Carmine di Sante
(NPG 2001-02-68)
Introduzione: l’«invenzione» della speranza
La grandezza d’Israele è nell’avere introdotto nella storia la speranza, con la quale l’umanità ha iniziato a guardare non più indietro, ai modelli mitici del passato, bensì al futuro, al non ancora che sarà e che, nel momento in cui sarà, porterà a tutti pienezza di pace e di felicità. Si sarebbe tentati di pensare che la speranza come sguardo teso ad un altrove situato nel futuro faccia parte della struttura stessa dell’antropologia umana. Per noi, figli dell’Occidente, la vita senza speranza sarebbe infatti inconcepibile e la felicità alla quale tutti tendiamo ostinatamente, sia individualmente che collettivamente, è proiettata spontaneamente nel futuro, in un «domani» ancora da venire.
Ma, anche se può apparire strano, la maggior parte delle culture umane più che lo sguardo teso al futuro conosce lo sguardo rivolto al passato, e in esse la felicità, più che l’attesa di ciò che sarà, è piuttosto l’imitazione o mimesis di ciò che da sempre è già dato, come l’acqua di un fiume o di un lago alla quale tornare e ritornare giorno dopo giorno per dissetarsi e bagnarsi. La speranza come motore della vita e della storia, in quanto idea e, prima ancora, in quanto sentimento, è l’«invenzione» dell’ebraismo che ne ha disegnato la «struttura» nelle Scritture, soprattutto attraverso la voce dei suoi profeti.
Riprendere alcune di queste figure – di qui il titolo della rubrica di quest’anno – e tornare ad interrogarle all’inizio di questo nuovo millennio non è soltanto confrontarsi con una delle idee più innovative della storia umana, ma tentare di ritrovarne la freschezza e la potenza originarie, al di là delle interpretazioni e degli effetti che essa ha avuto nell’Occidente, assumendo di volta in volta l’aspetto dell’utopia, della rivoluzione e del progresso.
È innegabile che queste idee motrici e trasformatrici della storia (e non solo della storia occidentale ma planetaria, data la planetarizzazione o globalizzazione della tecnica figlia dell’Occidente) non sarebbero state possibili senza la profezia biblica; ma la profezia biblica custodisce un «oltre» e un «di più» che non si esauriscono né si identificano con il progresso e la rivoluzione, e in cui si celano parole di sapienza alle quali attingere per la nostra sete di senso e per rispondere alle sfide di fronte alle quali ci troviamo di fronte ai cambiamenti sconvolgenti in atto. Scopo di questa rubrica dunque è disporsi all’ascolto di alcune delle figure bibliche che hanno introdotto nella storia la «speranza», riscoprendone e abbozzandone la carica di novità e la potenza trasfiguratrice attraverso lo scavo e l’approfondimento delle principali categorie che, nel loro insieme, costituiscono come «il lessico della speranza biblica» e, quali note musicali, la sua grande sinfonia.
Amos: la profezia
Il primo dei grandi profeti d’Israele è Amos, un pecoraio di Tekòa (un villaggio di Giuda, vicino a Betlemme) «il quale ebbe visioni riguardo ad Israele, al tempo di Ozia, re della Giudea, e al tempo di Geroboamo, figlio di Ioas, re d’Israele, due anni prima del terremoto» (Am 1, 1). Vissuto al tempo di Ozia e Geroboamo nell’ottavo secolo prima di Cristo, Amos è uno che vede o ha «visioni», che nel mondo in cui sta «vede» cose che altri non vedono. Ma la cosa rilevante è che la nuova «visione» che egli rivendica, non l’attribuisce a sé – alla sua intelligenza o alla sua lungimiranza – ma a Dio che, attraverso di lui e contro di lui, parla e si esprime. Per questo il testo biblico si compiace di notare che egli era «un pecoraio»: un modo per dire che non apparteneva alle classi dominanti e non disponeva del potere religioso come neppure di quello politico o culturale. Lui, che in Israele era nessuno, ha una «visione» e una missione per Israele. È questo un paradosso che, con figure diverse, attraversa la bibbia intera dalle prime all’ultima delle sue pagine (la sterile che partorisce, il povero che spodesta il ricco, l’ultimo che si fa primo, il fallito che viene incoronato, il crocifisso che viene intronizzato, ecc.) e il cui significato è di affermare che ciò che il profeta dice non proviene da lui ma dall’Alterità irriducibile di Dio che lo ispira, per cui il suo dire è un dire divino.
Il termine con il quale i Settanta (i traduttori della bibbia dall’ebraico in greco nel terzo secolo prima di Cristo ad Alessandria d’Egitto) e la tradizione occidentale hanno qualificato la funzione paradossale di chi, come Amos, ha una visione che non nasce dai propri occhi e una parola che non viene dalla propria bocca, è profeta, dal quale il sostantivo profezia. Questo termine di origine greca rimanda alla radice femì, parlare, e alla preposizione pro, che vuol dire: sia al posto di, come nell’espressione «alla riunione al posto di... sono andato io»; sia di fronte a, come nell’espressione «ha parlato di fronte a una folla di mille persone»; sia infine davanti a, come nell’espressione «vede davanti a sé più degli altri», nel senso che anticipa e predice ciò che non è ancora e accadrà più tardi.
