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    Ripensare la pastorale giovanile: verso nuove forme?


    Paolo Giulietti

    (NPG 2002-07-13)



    Il nostro orizzonte: gli Orientamenti Pastorali

    Gli Orientamenti Pastorali, anche per quanto attiene alla pastorale giovanile, vengono da una storia che non possiamo ignorare, e che si è sostanziata in alcuni documenti recenti, che nel nostro cammino cercheremo di tener presenti:
    – Educare i giovani al Vangelo della carità, dagli OP Evangelizzazione e testimonianza della carità, 44–46 (’90);
    – Con i giovani per testimoniare la speranza, dalla Nota Con il dono della carità dentro la storia, 38–40 (’96);
    – Educare i giovani alla fede, Orientamenti emersi dai lavori della XLV Assemblea Generale della CEI (’90).
    Negli OP si parla in modo esplicito di pastorale giovanile solamente al n. 51; i riferimenti ai giovani sono però presenti anche altrove. In ogni caso il discorso va allargato tenendo conto della prospettiva generale, per evitare limitazioni che non era certo intenzione dei vescovi imporre, ma che una certa disorganicità del documento potrebbe suggerire ad un lettore distratto.

    Ripensare la pastorale (e la pastorale giovanile) è un’esigenza reale?

    Mi rifaccio agli Orientamenti perché credo che essi, al di là della funzione indicativa – e per certi versi normativa – a cui assolvono, offrono prospettive davvero innovative anche sul tema in questione.

    Squadra vincente non si cambia!

    È la frase tipica degli allenatori di calcio. È però – a buon vedere – questione di buon senso: nessuno introduce variazioni in un modello o in una macchina che funziona, se funziona davvero bene. Dove per buon funzionamento si intende comunemente l’adeguatezza alle proprie esigenze e aspettative.
    Penso allora che, all’inizio del nostro cammino, sia importante chiederci quali sono le esigenze che spingono la Chiesa italiana, e in particolare la pastorale dei giovani, verso il rinnovamento. In altre parole, perché e in che cosa sperimentiamo che la nostra squadra non vince più? E che significa per noi una squadra vincente? Potrebbe darsi, infatti, che si parli di rinnovamento per puro amore del nuovo (una tendenza che nella Chiesa è presente da sempre e che ha stigmatizzato anche s. Paolo); oppure che si cerchi la novità mossi da obiettivi che non sono quelli della comunità cristiana.

    La nostra squadra è ancora vincente?

    Non dobbiamo nasconderci che il lavoro fatto fino a questo momento ha dato esiti molto positivi.
    Perlomeno nell’Europa occidentale la Chiesa ha forse più stretti legami con il mondo giovanile. Abbiamo una struttura ecclesiale e pastorale che riesce a coinvolgere in percorsi associativi o di gruppo una percentuale non insignificante degli adolescenti e dei giovani. Siamo una comunità cristiana che ha una grande ricchezza di tradizioni e risorse educative, che molti altri ci invidiano.
    Allora perché rinnovarsi? Non manca, nella nostra Chiesa, chi si dice convinto che il problema del rinnovamento sia tutto sommato secondario. Quello che servirebbe è un maggior fervore e una maggiore organizzazione nel continuare a portare avanti l’impostazione attuale.
    Ci sono però tanti altri – e noi tra questi – a cui pare di intravedere una inadeguatezza reale – in questo paese che cambia – della nostra pastorale giovanile (in Educare i giovani alla fede si parla di pastorale giovanile come realtà in profondo mutamento e alla ricerca di se stessa).
    Quali sono i fenomeni che stanno alla base di tali inquietudini? Se li andiamo a cercare nei documenti sopraccitati ne troviamo alcuni in maggior evidenza:
    – lo sganciamento degli itinerari di fede dai percorsi di socializzazione del nostro contesto culturale: in una situazione in cui non si diventa più cristiani automaticamente, i processi educativi della comunità cristiana rimangono ancorati a schemi inadeguati;
    – una progettualità “debole”, che non riesce a superare la logica dei settori e che viaggia spesso parallelamente ai percorsi della comunità ecclesiale: essa non sembra incidere più di tanto né sul mondo dei giovani, né sulla comunità cristiana stessa;
    – un generale ritardo della comunità cristiana nei confronti dei linguaggi e delle tendenze del mondo giovanile, anche a causa della difficoltà di offrire ai giovani accoglienza gratuita e disinteressata. C’è una reale difficoltà di comunicazione tra Chiesa e mondo giovanile, originata da un difetto di attenzione e di ascolto;
    – una pastorale giovanile confinata entro spazi abituali, che ha difficoltà a raggiungere i tanti giovani che non partecipano nei luoghi della loro vita quotidiana: scuola, università, aziende, caserme, spazi informali. Facciamo pastorali di ambiente chiuso, limitandoci ad invitare a venire (ma neanche con troppo entusiasmo o reale accoglienza), ma limitando anche la proposta formativa a temi di carattere generalista;
    – una pastorale giovanile esclusiva, in cui mancano i lavoratori, giovani marginali, immigrati;
    – una avvertita difficoltà di proporre efficaci itinerari educativi ad una fede matura e organica con la vita: in una cultura dei frammenti, anche i cammini di fede più seguiti rischiano di collocare l’esperienza credente in una propria nicchia, senza farla diventare determinante per il complesso della vita del giovane.

