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    Una operazione «sgombero»


    Luis A. Gallo

    (NPG 2001-02-56) 


    Non si può vivere una autentica fede cristiana, né tanto meno collaborare alla sua crescita e maturazione, senza avere una giusta idea di ciò che essa sia. Eppure, non raramente se ne trovano delle concezioni non del tutto corrette tra gli stessi cristiani, e persino tra coloro che svolgono il ruolo di educatori nei loro riguardi.

    È perciò indispensabile, in un lavoro di revisione, fare come primo passo una «operazione sgombero» mirata a rimuovere quelle concezioni della fede cristiana che ne snaturano o deturpano l’identità.

    La fede cristiana non è mera religiosità né «religiosismo»

    Anzitutto, la fede cristiana non va confusa con la semplice religiosità. Non consiste cioè, come più di uno pensa, nel mero essere convinti dell’esistenza di un Essere Superiore che è all’origine di tutto, e che premia i buoni e punisce i cattivi, soprattutto dopo la morte. Questa religiosità è senz’altro una forma di credenza, e in quanto tale si discosta dall’incredulità totale, ma non è ancora fede cristiana. Manca, infatti, di qualcosa di decisivo: l’accoglienza esplicita della persona di Gesù Cristo e del suo messaggio evangelico. Tale accoglienza, come vedremo, conferisce la sua peculiarità al credente cristiano.
    Tanto meno è fede cristiana ciò che può venir chiamato «religiosismo». Si tratta di quell’atteggiamento, facilmente reperibile in non pochi, individui e gruppi, di cieca sottomissione a delle forze superiori che si manifestano attraverso fenomeni, soprattutto straordinari, della natura.
    Spesso simile atteggiamento scaturisce da una visione delle cose nella quale il mondo del divino è concepito come rivale dell’uomo, come suo antagonista, come un dio-a-spese-dell’uomo che esige il suo annientamento, perché ogni suo affermarsi metterebbe in pericolo il dominio e la sovranità divina nel mondo.
    Tale «religiosismo» non è fede cristiana, dal momento che si fonda su un’idea di Dio che non è quella rivelata da Gesù Cristo.
    Esso arriva perfino a giustificare, appellandosi alla volontà divina, i più aberranti assurdi della storia, quali la fame di milioni di persone, la povertà imposta, le ingiustizie, e anche quelli non meno aberranti della natura, quali le inondazioni, la siccità, i terremoti, le epidemie... Qualche anno fa Giovanni Paolo II, parlando agli abitanti della «Favela dos Alagados» (Brasile), metteva in guardia contro un tale modo di considerare le cose con i seguenti termini: «Voi dovete lottare per la vita, fare di tutto per migliorare le condizioni in cui vivete: è un dovere sacrosanto, perché questa è anche la volontà di Dio. Non dite che è la volontà di Dio che voi restiate in una situazione di povertà, di malattia, di abitazione malsana, che spesso sono contrarie alla vostra dignità di persone umane. Non dite: ‘È Dio che lo vuole’» (Oss Rom, 9.7.1980, XXXXV, corsivi nostri).
    Il «religiosismo» non è in realtà una risposta ad una Parola di Dio che si rivela, ma piuttosto una reazione spontanea nei confronti della fatalità della natura che provoca stupore e anche paura.

