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    L’«alleggerimento» della sessualità e i suoi «gravosi» effetti


     

    Andrea Bozzolo

    (NPG 2001-08-46)


    Uno degli elementi con cui più frequentemente deve confrontarsi chi accompagna i giovani nella loro crescita affettiva e, più specificamente, nella preparazione al matrimonio, è costituito senza dubbio dalla profonda mutazione del costume, che ha reso sempre più ovvia la «separazione» tra l’esercizio della sessualità e il vincolo di un impegno indissolubile: essere «legati» nella forma del matrimonio non è più «significativo» ai fini dell’atto sessuale, o quanto meno, più prudentemente, non è più l’elemento discriminante. Il fenomeno che sta alla base di quest’evoluzione, la cosiddetta «rivoluzione sessuale», è sufficientemente noto per essere qui richiamato nelle sue origini e nelle sue formulazioni. Più utile, probabilmente, è invece riconoscere le sue conseguenze a proposito dell’interpretazione del mondo degli affetti e della plasmazione dell’ethos diffuso.
    Ci sembra di poter inquadrare questa problematica parlando di un «alleggerimento» della sessualità, ovvero di un suo accostamento morbido, estetico, ludico che corrisponde pienamente alla sensibilità del post-moderno. Fa parte, infatti, di un modello di cultura altamente caratterizzato dalla dipendenza mediatica, una rappresentazione della vita in cui i confini tra il reale e il virtuale diventano sempre più volubili, l’apprendimento del mondo e l’esercizio della responsabilità diventano sempre più distanziati, la percezione di sé sempre più disgiunta dalla riflessione sulle conseguenze del proprio agire. Comunicare «chattando», in questo senso, ha un valore emblematico per rappresentare il modello dell’intersoggettività post-moderna: indefinitamente allargata nei propri confini, ma significativamente indebolita nei propri incontri reali.
    Per restare nell’ambito specifico della sessualità, possiamo affermare che concorrono a promuoverne l’alleggerimento due principi che in maniera molto evidente regolano nella cultura occidentale i comportamenti sessuali, e che possiamo chiamare «oggettivazione del sesso» e «attivismo del piacere».

    Oggettivazione del sesso

    Con «oggettivazione del sesso» intendiamo quel principio per cui la sessualità è accostata come «tema», «argomento», «oggetto» di studio scientifico e di discorso abituale. Uno degli imperativi della cultura dominante, infatti, è che del sesso bisogna parlare: parlarne sempre e comunque. Ne parlano le riviste (e quanto! e come!), ne parlano le campagne pubblicitarie, se ne parla a scuola, al telefonino, sul treno… come di una cosa «qualunque». Non è solo un fatto di moralità e di pudore personali, ma più radicalmente è una questione di mentalità e di costume: «spiegare» e «illustrare» i dinamismi della sessualità, in modo che nulla rimanga in ombra, è il nuovo atteggiamento «illuminato» che viene contrapposto alle paure e alle reticenze dell’educazione di un tempo. E questo al punto che la riservatezza, la gradualità, la difesa del senso del mistero che avvolge l’intimità nuziale e l’origine della vita, sono immediatamente intesi come forma sospetta di reticenza e, ultimamente, d’ipocrisia.
    Se si può anche riconoscere che quest’atteggiamento è, almeno in parte, una comprensibile reazione a silenzi forse eccessivi di culture passate, non ci si può però nascondere la gravità di un accostamento alla sessualità che è di tipo «oggettivante» e che si spende all’insegna dei meccanismi ormonali e dei funzionamenti anatomici, come se ciò di cui si parla non avesse a che vedere con la storia della libertà, con il movimento degli affetti e l’impegno della responsabilità, con l’affidamento di sé e la dedizione reciproca. Tutto questo, certo, non sempre è escluso, ma fondamentalmente è «altro» rispetto all’atto sessuale: caso mai ne è il «contorno», lo «sfondo»; certamente non il «senso» e il «criterio».
    Il paradosso di questo atteggiamento consiste nel fatto che, mentre questa oggettivazione viene fatta in nome della libertà, essa conduce a sottolineare ciò che nella sessualità costituisce l’aspetto meno libero, ossia il dato biologico, la reazione ormonale, la sensazione fisiologica. In questo modo l’atto sessuale viene spersonalizzato e inteso come un «prodotto» tecnico, rispetto a cui il corpo, concepito come uno strumento, deve ottimizzare i propri risultati.