    La “conversione pastorale”

    In base alle suddette considerazioni – e altre simili – si è fatta strada l’idea che sia necessaria una reale “conversione pastorale”. Dove l’impressione è pregnante: non si tratta di aggiustamenti marginali o “tattici”, ma di cambiamenti di fondo, a livello “strategico”. Come ogni conversione che si rispetti, a monte del nuovo modo di comportarsi sta il cambiamento degli atteggiamenti, cioè della modalità di fondo di guardare e reagire alla realtà.
    Non può trattarsi – poiché abbiamo a che fare con strutture e non con singole persone – di una conversione alla s. Paolo: i processi di cui sotto parleremo sono in larga parte già iniziati, e gli atteggiamenti nuovi iniziano già a diffondersi. Non senza resistenze, fatiche ed errori, come si conviene ad ogni conversione autentica.
    I riferimenti degli OP alla conversione pastorale non riguardano direttamente la pastorale giovanile: sono considerazioni di massima, che chiedono di essere tradotte per mondo giovanile. Sappiamo che ogni traduzione è un tradimento. Lo confesso e lo dichiaro in anticipo.

    Un ripensamento nell’ottica della missionarietà

    Negli Orientamenti Pastorali la necessità della “conversione pastorale” emerge chiara soprattutto a partire dalla scelta di fondo di privilegiare la prospettiva della missione come elemento unificante dell’essere e dell’agire della comunità cristiana. Se comunicare il Vangelo è il compito fondamentale della Chiesa; se questo significa ricerca di poter condividere con tutti gli uomini e le donne la gioia e la speranza che vengono dal Cristo; se la missione ad gentes diventa il paradigma della pastorale [sono tutte affermazioni di OP, 32]... è allora necessario un profondo ripensamento.
    La conversione pastorale, processo già in atto nella riflessione e nella prassi, viene sostanziata dagli OP in alcuni imperativi, esposti nel corso del testo, ma sunteggiati a titolo di esempio nell’Agenda Pastorale d’appendice, al n. 4. Li sintetizzo perché mi sembra che essi costituiscano anche un’impalcatura preziosa, mutatis mutandis, per l’argomento della nostra discussione:
    – la “comunità eucaristica” deve maturare una crescente passione apostolica, per farsi carico di tutti i battezzati, valorizzando le opportunità già esistenti e immaginandone di nuove;
    – la comunità cristiana deve adottare una prassi di comunione e di corresponsabilità tra pastori e fedeli, convogliando ogni carisma e risorsa nella comunicazione del Vangelo;
    – la comunità cristiana deve ripensare e incentivare la presenza e l’azione dei laici nei vari ambienti di vita;
    – la comunità cristiana deve dare un’impostazione missionaria al lavoro di progettualità pastorale e alla formazione degli operatori, anche creando e valorizzando nuovi ministeri laicali di tipo missionario;
    – la comunità cristiana deve predisporre itinerari di “primo annuncio” per chi inizia o ri-inizia ad essere cristiano;
    – la comunità cristiana deve verificare gli itinerari formativi dei seminari e la formazione permanente dei preti, perché siano veramente padri della fede e acquisiscano una mentalità missionaria.

    Quali “nuove forme” per la pastorale giovanile?

    Prima di entrare nel vivo vorrei fare alcune premesse:
    – il rinnovamento si articola su “fronti” diversi, i quali, però, si richiamano a vicenda: ci accorgeremo di come il rinnovamento sia questione non di alcune poche scelte tattiche, ma di decisioni e atteggiamenti a livello strategico. In questo senso, parlare di “nuove forme” può essere limitante. Mi permetto questa osservazione perché sono convinto che non basti l’azione di qualche pioniere – che pure è necessaria e benedetta – se la comunità cristiana nel suo complesso non si converte: vale la pena, in altre parole, darsi da fare (sulla strada) per riavvicinare qualche giovane “lontano”, se e solo se si ha una comunità pronta a riceverlo. Il padrone di casa manda i servi ai crocicchi delle strade perché sa di aver pronto un banchetto invitante e una dimora accogliente;
    – le “nuove forme” non sono, se non in parte, da inventare: esistono già, nelle riflessioni e nelle sperimentazioni che, a tutti i livelli, la Chiesa italiana ha messo in atto in questi ultimi anni. Si tratta probabilmente di ricondurle entro una visione unitaria, che ne colga la fecondità per tutta la pastorale giovanile e che dia loro una sistemazione teorica più integrata;
    – la stessa partecipazione a questo convegno (di cui mi rallegro e per la quale ringrazio gli organizzatori) è indicativa dell’esigenza di prendere sul serio quell’apertura missionaria che i vescovi italiani pongono alla base dei necessari cambiamenti a livello pastorale.
    Per illustrare le dimensioni in cui va giocato il rinnovamento della pastorale giovanile mi servirò dello schema che ho tratto dall’agenda degli OP, traducendolo a livello giovanile e integrandolo con le indicazioni degli altri documenti CEI sopra citati (e, naturalmente, con qualcosa di personale).