    Fede come adesione alle dottrine proposte dalla Chiesa

    La fede cristiana non è neppure il mero fatto di aderire fermamente, passando anche al di sopra di eventuali ripugnanze razionali, a tutte le verità proposte ufficialmente dalla Chiesa (articoli del Credo, dogmi e dottrine proposte dal papa o dai vescovi), verità misteriose che non si capiscono con la semplice ragione umana, ma che si accettano perché le convalida l’autorità di Dio che le rivela.
    Questo modo prevalentemente o perfino esclusivamente dottrinale di concepire la fede, non di rado presente tra i cristiani, è il risultato di un lungo processo storico.
    Ebbe i suoi antecedenti remoti negli ultimi scritti del Nuovo Testamento, specialmente nelle cosiddette Lettere pastorali, che riflettono la preoccupazione di fronteggiare le prime eresie emergenti nelle comunità del tempo. «Mantieni intatto il deposito della fede», esorta l’autore della Lettera a Timoteo (Tm 6,20), concludendo una lunga serie di raccomandazioni fatte al suo destinatario sul modo di comportarsi davanti alle «chiacchiere profane» che andavano sorgendo nei gruppi devianti.
    Diversi secoli più tardi, e precisamente nel XIII, quando S. Tommaso d’Aquino prese in analisi l’atto di credere avvalendosi dello schema della «conoscenza per testimonianza» elaborato ai suoi tempi da Aristotele, aprì una breccia che si andò allargando sempre più col tempo: quella di un’eccessiva accentuazione della componente conoscitiva o veritativa della fede a scapito delle altre sue componenti.
    A rinforzare questa accentuazione contribuì, nel secolo XVI, la condanna che il Concilio di Trento pronunciò contro il modo di concepire la fede da parte di Lutero. Per questi, infatti, essa, più che una conoscenza oggettiva di verità misteriose rivelate da Dio, era fiducia radicale nel Dio della misericordia che giustifica (rende giusto) il peccatore credente in Cristo morto e risorto. Così, contrapponendosi alla «fides fiducialis» luterana, il Concilio tridentino sbilanciò ancora ulteriormente il peso verso la componente conoscitiva della fede.
    Nel secolo scorso, infine, il Vaticano I, polemizzando contro il razionalismo dilagante che impugnava tutto ciò che pretendesse di essere al di sopra della ragione umana, definì la fede come la virtù soprannaturale per la quale, aiutati dalla grazia di Dio, si aderisce fermamente con l’intelligenza alle verità rivelate da Lui, in forza della sua autorità.
    Si può capire in base a questi elementari dati storici perché molti cristiani abbiano avuto una concezione prevalentemente dottrinale o veritativa della fede.
    Tale concezione diede anche origine in qualche momento storico ad una esagerata preoccupazione per l’ortodossia, come quella che si concretizzò nella creazione della cosiddetta «Santa Inquisizione», e portò anche ad orientare lo sforzo pastorale principalmente verso «l’istruzione religiosa», nel pensiero che se questa aumentava, anche la fede sarebbe stata più viva.
    L’autentica fede cristiana, come avremo occasione di dire, comporta anche l’accoglienza delle verità rivelate da Dio, ma non consiste solamente in tale accoglienza. È una realtà molto più ricca e complessa.

    Un recente rinnovamento nella concezione della fede

    Nei decenni più vicini a noi, l’influsso di diversi movimenti di pensiero di tipo esistenziale e personalistico, sorti nel contesto di una nuova sensibilità culturale, portò ad un ripensamento della concezione della fede cristiana. Coerente con tale sensibilità, esso enfatizzò la sua componente esperienziale. La fede venne pensata all’interno del binomio relazionale «io-tu», e perciò non tanto come la ferma adesione della mente a delle verità rivelate da Dio, quanto piuttosto come un’apertura totale dell’io umano al Tu di Dio e alla sua Parola. Una Parola concepita non primariamente come strumento di comunicazione di verità oggettive, ma piuttosto come espressione dell’autocomunicazione di Dio all’uomo in un clima di fiducia e di amicizia. «Io credo in te (ossia: io ho fiducia in te, come persona), e perciò io credo anche quello che tu mi dici», è la frase che può sintetizzare bene questo modo di pensare la fede.
    Tale concezione, elaborata in prevalenza nell’ambito teologico, venne fatta sua anche dal Vaticano II, specialmente nella costituzione Dei Verbum sulla divina rivelazione (n. 5), e si diffuse ampiamente nella Chiesa a livello tanto pastorale quanto catechetico.
    Si tratta indubbiamente di una concezione molto arricchente, se la si confronta con quelle sopra descritte, che risultavano in definitiva riduttive nei confronti di quanto propone la stessa rivelazione. Essa coinvolge, infatti, la totalità della persona e non soltanto alcune delle sue componenti. Mette l’accento sull’aspetto interpersonale del credere, e subordina ad esso l’aspetto noetico o veritativo, ridando a questo il posto che gli compete nell’equilibrio delle diverse dimensioni della fede.
    Ma comporta anche dei limiti. Fra essi uno dei più rilevanti è la sua tendenza intimistica che la porta ad ignorare, o almeno a non prendere sufficientemente in considerazione, le dimensioni socio-strutturali dell’esistenza umana. Questa fede esistenziale, infatti, si gioca prevalentemente, come si disse, sul fronte del binomio «io-tu», dimenticando che quell’io è un essere umano che vive in un mondo nel quale le componenti culturali, sociali, economiche e politiche svolgono un ruolo decisivo. Resta, di conseguenza, una fede prevalentemente circoscritta alla sfera del privato. È, in fondo, ancora una concezione in parte riduttiva della fede cristiana.


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