    Attivismo del piacere

    Il secondo elemento, che consegue al primo, è il cosiddetto «attivismo del piacere», ovvero l’orientamento dei comportamenti sessuali sulla linea di un obiettivo edonistico da conseguire a tutti i costi. Il momento edonico dell’incontro, in questa mentalità, è del tutto disarticolato dalla dimensione antropologica del desiderio, che invece si distingue per la sua irriducibilità alla soddisfazione di un bisogno e per il suo insopprimibile anelito al riconoscimento interpersonale. Anche nell’incontro fisico, anzi tanto più in esso, la persona si attende che le sue intenzioni, la sua storia, il suo amore «contino», e contino in modo «determinante», proprio ai fini della «bellezza» e della «piacevolezza» dell’atto. Il che significa che tra il «legame» delle libertà e l’«incontro» nella carne vi è un nesso originario, la cui negazione è semplicemente disumanizzante. Eppure tale negazione è quanto la cultura diffusa sistematicamente persegue, «alleggerendo» l’esercizio sessuale a «gioco», e ad «avventura», o almeno illudendosi di farlo.
    Di illusione, infatti, si tratta, perché gli esiti della sessualità «alleggerita» si mostrano in realtà più «gravosi». Gravano infatti sulla persona quelli che sono gli esiti «reali», quelli che avvengono dentro di lei e sono così distanti dal mondo virtuale della chiacchiera comunicativa post-moderna e delle sue rassicuranti e edonistiche rappresentazioni. Anche se il discorso pubblico parla di gioco sessuale, tutt’altro che di gioco si tratta, perché in realtà la logica è quella della «massima prestazione», che è logica altamente tecnica e selettiva e carica il rapporto sessuale di tensione e frustrazione: il senso di inadeguatezza di fronte alle attese altrui, la frustrazione di non poter competere con chi è più bello e attraente, l’angoscia di sapere che cosa l’altro ha veramente provato. E qui spesso si innesca, come tutti sanno, un circolo vizioso, perché in «soccorso» di questa tensione ritornano da un lato i consigli generosi degli esperti del piacere erotico, che dilagano ormai sfacciatamente, e dall’altro la mercificazione della sessualità (pornografia e peggio) che viene a compensare chi selettivamente è escluso, o si sente escluso, dalla «competizione del piacere».

    Il corpo e la libertà

    Sottrarsi a questo clima e ad un andazzo dilagante non è facile. Tanto più che gli unici problemi che la cultura diffusa riesce a vedere in questi comportamenti sono quelli che pensa di risolvere con la distribuzione di preservativi nelle scuole o con la messa in circolo di «pillole» sempre più efficaci. Ma per chi pensa di non poter rinunciare all’idea che un corpo è più di un organismo e l’incontro di due corpi è più di un gioco, l’impegno di una seria e motivata educazione degli affetti si prospetta come una priorità.
    Si tratta, innanzi tutto, di restituire alle giovani generazioni la percezione che tra il corpo e la libertà esistono dei legami molto più profondi, di quelli che le rappresentazioni comuni lasciano intravedere. È diffusa, infatti, una concezione che grosso modo tende a pensare da un lato la corporeità dell’uomo come pura materialità biologica, fatta di pulsioni e meccanismi (non molto diversi da quelli animali: soprattutto quando si parla di «sessualità»), e dall’altra la libertà come semplice potere incondizionato di esercitare il proprio volere (non molto diverso da quello di puri spiriti: soprattutto quando si parla di «amore»). Le conseguenze devastanti di questa concezione sono l’idea che l’uomo ha delle pulsioni sessuali sostanzialmente «incontrollabili» e una libertà senza legami essenzialmente «arbitraria», e per questo, a una certa età, la (quasi) «necessità» fisica gli impone di avere rapporti sessuali, mentre l’«arbitrio» senza vincoli gli consente di averli scriteriatamente con chi vuole.
    Il fatto è, però, che né il corpo è una macchina, né la libertà è una monade spirituale. Il corpo, infatti, non è solo luogo di percezioni fisiche e sensazioni organiche, ma anche luogo di apertura al senso e di rapporto al mondo. Gli occhi dell’uomo non vedono come vede una macchina fotografica, attraverso la semplice registrazione di impulsi visivi, ma vedono sempre assegnando un’intensità qualitativa ai vari oggetti, mettendone a fuoco alcuni più di altri, fino a farci dire a volte che non abbiamo visto qualcosa, che pura indubitabilmente era nel nostro campo visivo, perché il nostro sguardo era tutto assorbito in un altro punto: sono insomma gli «occhi» di una «libertà». E d’altra parte la nostra libertà non è semplicemente la possibilità di disporre in qualunque modo, momento e forma di noi stessi, perché la più semplice esperienza quotidiana ci suggerisce quanta distanza ci sia tra ciò che vorremmo e ciò che possiamo: la fatica fisica, la resistenza psicologica, la forza dell’abitudine, le conseguenze del passato ci ricordano continuamente che la nostra libertà è la «libertà» di un «corpo».
    Emblematico a questo riguardo è proprio l’ambito dei comportamenti sessuali, per i quali la specie umana, a differenza degli animali, non ha periodi fissi per l’accoppiamento determinati dall’istinto, ma neppure la libertà indiscriminata di fissare in qualunque momento un rapporto fecondo. Gli uomini hanno piuttosto la possibilità di esprimere la propria scelta all’interno di una ciclo temporale in cui il corpo femminile si apre alla fertilità, unendo l’intesa delle intenzioni al ritmo dei corpi.
    Da questa riflessione deriva la necessità di accompagnare i giovani a riconoscere che nel proprio corpo abita un grande mistero, che deve essere pazientemente decifrato non solo nei suoi funzionamenti, ma anche nel suo senso. Esso non è solo organo di un piacere da consumare, ma anche luogo di una tenerezza da apprendere; non è solo uno strumento da usare, ma è forma dell’«io». Ospitare nel proprio corpo, come sanno bene le mamme, è ospitare nel proprio «io»; dare il proprio corpo nell’atto sessuale, è dare il proprio «io», e ciò significa contrarre un «legame» della libertà, di cui il corpo serberà sempre memoria. Per questo la mentalità diffusa dell’amore libero costituisce in realtà una violazione profonda della libertà, che ferisce l’uomo e la donna proprio in ciò che hanno di più profondo: il tesoro prezioso dei loro legami, indissolubilmente corporei e spirituali.