    Per una nuova “passione apostolica” della comunità cristiana nei confronti del mondo giovanile

    Non possiamo nasconderci che, per diverso tempo e ancora in parecchie realtà, la pastorale giovanile sia rimasta faccenda per addetti ai lavori: riguarda, a livello diocesano, il settore specifico, con le sue strutture e iniziative; nelle parrocchie e – un po’ di meno – nelle associazioni, è feudo di qualche prete giovane e del suo monopolio di fedeli animatori. Per il resto, vige una reciproca indifferenza.
    Tale modello, che poteva funzionare (e di fatto ha funzionato) quando i processi di socializzazione religiosa coincidevano con quelli del contesto socio–culturale, oggi appare largamente insufficiente; la mancanza di “passione apostolica” della comunità cristiana verso i giovani determina gravi lacune nel cammino formativo.
    Il rinnovamento della pastorale giovanile passa quindi attraverso una decisa restituzione di soggettività alla comunità cristiana nel suo insieme: passare dalla situazione di delega a un coinvolgimento pieno di tutte le componenti della comunità.
    In cosa si concretizza tale missionarità della comunità cristiana nei confronti del mondo giovanile?
    – maturare e rendere visibile, attraverso un’accoglienza incondizionata, una qualità di vita diversa. Non si tratta di fare proselitismo (perpetuare la specie in estinzione), ma di comunicare la gioia e la speranza che si sperimenta nella comunione con Cristo e con i fratelli;
    – ascoltare con attenzione e apertura, per discernere il “vero” presente nel “nuovo” delle culture e dei linguaggi giovanili;
    – rendere possibile il protagonismo dei giovani nella vita e nell’azione della comunità;
    – rapportarsi al mondo giovanile con chiara e pensata intenzionalità (progetti);
    – risvegliare la responsabilità educativa degli adulti, dentro e fuori gli ambienti comunitari.
    Fin qui, mi pare, niente di nuovo. Aggiungerei però un paio di considerazioni:
    – al di là di situazioni particolarmente felici, tutto ciò è da costruire: vera novità sarebbe la decisa presa di coscienza, da parte di responsabili o operatori di PG, che loro compito primario è rompere le scatole alla comunità adulta, affinché maturi tali atteggiamenti;
    – nel recente passato abbiamo vissuto la grande esperienza dei gemellaggi nella GMG 2000, la quale ha rivelato una grande disponibilità e vitalità della comunità adulta nei confronti dei giovani. Forse, dopo tante enunciazioni teoriche, ci stiamo accorgendo che non stiamo parlando di teorie, ma di qualcosa che è davvero possibile.

    Per una progettualità che fa convergere sulla missione

    Un’altra delle “piaghe” della pastorale è la settorializzazione e la frammentazione: accavallarsi di progetti, iniziative e proposte per linee parallele, senza la preoccupazione di convergere su obiettivi comuni attorno alla persona dei giovani. Protagonisti del fenomeno: gli uffici pastorali e il gran numero di aggregazioni laicali vecchie e nuove. A fronte di tale situazione, è stata insistente, anche a livello di documenti, la richiesta di un progetto unitario, o comunque di momenti di confronto e ideazioni comuni. Obiettivo: organizzare sensibilità e risorse diverse attorno a un medesimo sforzo pastorale.
    Anche a questo proposito, verrebbe da pensare che non ci sia nulla di nuovo. Mi sembra invece che la prospettiva missionaria conferisca una freschezza nuova: non si tratta di metterci d’accordo su come andare d’accordo. Si tratta di organizzare le risorse in funzione della “proiezione all’esterno” della comunità cristiana. In questa prospettiva, il progetto non può più venire concepito come una sorta di codice della strada ecclesiale, funzionale al mantenimento della sicurezza del sistema, ma come – perdonatemi ancora l’analogia militare – “un piano di battaglia”, che dà indicazioni su come muoversi in territorio straniero. Il carattere innovativo che l’estroversione conferisce al progetto diventa ancor più evidente alla luce di quanto diremo subito di seguito.

