Carmine Di Sante
(NPG 2004-09-40)
La settima parola fondativa dell’umano ordina di “non commettere adulterio” o, secondo la dizione divenuta comune nella tradizione cristiana, di non “commettere atti impuri”. E chi non ricorda, con umorismo o con fastidio, l’attenzione morbosa e ossessiva che, soprattutto fino al Vaticano II, nella catechesi e nella confessione veniva dedicata a questo comandamento, quasi che di fronte a Dio non ci fosse cosa più grave che nutrire pensieri impuri o poco puri?
Ma a parte l’uso ideologico che di questo comandamento a volte è stato fatto e ancora si può fare, resta la domanda che cosa voglia dire esattamente non commettere “atti impuri”. È noto che il tema della “purità” e “impurità” attraversa, in profondità, tutte le culture e, per quanto di difficile interpretazione, esso veicola simbolicamente l’intuizione e il convincimento che c’è qualcosa che, come una macchia, minaccia l’umano deturpandolo: “È significativo che per la colpa esista solo un linguaggio simbolico: sarà innanzitutto il linguaggio molto arcaico della macchia (souillure), dove il male è colto come una macchia, un marchio (d’infamia), perciò come qualche cosa di positivo che colpisce (afficit) dal di fuori e infetta (inficit). Questo simbolismo è assolutamente irrudicibile; è suscettibile di innumerevoli trasposizioni e riprese, in concezioni sempre meno magiche: il profeta Isaia evoca in questi termini la visione del Tempio: ‘Me infelice! Poiché sono un uomo dalle labbra impure e abito tra un popolo dalle labbra impure’ (Is 6,5). Un uomo moderno parla ancora di una reputazione macchiata e di una intenzione pura” (P. Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002, pp. 33-34).
Il comandamento di “non commettere atti impuri” riguarda quindi il divieto di alterare l’umano e, essendo l’umano sempre e necessariamente sessuato, il comandamento riguarda l’ordine di non alterare la sessualità umana.
È infatti questa – l’alterazione – la parola italiana più vicina all’originale ebraico: “‘Non commetterai adulterio’, dicono le traduzioni. L’ebraico na’af ha un senso più ampio. L’adulterio è uno dei casi in cui può essere usata questa radice, ma essa non significa soltanto il tradimento della fedeltà cui gli sposi sono tenuti. Questo senso è stato privilegiato dal cristianesimo a motivo della proliferazione dell’adulterio nel matrimonio monogamico. In ambiente poligamico, cioè nell’intera umanità all’epoca in cui vengono proclamate le Dieci Parole, na’af condanna non solo l’adulterio ma qualsiasi adulterazione del comportamento dell’uomo o della donna, nei loro rapporti con gli altri o con se stessi. Nel medioevo l’adulterator era il falsificatore di monete. Il nef o la nefet sono persone che violano le regole non solo del matrimonio, ma di ogni buona condotta. Il termine ‘adulterare’ deve essere qui inteso nel suo antico significato di ‘alterare la purezza’, ‘falsificare’. Il nef è perciò un adultero, un furfante, un truffatore, un traviato, un dissoluto portato a ogni tipo di infrazione di tipo sessuale, ogni comportamento indebito o sleale” (A. Chouraqui, Il mio testamento. Il fuoco dell’alleanza, Queriniana, Brescia 2003, p. 126).
Ma che cosa “altera” la sessualità pervertendola da fonte di vita in esperienza di violenza e di sofferenza?
Si è già notato che per la tradizione ebraica c’è una stretta corrispondenza tra i comandamenti della prima tavola e quelli della seconda, per cui, se il sesto comandamento (“non uccidere”) è in rapporto con il primo (“Io sono il Signore tuo Dio”), il settimo (“Non commettere adulterio”) corrisponde al secondo: “Non avrai altri dèi all’infuori di me”. Ciò che altera la sessualità umana, secondo questa interpretazione, è trasformarla in un falso dio o idolo, cioè in uno pesudo-assoluto che, inesistente, non è in grado di garantire la felicità che promette.