Anche se nel fenomeno straordinario della profezia questi tre significati della preposizione si intrecciano quasi sempre, è comunque il primo il più importante dal quale dipendono anche gli altri. Esso esprime infatti l’autocoscienza paradossale di chi, nel parlare, non parla in forza di se stesso ma dell’altro, l’Altro per eccellenza, Dio: l’Assoluto, colui che, come vuole l’etimo, è «sciolto» e «separato» dal mondo e dall’uomo e, per questo, Altro, il totalmente Altro. Il profeta, per la bibbia, è colui nel quale Dio irrompe e dove a parlare non è l’io ma Dio. Se questo è vero, il profeta, piuttosto che colui che parla al posto di Dio, più propriamente è colui che Dio istituisce come sua bocca e parola, secondo la celebre pagina dell’Esodo dove Dio sceglie Mosè come suo portavoce:
«Mosè disse al Signore: ‘Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua’. Il Signore gli disse: ‘Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va’! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire’» (Es 4, 10-12).
L’immagine ardita di Dio che «è con la bocca» del profeta vuol dire che ciò che il profeta dice non proviene dalla sua «bocca», dal suo desiderio, cuore, volontà o intelligenza, ma da Dio che, Parlante, fa del profeta il suo parlante. La profezia è la potenza della Parola divina che, parlando, instaura l’uomo parlante una parola non umana ma divina. È quanto vuole la pagina straordinaria e ironica dell’asina di Balaam che si rifiuta di condurre il padrone a maledire Israele, come gli aveva ordinato Balak, il re di Moab:
«L’angelo del Signore si pose sulla strada per ostacolarlo. Egli cavalcava l’asina e aveva con sé due servitori. L’asina, vedendo l’angelo del Signore che stava sulla strada con la spada sguainata in mano, deviò dalla strada e cominciò ad andare per i campi. Balaam percosse l’asina per rimetterla sulla strada. Allora l’angelo del Signore si fermò in un sentiero infossato tra le vigne, che aveva un muro di qua e un muro di là. L’asina vide l’angelo del Signore, si serrò al muro e strinse il piede di Balaam contro il muro e Balaam la percosse di nuovo. L’angelo del Signore passò di nuovo più avanti e si fermò in un luogo stretto, tanto stretto che non vi era modo di ritirarsi né a destra, né a sinistra. L’asina vide l’angelo del Signore e si accovacciò sotto Balaam; l’ira di Balaam si accese ed egli percosse l’asina con il bastone. Allora il Signore aprì la bocca all’asina ed essa disse a Balaam: ‘Che ti ho fatto perché tu mi percuota già per la terza volta?’» (Nm 22, 22-29).
La profezia è l’evento nel quale Dio irrompe nella storia umana dotandola, in forza di questa irruzione, di una visione e di una parola che nell’ordine della natura introduce un al di là della natura. Gli «occhi» e la «bocca» dell’asina di Balaam, aperti dall’angelo del Signore, sono la metafora straordinaria della potenza trasfiguratrice della Parola che si impone come sovrana, incontrastata e incontrastabile, alla soggettività umana. Lo stesso aspetto sottolinea Amos con l’immagine del «ruggito» del leone al quale è impossibile sottrarsi: «Egli disse: ‘Il Signore ruggisce da Sion, e da Gerusalemme fa udire la sua voce’» (Am 1,2; la stessa metafora ricorre in Gl 4, 16 e in Gr 25, 30).
Ma cosa significa oggi la profezia? È essa un lontano ricordo del passato o custodisce ancora un significato anche per il nostro tempo? E soprattutto: dobbiamo pensare ad essa come ad un tratto eccezionale di cui solo alcune persone straordinarie sono dotate, oppure essa annuncia qualcosa che, nella sua straordinarietà, è all’interno della nostra più ordinaria ordinarietà? Se la profezia è l’evento dell’irruzione di Dio nella storia e se questo evento ha il carattere dell’Alterità assoluta, la profezia ha un significato profondo ancora per noi oggi: perché essa dice che il mondo in cui viviamo non è una «sfera» chiusa, sacra o divina, come volevano le culture premoderne, e neppure una pura estensione quantitativa e infinita, come vuole la cultura scientifica moderna e postmoderna per la quale «gli dei sono morti» e l’uomo è solo e abbandonato come in un deserto, ma che esso è abitato da un’Alterità che, dentro la natura e dentro la storia umana, non fa corpo né con l’una né con l’altro, ma dischiude il senso all’una e all’altro. La pagina biblica della profezia dice però soprattutto che il soggetto umano – ogni soggetto umano – non è soggetto chiuso nell’incatenamento di sé a sé, come vogliono tutte le antropologie che definiscono l’io a partire dalla natura e dall’essere, ma soggetto portatore di un’alterità sovrana e assoluta da accogliere e da servire. Questa Alterità che inabita l’io ed è dentro l’io, ma senza fare corpo con l’io, è potenza liberatrice che infrange la solitudine dell’io e da io per sé lo costituisce io per l’altro, io responsabile il cui esserci è di esserci per rispondere all’altro che gli accade di incontrare. La profezia è annuncio che l’io è portatore dell’Alterità di Dio. Alterità non metafisica, che si trova al di là della natura; non sacra, che si venera nei templi e negli edifici sacri; non mistica, che si trova al di là delle teologie e delle filosofie. Al contrario: Alterità storica, che percorre le strade dei nostri quartieri e città; quotidiana, che ci viene incontro in ogni qui e ora dell’esistenza; ed etica, che non chiede nulla per sé ma per l’altro. Per questo è Alterità la cui traccia, come vuole il filosofo francese E. Lévinas, è il volto – ogni volto – che accade d’incontrare.