Carmine Di Sante
(NPG 2001-08-35)
«Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: ‘Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa proclama che la grande malizia è salita fino a me’. Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, si imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore» (Giona 1, 1-3).
Si potrebbe restare sorpresi nel trovare Giona nell’elenco dei profeti, essendo il suo libro – un piccolo libro delizioso e ironico di soli quattro capitoletti – la storia di un uomo che si ribella a Dio, ma inutilmente, perché Dio «scatenò sul mare un forte vento» e «dispose che un grosso pesce [lo] inghiottisse», dando così una lezione al ribelle che, rigettato dal pesce sull’asciutto della spiaggia, non ebbe più la forza di disobbedire, accettando così ciò che gli veniva comandato. Il libro di Giona dunque come libro profetico: perché il suo inizio è lo stesso di ogni altro libro profetico dove a parlare è Dio che chiama per nome e affida una missione contro voglia del chiamato; perché la storia di ribellione che essa narra è la storia paradigmatica di ogni profeta che non sceglie di essere profeta e che è scelto da Dio controvoglia; ma soprattutto perché la suggestiva trama narrativa del racconto (non è senza significato che, tra i libri biblici, Giona è quello che, con la storia della balena, ha più influenzato la letteratura moderna) è la messa in scena del tema della «conversione», al centro della missione alla quale il profeta è destinato suo malgrado.
Se il profeta infatti parla a nome di Dio, è per annuciare agli uditori la conversione; e anche se ricorre spesso alla critica e alla condanna, annunciando l’«ira» di Dio o la sua «collera« (due temi ricorrenti nel linguaggio del profetismo e, in genere, nella bibbia), non sono esse la parola ultima, ma la conversione: la teshuvah, l’interruzione della strada cattiva che si è intrapresa, secondo il significato dell’etimo ebraico; o la metanoia, il cambiamento della mente e dei suoi modi di pensare, secondo l’etimo del termine greco con cui il Nuovo Testamento ha tradotto quello ebraico.
Frutto della conversione, il futuro biblico non si iscrive nell’ordine cronologico ma nell’ordine della soggettività e non della soggettività desiderante o progettante bensì della soggettività «etica»: la soggettività che interrompe la via del male e riprende quella del bene, dicendo no al proprio io per dire sì a Dio che comanda di amare come lui ama. Il futuro biblico è il futuro della «conversione»: futuro il cui dischiudersi non è legato alla trasformazione delle condizioni esterne, economiche, politiche, sociali o ambientali, bensì alla trasformazione della soggettività che l’io e solo l’io può operare, indipendentemente dalle condizioni esterne. La conversione, trasformazione della soggettività, è la condizione di possibilità del futuro biblico. Questo – il futuro come pienezza della felicità e della pace – accade e si realizza se e quando l’io si converte e intraprende la strada che Dio stesso ha intrapreso nel suo andare ad Israele e liberarlo dall’Egitto: la strada dell’amore gratuito e della misericordia. Da questa strada, come dalle altezze della montagna, si intravede il mondo secondo Dio e si acquista la conoscenza e la saggezza necessarie per costruirlo: la conoscenza e la saggezza «della misericordia, del diritto e della giustizia» (cf Ger 9, 24).
Letto nella liturgia ebraica durante la festa di yom kippur (la festa del «perdono», la più impressionante dell’ebraismo), il libro di Giona è la messa in scena della conversione come condizione di possibilità del futuro biblico e dell’avvento di Dio nella storia umana.
Il primo aspetto messo in luce da questo piccolo libro della bibbia è l’impensabile e l’impensato della conversione come possibilità di cambiamento e di liberazione dai determinismi che impediscono all’io la sua autonomia e lo sottomettono agli «idoli» dei condizionamenti di fronte ai quali l’io si prostituisce rassegnandosi e confessando: «non ci posso fare niente», «è più forte di me», «è impossibile», «non dipende da me», «sono fatto così». Poco importa che questo determinismo venga ricondotto alle leggi della natura, dell’ambiente, dell’educazione familiare o, come oggi è di moda, della struttura biologica iscritta nei cromosomi. Ciò che importa è che, in ogni caso, l’io è già tutto «dato» e «fatto», impossibilitato a sfuggire al suo destino al quale è sottomesso nello stesso momento in cui vi sfugge, come testimonia la tragedia greca dell’Edipo Re. Il senso profondo e sconvolgente della conversione biblica è il dischiudersi nell’io di questa possibilità inaudita: che non c’è determinismo per lui che egli non abbia il potere di spezzare, ricominciando daccapo e rinascendo.
Il racconto di Giona è il racconto paradossale di una triplice conversione: del profeta che torna a Dio dopo il no della prima volta, dopo essere passato per la «morte» e la «risurrezione» nel ventre della balena (immagine che in Matteo Gesù riprende leggendo in essa adombrata la sua stessa morte e risurrezione); dei niniviti che tornano a Dio dopo la predicazione del profeta recalcitrante: «Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: ‘Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta’. I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo» (Gn 3, 3-5); infine di Dio stesso che, di fronte alla conversione dei niniviti dovuta alla conversione di Giona, abbandona la sua ira tramutandola in misericordia: «Dio [allora] vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece» (Gn 3, 10).
Convertirsi è convertirsi alla compassione e alla misericordia. Conversione difficile, se è vero che, alla conversione dei niniviti, Giona reagì con tono indispettito e autopunitivo: «So che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Ora dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio per me è morire che vivere!» (Gn 4, 2-3). Giona ritiene che la stabilità del mondo è sovvertita se in esso ad imporsi è la legge della misericordia, per cui preferisce morire piuttosto che vivere. Ma Dio allora fa sorgere una piccola pianta di ricino (termine che in ebraico si dice qiqaion) che subito dopo fa seccare per poi commentare, al lamento del profeta:
«Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita; e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la mano sinistra e una grande quantità di animali?» (Gn 4, 10-11).
La misericordia, causa e fine della conversione, non si oppone alla giustizia ma ne è l’inveramento (sarebbe stato ingiusto per Dio far morire le centoventimila persone incapaci di distinguere tra la destra e la sinistra, cioè i bambini e, oltre ad essi, anche gli animali!) e l’espressione più alta e imprevista.