Pochi anni fa è uscito in Francia il libro di Michel Houellebecq (in italiano: Le particelle elementari, Bompiani, Milano 1999) che racconta la storia di due fratelli alle prese con i misteri e le miserie della sessualità, sullo sfondo di un secolo dominato dall’incomunicabilità, dalla solitudine e dall’infelicità. Questo romanzo ha suscitato una valanga di polemiche per aver messo a nudo il vero volto di ciò che con troppa disinvoltura viene sbandierato come liberalizzazione sessuale. Rimproverato dai critici per la presenza, nel romanzo, di troppe scene erotiche, in una intervista rilasciata a Fabio Gambaro in “La Repubblica”, l’autore ha affermato: “È un’accusa fuori luogo, perché nel mio romanzo vi è molto meno sesso che in tanti libri in circolazione che non fanno assolutamente scandalo. Il mio peccato, invece, è quello di aver descritto scene sessuali poco soddisfacenti per i partner, e questo ha prodotto reazioni molto violente nel pubblico perché di solito le scene erotiche sono sempre positive, tutti godono e sono contenti: nel mio libro invece c’è spesso un malessere evidente legato alla sessualità, che per altro io descrivo freddamente, senza partecipazione e senza passione. Tutto ciò ha sconcertato i lettori, dimostrando che nell’ambito della sessualità il realismo non è permesso. Mi trovo dunque in una situazione paradossale, perché da un lato vengo accusato di essere un pornografo, mentre dall’altro – siccome mostro in luce negativa la rivoluzione sessuale degli anni Sessanta - sono considerato un puritano moralista. Personalmente non sono né a favore né contro la sessualità, volevo solo essere realista, volevo che il sesso occupasse nel romanzo la stessa posizione che occupa nella vita, né più né meno, mostrando che a volte funziona e a volte no” (in “La Repubblica” 17.6.1999, p. 39).
Il merito di questo romanzo francese è di avere “smascherato” l’eros, introducendo nelle sue stanze segrete e descrivendo ciò che vi accade, quando esso depone le sue maschere: “Il libro – sempre secondo le parole dell’autore nell’intervista sopraccitata – racconta soprattutto la crisi della coppia e della famiglia, mostra che le possibilità d’intesa tra i due sessi si stanno riducendo sempre di più. Ciò dipende in gran parte dalle condizioni socioeconomiche della nostra società, dall’individualismo dilagante e dal fatto che è sempre più difficile gestire i propri desideri” (ivi).
Non fare della sessualità un idolo vuol dire de-ideologizzarla, abbandonando l’illusione che essa, per principio, sia in grado di promuovere la crescita dell’umano, e recuperando la consapevolezza della sua fondamentale ambiguità, dove l’io è teso e conteso tra pulsione e relazione, ricerca di sé e apertura all’altro, egoismo ed estasi, autoreferenzialità e trascendenza. Il modello estetico e ludico che si sta imponendo nelle società occidentali del benessere come egemone occulta questa fondamentale ambiguità e tende a fare dell’eros un’energia positiva, spontanea e innocente che, in forza di se stessa, promuove la crescita dell’io e lo apre all’altro. Non era questa la lettura di Freud, il padre della psicoanalisi, che nel suo disincanto sapeva della complessità e della potenza ambigua della sessualità umana, come scrive, ad esempio, nell’Introduzione al narcisismo, dove parla di un io che, nella sua sessualità, è come uno “sdoppiato”: “L’individuo conduce effettivamente una doppia vita: come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendente dal suo volere. Egli considera la sessualità come uno dei suoi propri fini, ma da un altro punto di vista egli stesso non è che un’appendice del suo plasma germinale, a disposizione del quale pone le proprie forze, in cambio di un premio di piacere. Egli è il veicolo mortale di una sostanza virtualmente immortale!” (citato da S. V. Finzi, L’obbedienza “ritrovata”, in AA. VV., L’obbedienza torna “virtù”, Editrice Esperienze-Italia Francescana, Fossano 2000, pp. 39-40).
Da questo punto di vista, accettare l’ambiguità dell’eros vuol dire assumere e promuovere, nei suoi confronti, un atteggiamento anti-idolatrico che né lo assolutizzi, facendone il luogo del senso, né lo demonizzi, facendone il luogo del non senso, potendo ogni volta essere sia l’uno che l’altro, a seconda della responsabilità dei soggetti coinvolti.
Né da divinizzare, come nelle culture dominate dal culto della dea madre, né da demonizzare, come nelle culture che hanno subito l’influenza dello gnosticismo e del dualismo, la sessualità umana è, per la bibbia, “mistero” di relazione, luogo ed evento dove all’uomo e alla donna è dato di uscire dal proprio io, e attraverso questo esodo senza ritorno approdare ad un’altra terra, dove fiorisce il nuovo, il “nuovo” del figlio, altro dalla madre e altro dal padre.
Se, in negativo, il settimo comandamento vieta di “alterare” la sessualità umana, in quanto luogo ed evento di relazione creatrice, in positivo esso è imperativo ad umanizzarla, trasformandola da pulsione in linguaggio, da linguaggio in relazione, da relazione in comunione e da comunione in dono gratuito, come gratuito è il canto dell’uccello, l’acqua del ruscello, il fiore o il filo d’erba. E ciò che, per la bibbia, la umanizza, elevandola dall’ordine della pulsione all’ordine dell’umano, è l’ordine della parola e del linguaggio che la istituisce come relazione e come dono.
