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    "Amerai lo straniero come te stesso” (Lc 19,24)

    Carmine Di Sante

    (NPG 2003-05-3)



    Un giorno un dottore della legge si avvicinò a Gesù per chiedergli quale fosse la cosa più importante contenuta nelle scritture sacre, e Gesù gli rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. Il secondo è simile al primo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22, 36-40).

    Rivendicando l’amore al prossimo come il più importante dopo quello dell’amore a Dio, Gesù non fa un’affermazione innovativa, ma assume e ribadisce quanto già prescriveva il Levitico: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. L’amore al prossimo non è un precetto cristiano ma ebraico e la novità di Gesù, se di novità si vuol parlare, è di averlo collegato direttamente al primo, facendo dell’amore al prossimo il segno oggettivamente rivelativo dell’amore a Dio, come vuole Giovanni il quale scrive: “Se uno dicesse: ‘io amo Dio’, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio ami anche il suo fratello” (1Gv 4, 19-21). Se è possibile amare il prossimo senza amare Dio, perché oggettivamente “chi fa il bene è da Dio” (3Gv 11), anche se a sua insaputa, per Giovanni non è possibile il contrario, amare Dio senza amare il prossimo, perché chi dice di amare Dio ma non ama il prossimo è semplicemente un bugiardo.
    Ma chi è il prossimo da amare e amando il quale si ama Dio? Paradossalmente nelle scritture ebraiche una sola volta si parla del comandamento di amare il prossimo, nel libro del Levitico al quale Gesù si rifà esplicitamente, mentre per più di trenta volte si prescrive il comandamento di amare lo straniero per cui, come vogliono alcuni esegeti, la vera formulazione del comandamento dell’amore sarebbe quest’ultimo.
    Il prossimo da amare è dunque lo straniero, come si legge sempre nel Levitico: “Quando uno straniero dimorerà presso di voi nel vostro paese non gli farete torto. Lo straniero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato tra di voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio” (Lv 19, 33-34). Amare lo straniero: colui che proviene da mondi sconosciuti e lontani, parla lingue incomprensibili e “barbare”, condivide convinzioni inafferrabili e urtanti, abita paesaggi ignoti e sconcertanti, sente odori e profumi esotici e strani. Amare non i propri, appartenenti allo stesso mondo, ma gli estranei o stranieri, quanti, come vuole l’etimo del termine, sono extra, fuori dal proprio mondo affettivo, erotico, culturale, religioso o ideologico. E proprio perché l’amore è amore per gli estranei, esso, per la bibbia, può essere solo comandato.
    Ma se si tratta dell’amore per lo straniero, perché mai, rispondendo al dottore della legge, Gesù parla dell’amore al prossimo, in greco plesion, che vuol dire vicino e che la volgata traduce con proximus, da cui il nostro prossimo? E perché mai la tradizione cristiana ha ripreso la formula dell’amore per il prossimo piuttosto che quella dell’amore per lo straniero? Si tratta solo di sfumature di linguaggio o vi è sotto una ragione più profonda da indagare?

    Prima della partenza dalla famiglia, lacerata da odi e sospetti, e dopo la rottura del suo fidanzamento, Ivan Karamazov, l’intellettuale tormentato e ateo, incontra il fratello Alioscia, novizio in un monastero ortodosso, in una piccola e squallida trattoria, e gli confida le inquietudini che lo lacerano: “Nel mio intimo non ho fatto che pensare a questi miei ventitré anni, a questa mia gioventù di primo pelo... Sai che cosa mi dicevo pochi momenti fa? Anche se avessi perduto la fede nella vita, se fossi deluso nell’amore della donna amata, se non credessi più nell’ordine delle cose… vorrei ugualmente vivere. Ho voglia di vivere, e vivo, fosse pure contro la logica… Ci capisci qualche cosa tu?”.
    E Alioscia: “Ti capisco troppo bene, Ivan… Mi sembra che tutti dovrebbero amare, prima di ogni cosa al mondo, la vita stessa… amarla anche contro la logica, come tu dici; amarla prima della logica, e solo allora si arriva a conoscere il senso della vita”.

    Vivere, amare, amare la vita ad ogni costo, contro ogni logica e prima di ogni logica: è quanto sogna e vuole con tutte le sue forze Ivan e ogni io, giovane o vecchio, al quale Ivan presta la sua voce. Ma nel momento stesso in cui prende coscienza della sua volontà di vita incontestabile, Ivan pone la domanda di tutte le domande che neppure il Grande Inquisitore avrà il coraggio di porre: “Devo confessarti una cosa. Io non ho mai potuto capire come si possano amare i nostri prossimi. Secondo me sono proprio i prossimi che non si possono amare; gli altri, i lontani, forse sì, si possono amare. Per amare una persona, occorre che essa si nasconda, perché appena fa vedere il suo vero viso, l’amore scompare” (F. Dostoevskij, Il grande inquisitore, Edizioni Lavoro, Roma 1995, p. 36).
    La domanda di Ivan è inquietante. A tal punto inquietante che non si osa porla, dando per scontato l’amore dell’io per l’altro. Ma quando diciamo di amare l’altro, davvero lo amiamo, nella sua singolarità e unicità, o non piuttosto amiamo le immagini e le rappresentazioni che di lui ci costruiamo e che in realtà lo nascondono piuttosto che rivelarlo? E’ facile, certo, amare la vita, il genere umano, il pianeta, il cosmo; ancor più amare la società perfetta, la comunità ideale, la fraternità universale o il mondo utopico, ma amare una persona singola, in carne e ossa che non l’attira e forse ripugna, e amarla non a parole ma con il cuore e con le opere è un’altra cosa. Chi non sa per esperienza quanto sia più facile e appagante manifestare in un corteo per i diritti del malato piuttosto che stare accanto ad un malato in carne e ossa ricoverato in una corsia di ospedale: il proprio coniuge, genitore, figlio, fratello o confratello? Di qui la sincerità scarnificante di Ivan con cui, messe da parte le maschere, la retorica e l’ipocrisia, confida al fratello monaco: “Io non ho mai potuto capire come si possano amare i nostri prossimi. Secondo me sono proprio i prossimi che non si possono amare; gli altri, i lontani, forse sì, si possono amare”.
    Comandando di amare lo straniero la bibbia non pensa ai lontani ma al prossimo, a colui che, per primo, l’io si trova accanto o gli accade di incontrare, ma l’amore che essa comanda non è l’amore di desiderio (che sarebbe contraddittorio comandare!) bensì l’amore di alterità che ama l’altro in quanto altro, nella sua singolarità irriducibile e non in quanto momento interno alla identità dell’io. Se per Ivan l’altro può essere amato solo se il suo volto si nasconde (“per amare una persona occorre che essa si nasconda”) e se, per lui, l’amore dell’altro in quanto altro è impossibile (“perché appena fa vedere il suo vero viso, l’amore scompare”), per la bibbia la nudità del volto è la condizione stessa dell’amore e per essa è possibile amare solo là dove il viso appare.
    Per questo il “prossimo” e lo “straniero” nella bibbia si richiamano reciprocamente e coincidono, per cui come segnavia, possono essere incisi i caratteri dell’uno e dell’altro. Per la bibbia ogni straniero è prossimo e ogni prossimo è straniero. Perché per essa ogni volto è contemporaneamente prossimità più prossima di ogni prossimità, che ci riguarda, ed estraneità più estranea di ogni estraneità, che sfugge al dominio dell’io e rispetto al quale resta sempre estraneo, straniero appunto.


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