Carmine Di Sante
(NPG 2001-09-44)
Profeta dei deportati da Gerusalemme a Babilonia (secolo sesto prima di Cristo), Ezechiele è il profeta per eccellenza della responsabilità: che agli esiliati lontani dalla patria e tentati di addebitare a Dio la loro infelice sorte, dice con coraggio:
«Voi dite: Non è retto il modo di agire del Signore. Ascolta dunque, popolo d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere l’iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto per l’iniquità che ha commessa. E se il giusto desiste dall’ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà. Eppure gli Israeliti van dicendo: Non è retta la via del Signore. O popolo d’Israele: non sono rette le mie vie o piuttosto non sono rette le vostre?» (Ez 18, 25-29).
Privati della loro patria e sottomessi al potere babilonese, gli Israeliti leggono il loro esilio come ingiusto e sono attraversati dal dubbio che ciò sia dovuto ad un Dio distratto o assente che avrebbe abbandonato la storia al trionfo del più forte: dubbio che da sempre lacera la coscienza credente, da Giobbe, che rivendica la sua indiscussa fedeltà a Dio, ai sopravvissuti all’Olocausto – paradigma di tutti gli olocausti della storia umana – dove milioni di esseri umani, tra cui migliaia di bambini e innocenti, sono stati inceneriti e nientificati.
Dio interviene per fugare questo dubbio, facendo la sua apologia e controreplicando: «Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?» Il termine ebraico per «condotta» è derek che vuol dire strada. La condotta di Dio o il suo comportamento è la strada che egli percorre, e la strada che egli percorre è quella che conduce là dove l’uomo soffre e geme, come vuole il racconto esodico rivelativo del Dio biblico: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3, 7-8). La strada che Dio percorre è quella che conduce alla «miseria», al «grido» e alle «sofferenze» dell’uomo – di ogni uomo – ed egli la percorre scendendovi fino in fondo («Sono sceso») per condurlo fuori da questo abisso e fargli dono della possibilità di un altro mondo «bello e spazioso dove scorre latte e miele». Dio è Dio per questa volontà di «condiscendenza» che ne costituisce la stessa identità o essenza. Dio è – e può essere solo – colui che «scende negli inferi» della sofferenza e della morte per annunciarne la sconfitta.
Ma se, per definizione, Dio è «condiscendenza», colui che segue l’uomo dovunque egli vada per stargli accanto e liberarlo, allora si rivela infondato e inconsistente il dubbio di Israele che Dio stesso ora interpella: «Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?». Da accusatore, Israele si ritrova accusato e costretto a trovare la risposta al problema del male non in Dio ma nella sua responsabilità di fronte a Dio: «Se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto per l’iniquità che ha commesso». Il male non trova la sua origine in Dio ma nell’uomo, nella sua condotta che invece di essere conforme alla condotta divina la nega e la tradisce. Anche qui il termine ebraico per condotta è derek che vuol dire strada, e la strada che Dio ha tracciato per l’uomo è la sua stessa strada: quella della misericordia che si china sulla sofferenza per eliminarla.
Infatti il gesto liberatore con cui Dio si è chinato sulla sofferenza umana per infrangerla è stato offerto ad Israele come paradigma, come vuole il racconto sinaitico dove Dio da liberatore si rivela legislatore, dando ad Israele come legge la sua misericordia: «Non molesterai lo straniero né lo opprimerai, perché voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 22, 20). Ciò che Dio ha fatto ad Israele, chinandosi sulla sua sofferenza, deve essere ripetuto da Israele, chinandosi sulla sofferenza altrui. La «giustizia» per Israele, è accettare e promuovere questo ordine che Dio ha rivelato e affidato alla sua responsabilità e senza la quale – l’ordine della misericordia accolta e assunta come legge del proprio agire – il mondo non sussiste ma riprecipita nel caos. Le cause della sofferenza e del disordine – come l’esilio d’Israele a Babilonia – non vanno cercate in Dio ma nell’uomo, nella sua strada che, contraria alla strada di Dio, non conduce alla vita ma alla morte: «Se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto per l’iniquità che ha commesso». La «morte» – termine con il quale le Scritture indicano la sofferenza e il disordine che, come un fiume limaccioso, tracimano, invadono e distruggono – più che della giustizia di Dio è messa in discussione della giustizia dell’uomo che, non conforme a quella divina, si rivela come ingiustizia: contraffazione e negazione di quella divina.
Se, dalla prima all’ultima delle sue pagine, la bibbia è istituzione e affermazione della responsabilità o giustizia come supporto e «fondamento» del reale, Ezechiele è stato il primo ad esplicitare che tale responsabilità non è collettiva ma singolare e che, di fronte a Dio, responsabile è solo l’io, nella sua irriducibile singolarità, e non il popolo, la comunità o il gruppo: «Mi fu rivolta questa parola del Signore: ‘Perché andate ripetendo questo proverbio sul paese d’Israele: I padri han mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati? Come è vero ch’io vivo, dice il Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele. Ecco tutte le vie sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà» (Ez 18, 1-4). Il proverbio che Ezechiele contesta – e che esprime una mentalità radicata in molte culture ancora oggi – vuole che «i figli» paghino per le colpe dei «padri», che chi vive all’interno di un gruppo (qui come paradigma è assunto il gruppo familiare) porta, in positivo e in negativo, le conseguenze di chi ne è il capo.
Questo principio secondo il quale chi è parte di un insieme ne condivide la sorte è vero su molti piani: il figlio di una famiglia povera sarà povero anche lui, come chi vive in un gruppo violento diventerà probabilmente violento. Ma se la logica dell’appartenenza, secondo la quale nella parte che compone il tutto si riflette il tutto, vale sul piano empirico – storico, politico e psicologico – non vale, per Ezechiele, sul piano etico, dove l’uomo è di fronte a Dio e dove a rispondere a Dio è solo l’io che, risvegliato dalla potenza della sua Parola, è sottratto al potere dei determinismi del passato e del contesto e, capace di trascenderli, posto nella decisione e nella possibilità di rispondergli liberamente: «Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità» (Ez 18, 20).
Principio, questo voluto da Ezechiele, dall’altezza quasi irraggiungibile, se è vero che ancora oggi le cronache testimoniano di episodi di violenza nei confronti di persone la cui unica «colpa» è di essere appartenenti alla cerchia del «cattivo» o del «carnefice» di turno. Ma è dall’altezza di questo principio – il principio della responsabilità personale e indeclinabile – che, per la bibbia, si dischiude e si realizza il senso. E il futuro si fa presente, il non ancora accade, l’inedito ad-viene, il regno si fa storia e la speranza vocazione e compito.