”Offrire il mondo all’altro attraverso le parole”, dice Lévinas: “‘Offrire’, ossia uscire dalla relazione puramente utilitaristica o funzionale con le cose per farle entrare in un mondo umano di relazioni. Se io passeggio da solo in un bosco e vedo un fiore, non ho bisogno di parlarne: posso odorarlo, coglierlo, senza dire una sola parola. Se sono in compagnia di un’altra persona, mi comporterò diversamente: ne parlerò con lui, dirò il nome del fiore, dividerò con lui il mio piacere, dunque il significato che attribuisco al fiore. Parlare, è sempre includere l’altro, che è sempre già qui. Anche un monologo, alla fin fine, è dedicato agli altri. In ogni caso, se non viene ascoltato o letto da qualcuno, non esiste; oppure colui che parla parla a se stesso come se fosse un altro. Quando si dice: ‘l’essenza dell’uomo è il linguaggio’, non si vuole soltanto affermare che il linguaggio permette agli uomini di parlarsi e di scambiarsi… Dicendo il nome delle cose che ci circondano, al tempo stesso le stacchiamo da noi, prendiamo distanza da loro e ce le offriamo vicendevolmente” (M.-A. Ouaknin, Le Dieci Parole, cit. pp. 139-140).
Se questo è vero per il rapporto dell’uomo con le cose, che, grazie al linguaggio, da oggetti si trasfigurano in possibili doni, lo è ancora di più per la sessualità umana, che solo nell’ordine del linguaggio – della parola ascoltata e della risposta donata – cresce e fiorisce compiutamente. Nell’ordine del linguaggio, l’altro da desiderabile si trasfigura in “tu” che parla e che, imposseduto e impossedibile, apre lo spazio del dialogo, della responsabilità e del rispetto. Ciò che “altera” la sessualità umana, degradandola, è la sua riduzione a piacere dell’io, dove l’altro da partner è ridotto a merce di scambio e di consumo. Commentando il “non avrai altri dèi” del secondo comandamento al quale corrisponde il settimo “non commetterai adulterio”, il grande commentatore ebreo medioevale Rashi spiega che “gli altri dèi” sono quelli che non rispondono quando vengono invocati, a differenza del Dio biblico che si definisce per la sua capacità di rispondere a chi gli rivolge la parola e lo invoca. Per questo, alla radice dell’alterazione della sessualità umana c’è l’assenza della parola: “Il fondamento dell’adulterio risiede nell’assenza di comunicazione nel rapporto tra uomo e donna, all’interno della coppia o, più genericamente, nelle relazioni tra genitori e figli; silenzio e non risposta prevalgono. L’interruzione della comunicazione rende l’uno estraneo all’altro. Rende impossibile la risposta alle reciproche domande. Non c’è più ‘responsabilità’” (M.-A., Ouaknin, Le Dieci Parole, cit. p. 164).
Se è la mancanza della responsabilità – il rispondere a chi chiama – la radice della alterazione o degenerazione della sessualità umana, si capisce perché, per la bibbia, la figura estrema ed esemplare di questa alterazione è l’adulterio vero e proprio: non solo perché tradimento della fiducia del proprio partner, ma soprattutto perché esso espone al rischio di una filiazione di cui è impossibile assumersi la responsabilità. È questa la motivazione per la proibizione dell’adulterio secondo Lv 18,20, che letteralmente afferma: “E alla moglie del tuo prossimo tu non darai il tuo seme perché ci sia una discendenza e perché ci sia una impurità in essa”. Commentando questo versetto sempre Rashi sottolinea il legame tra l’adulterio e il figlio, che, eventuale frutto di un tale atto, si inserirebbe con difficoltà nell’ordine dell’esistenza e del riconoscimento senza cui la sua stessa identità sarebbe minacciata, come prova drammaticamente l’esperienza dei figli non amati o abbandonati. In ebraico figlio adulterino si dice mamzer, che “evoca in sostanza l’idea seguente: l’adulterio crea una situazione in cui la responsabilità è dimenticata. C’è il piacere del corpo, ma ci si mostra irresponsabili davanti alle conseguenze della relazione. Assumersi la responsabilità dell’altro significa rispondere alla domanda che egli mi pone tramite la sua identità. Il figlio nato da un adulterio chiamerà ‘papà’ un uomo che non può rispondere alla filiazione se non a prezzo della menzogna” (M.-A. Ouaknin, Le Dieci Parole, cit. p. 162).
