale, tutta ministeriale, tutta responsabile della sua edificazione nella comunione e del servizio all’uomo e al mondo?
Il presbitero, in un soggetto pastorale nuovo, quale può essere un’unità pastorale, nella quale non si può che pensare a una conduzione collegiale, deve svolgere il suo compito “proprio”, senza mortificare quello delle altre componenti ecclesiali, anzi valorizzando queste e coordinandole; e questo perché cresca la comunione e l’incidenza della missione.
È attorno alla Parola che nasce e cresce la comunità cristiana, che a sua volta è depositaria e responsabile tutta del servizio-annuncio, sia pure da esprimere con modalità diverse nei suoi membri. Il presbitero non ha l’esclusiva del servizio-annuncio della Parola. Della Parola però il presbitero, non è solo il custode fedele, il garante della sua “radice apostolica”, ma anche colui che libera la potenza della Parola nel suo oggi e la proietta in avanti. Il che richiede a lui di lasciarsi penetrare dalla Parola, ma anche dal mondo e dalla storia; di fare discernimento con la sua comunità per dare risposte di fede a nuovi problemi, a mutevoli situazioni. Il prete non può essere un semplice ripetitore della Parola, nemmeno un ripetitore del magistero; deve essere colui che manifesta la fecondità della Parola, la sua forza di incarnazione nei fatti della vita, con un annuncio sempre nuovo, cercando anche spazi nuovi, modi nuovi di dire la fede.
In ogni celebrazione liturgico-sacramentale, il presbitero agisce “in persona Christi”, ma egli non può dimenticare che agisce con un popolo tutto sacerdotale, che è l’assemblea il soggetto celebrante. Se il sacerdozio ministeriale è in funzione del sacerdozio comune, il prete deve saper esprimere un servizio di presidenza di un’assemblea tutta celebrante; deve fare in modo che in ogni celebrazione si esprima il sacerdozio dei battezzati presenti, che non può limitarsi al pregare insieme, al cantare, al dare l’assenso di fede a ciò che si compie. È per forza un suscitatore di ministeri e formatore di essi.
Il presbitero deve sempre ricordare che non può presumere di riassumere in sé tutta la ministerialità della Chiesa. Egli è chiamato piuttosto a esercitare il carisma del discernimento, della promozione, dell’animazione, dell’armonizzazione dei diversi doni dello Spirito. Il presbitero, inoltre, offre il servizio dell’autorità, è una sorta di garanzia sacramentale dell’autorità nella comunità, quella di Cristo capo e pastore che va dagli apostoli, ai vescovi, ai presbiteri. Ma questa garanzia formale, sacramentale, non basta, deve sempre poggiare sull’aver fatto dono gratuito della sua vita alle Chiese, come l’apostolo Paolo. È aiutato a superare quindi la figura del prete-parroco, amministratore della comunità, per sostituirla con quella del prete-donato alla causa del vangelo, che si lascia misurare l’autorità dalla dedizione all’annuncio del Vangelo.
Una progettualità ecclesiale non casuale: dalla parcellizzazione di interventi isolati e personalistici all’accoglienza di una progettualità della comunità ecclesiale
Il soggetto della pastorale è la comunità cristiana, è la chiesa diocesana non il singolo prete, che pure colora delle sue caratteristiche la vita di una parrocchia, non meno di come la devono colorare i laici e tutto il popolo di Dio. Siamo partiti da una pastorale decisa dall’alto e capillarmente propagandata nelle parrocchie più piccole e stentiamo a passare ad una pastorale progettuale, che traduce in concreto le linee del vescovo e del consiglio pastorale diocesano. Questo “ciascuno fa quello che è più portato a fare” mette in difficoltà i giovani presbiteri, che forse si portano dentro alcuni modelli di pastorale confrontati con i compagni e con i professori in seminario e che invece vedono assolutamente non praticabili, perché ciascuno fa quel che gli sembra più opportuno. Hanno la sensazione di trovarsi sempre a discutere e poi di essere lasciati soli a tentare, di non vedere mai una verifica che permette di riaggiustare il tiro. In un mondo giovanile che nelle sue occupazioni, nel suo lavoro di piccola o grande azienda, lavorando anche in proprio si misura con progetti, programmazioni, elaborazione di tabelle di marcia, sana efficienza, attenzione ai clienti… questo lavorare all’improvvisazione, senza essere aiutati a orientare in una direzione, crea frustrazione e sensazione di solitudine. Avere a disposizione qualche prete adulto che si accompagna e aiuta a discernere, a orientare, a valutare, a forzare o a stare un passo indietro è ciò che i giovani preti desiderano. Invece spesso, si fotografa solo l’incapacità o la mancanza di risultati senza farsi carico di insegnare o aiutare.
La santità è la prima scelta pastorale: dalla organizzazione delle attività alla spiritualità personale
I giovani preti hanno tutti una attenzione più esplicita alla vita di preghiera. L’esperienza da cui vengono, l’impostazione corretta dei seminari che sanno farla amare al di là delle pratiche di pietà, le iniziative giovanili diocesane o nazionali o mondiali, gli insegnamenti della chiesa hanno fatto breccia nella vita dei giovani preti e li hanno aiutati a sviluppare di più l’aspetto contemplativo. È una benedizione, soprattutto se non è la ricerca di una consolazione o una fuga o il chiudersi tra i pochi ma buoni. Questi difetti si superano ancora una volta se c’è una guida saggia che sa aiutare a maturare una preghiera intensa, anche liturgica, anche fatta col popolo, nella vita normale della comunità cristiana. Il prete si santifica nella preghiera che fa con il suo popolo e per il suo popolo, senza cercare comodi alibi svalutando praticamente la preghiera di tutti in attesa di altri momenti più raccolti, più privati. Si santifica anche con la progettazione di momenti personali in cui affida a Dio la vita di ciascuno dei suoi fedeli.
NOTE
[1] IARD, I giovani del nuovo secolo, Mulino, Bologna 2002.
[2] Ibid. p. 27. Alcuni dati per essere concreti:
Pensando che il superamento di almeno tre tappe indichi un buon avvio allo status di adulto, le percentuali che seguono dicono quanti non le hanno ancora raggiunte:
15-17: non si pone il problema
18-20: 98%
21-24: 94%
25-29: 73%
30-34: 35%
[3] Cf ibid cap III.
[4] Z. Bauman, La società individualizzata, Mulino, Bologna, 2002.