    La sessualità e il matrimonio

    Si capisce così che l’insegnamento cristiano che da sempre riserva il rapporto sessuale esclusivamente alla situazione di una coppia di sposi, tutt’altro che essere l’imposizione arbitraria di una norma moralistica, è invece la forma più alta di rispetto della peculiarità della struttura umana. E difatti, come già abbiamo accennato, ogni coppia che abbia davvero scoperto l’amore sa quanto determinante sia la qualità spirituale del legame addirittura per la piacevolezza fisica dell’atto, che con un’altra persona, magari incontrata per caso o per avventura, sarebbe tutta un’altra cosa.
    D’altra parte, senza poter prendere qui in considerazione tutta la problematica complessa dei rapporti prematrimoniali tra due fidanzati, che vanno comunque distinti dall’amore fatto per avventura, non si può fare a meno di rilevare quanto in essi ne riveli chiaramente l’inopportunità. Essi, infatti, hanno la forma dell’anticipazione (non di rado motivata con la «necessità» di verificare l’intesa sessuale) di quello che sarà un aspetto importante della vita di sposi, ma di fatto la realizzano con una persona che non è (ancora) la moglie e il marito. E questo costituisce una differenza molto rilevante, che pregiudica aspetti significativi non solo del futuro matrimonio, a cui certamente gioverebbe di più esercitarsi nella pazienza, nel dominio di sé, nella limpidezza delle intenzioni, nella fedeltà della mente e del cuore…, ma anche elementi essenziali dell’atto stesso. Si pensi soltanto alla dimensione della maternità e della paternità che, anche se il sentire diffuso ha ormai ridotto ad un elemento accidentale che può talora aggiungersi al rapporto, costituisce sempre l’orizzonte di senso in cui esso si colloca. Tanto che, negato dalle intenzioni, ritorna sotto forma di paura di un’inattesa maternità. E c’è proprio da chiedersi come dei fidanzati possano pensare di trovare nei rapporti prematrimoniale un avviamento al matrimonio, lì dove essi si abituano a «temere» come un’evenienza assolutamente da evitare, ciò che rappresenterà un elemento altissimo della loro missione: essere padre e madre. Il che è confermato anche dal fatto che, dove le libertà non si siano realmente consegnate con un patto che le vincola per sempre, anche i corpi sono costretti a mettere «diaframmi», che materializzano tra di loro la presenza di una barriera che prima di tutto è nella coscienza.
    L’educazione affettiva dei giovani deve ovviamente muoversi sempre sulla linea di un’indicazione di valori positivi, di un incoraggiamento alla maturazione di una dedizione più profonda, nell’indicazione di orizzonti molto ampi per una missione di coppia che non va rattrappita dal moralismo. Però sottrarsi di fronte al compito di dire anche ciò che non è di moda e all’esigenza di esplicitare ciò che troppe volte rimane nel non detto, sarebbe un’ingenuità i cui effetti sono e rimangono troppo «gravosi».


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