E quando, nel versetto 29, il testo biblico aggiunge che “quanti commetteranno alcuna di queste pratiche abominevoli saranno eliminati dal loro popolo”, ciò non vuol dire che devono essere messi a morte, ma che con il loro comportamento essi si iscrivono al di fuori dell’ordine della vita che è l’ordine dei vincoli sociali e della responsabilità.
Vietando di ridurla all’ordine dello scambio di piacere fine a se stesso, il settimo comandamento è salvaguardia dell’altezza e bellezza della sessualità umana, nella quale ne va del “mistero” stesso della vita che, evento e miracolo, è consegnata e si è chiamati a riconsegnare di generazione in generazione. E se è vero che a questo comandamento non possiamo chiedere la risposta ai nuovi problemi di fronte ai quali ci troviamo (femminismo, liberalizzazione sessuale, contraccezione, procreazione assistita, fecondazione artificiale, movimenti gay, ecc.), esso resta comunque come giudizio critico di qualsiasi concezione della sessualità umana ridotta a piacere, dove l’altro è cancellato nella sua alterità e l’io nella sua responsabilità di fronte a lui.
Parlando della fecondazione artificiale o assistita alla quale ricorrono molte coppie sterili, Silvia Vigetti Finzi annota che, in questo caso, i protagonisti della vicenda diventano la donna e il medico per cui: “Alla prima, che chiede un figlio ad ogni costo, il medico risponde cercando di ottenere un bambino in qualsiasi modo. Entrano così in gioco desideri onnipotenti, tipicamente inconsci che, se non vengono riconosciuti e controllati, sospingono la generazione oltre i limiti e la misura, al di là del tempo e dello spazio nella dimensione anonima e impersonale della vita che cresce su se stessa in modo automatico, sfuggendo al controllo di un soggetto cosciente e responsabile (S. V. Finzi, La grande Madre in provetta. Nuove domande sulla procreazione nell’era della fecondazione assistita, in “Il Sole 24 Ore” 14 settembre 2003, p. 38; corsivo mio). Per poi concludere: “Proprio la vita, che le Grandi Madri rappresentavano come dimensione naturale, è stata man mano colonizzata dalle biotecnologie che introducono l’artificio nella materia vivente per strumentalizzarla ai propri fini… Il tutto intrecciato con interessi speculativi e scoop giornalistici che confondono le già intricate vicende di una generazione umana che rischia di essere ridotta a merce. Le biotecnologie procedono infatti non su corpi ma su organi, ovuli e spermatozoi, non su soggetti ma su oggetti solo potenzialmente umani. I termini ‘stoccaggio e crioconservazione degli embrioni’, ‘banca del seme’, ‘utero a nolo’, ‘contratto di filiazione’, ‘valutazione dei rischi’, ‘percentuale di successo’, ‘concorrenza tra i centri’, ‘tariffe e assistenza’ e così via, ci dicono che la vita sta fluendo non solo al di fuori dei corpi ma anche dei pensieri e delle responsabilità genitoriali. È la vita senza aggettivi, anonima, impersonale, valutata, come il denaro, in modo formale, convenzionale, l’oggetto della tecnica lasciata a se stessa, al proprio acritico procedere” (ivi).
Il settimo comandamento, che ordina di non alterare la sessualità umana, lungi dall’essere datato, mai come oggi, in cui come scrive Vigetti “la vita sta fluendo non solo al di fuori dei corpi ma anche dei pensieri e delle responsabilità genitoriali”, rivela la sua attualità straordinaria.
Inciso su “pietra”, cioè nelle profondità della coscienza umana dalla quale è impossibile cancellarla definitivamente, il settimo comandamento ricorda che la sessualità è “mistero”, gratuità e dono che provengono da altrove e si offrono all’io non perché l’io ne disponga – essendo impossibile disporre della vita – ma perché se ne faccia coinvolgere nella sua avventura accogliendola e ridonandola.
È in questo atteggiamento di accoglienza e responsabilità che trova risposta la contraddizione sulla sessualità umana messa in luce da Freud sulla doppia vita dell’io “come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendente dal suo volere”. La ragione ultima della sessualità, nella bibbia, non va cercata né nel suo essere per il piacere dell’io, come se ne fosse il fine ultimo, né nel suo essere per il suo dominio, “contro o comunque indipendente dal suo volere”, ma dono da accogliere e da ridonare responsabilmente Contro la concezione naturalistica – che la riconduce alla spontaneità innocente dell’io e dei suoi bisogni, come sempre più si pretende - e contro quella dualistica e manichea - per la quale, come vuole Schopenhauer, essa è asservimento dell’io sovrano e razionale - per la bibbia la sessualità è partecipazione alla gratuità di Dio che, associando l’uomo al suo essere creatore, ne fa un concreatore nello stupore della riconoscenza e della responsabilità.