    Per una presenza nuova negli spazi di vita quotidiana

    Non possiamo nasconderci che la pastorale giovanile è stata per larga parte pastorale di ambienti ecclesiali; pastorale del venire e non dell’andare; pastorale della gestione e non della “conquista”.
    A ciò ha contribuito non poco una certa clericalizzazione, che è coincisa con la crisi di certo associazionismo laicale più di ambiente.
    L’attenzione agli ambienti di vita dei giovani non è cosa nuova. È almeno dal Convegno di Palermo che si è iniziato ad insistere sulla necessità di una rinnovata presenza negli spazi di vita dei giovani:
    – gli spazi e i tempi formali: la scuola, università, ambienti di lavoro, caserme, carceri, squadre sportive…
    – gli spazi e i tempi informali, del tempo libero: muretti, strada, campetti, discoteche, pub…
    Dove sta la novità? A mio avviso la centralità della missione ne suggerisce diverse. Eccone alcune.

    * Un nuovo modello formativo per la valorizzazione della “missionarietà diffusa” dei laici.
    Nessuno l’ha mai negata, ma pochi l’hanno veramente presa sul serio. Lo dico alla luce di due considerazioni:
    – la missione è sempre un “dopo” rispetto alla formazione: “prima ci formiamo poi andiamo”. Di conseguenza, alla fine sono pochi quelli che sono andati davvero;
    – gli ambienti di vita sono rimasti spesso ai margini dei cammini formativi: abbiamo promosso una formazione di carattere generale, che non si è preoccupata di affrontare tante situazioni di vita, né di offrire strumenti per viverle da cristiani, con allegata testimonianza.
    Una pastorale giovanile che prenda sul serio gli ambienti di vita deve da una parte superare la logica del prima-dopo. Non ci può essere formazione che non porti contestualmente alla missione: non si può crescere nella fede se si lascia tra parentesi la questione della propria testimonianza cristiana nei luoghi e nei tempi della vita quotidiana.
    Faccio un esempio che mi è caro: nei gruppi ecclesiali di Perugia ci sono molti universitari. In università non se ne vede nessuno. Come mai? Cos’è che non funziona? Proprio l’idea che al cammino di fede questa situazione di vita, in fin dei conti, interessi poco. Quando un giovane viene al gruppo, fa il suo servizio in parrocchia e partecipa alla liturgia, la sua formazione va bene. Come poi viva il restante 97% del suo tempo non ci riguarda. Magari si fa anche qualche generica raccomandazione sull’onestà, la solidarietà, e altre belle cose, ma non ci si preoccupa di fornire strumenti di verifica e di comprensione della propria esperienza, né di dare indicazioni per una efficace testimonianza cristiana.
    In altre parole: la centralità della missione esige una nuova impostazione della formazione, più attenta alla vita concreta di ogni singola persona, affinché ognuno doni quel poco di fede che ha e testimoni quel poco di Vangelo che vive. Si parla molto di “laboratori della fede”: qualcuno dice che sia una specie di etichetta da appiccicare a iniziative già collaudate. Penso invece che da Tor Vergata sia nata – magari in modo un po’ confuso – la ricerca di un approccio alla fede più integrato con la vita e più sbilanciato sulla missione.
    Parliamo, in questo convegno, di pastorale della strada, di incontrare giovani là dove sono. Non dimentichiamoci che, attraverso i loro coetanei che frequentano la comunità cristiana, noi sulla strada ci siamo di già, nei loro luoghi già siamo presenti. Pensare ad una animazione di strada è giusto, ma non può e non deve sostituire questa missionarietà diffusa.

    * Una nuova presenza di Chiesa negli ambienti di vita.
    Il ripensamento va in due direzioni: quella qualitativa e quella quantitativa.
    A livello qualitativo si avverte l’esigenza di passare da una sorta di delega ad associazioni e persone di buona volontà (o rivestite di ruolo istituzionale), ad un coinvolgimento in prima persona della comunità cristiana in tutte le sue componenti.
    A livello quantitativo, perché si sta delineando l’urgenza di investire su spazi diversi da quelli tradizionali (cioè quelli formali, in cui la presenza di Chiesa passa spesso attraverso figure istituzionali): sono gli spazi informali, quelli del tempo libero autogestito, la cui importanza per la vita dei giovani si sta sempre più accentuando; sono gli ambienti virtuali, con le loro potenzialità.
    Sia l’una che l’altra direzione di impegno esigono “forme nuove”: forme nuove per stare in modo nuovo – come Chiesa e in chiave missionaria – negli ambienti di sempre; forme nuove per i nuovi ambienti, in cui tutto pare ancora da inventare. In questo senso, alcune associazioni, magari un po’ bistrattate e trascurate, avrebbero invece ancora molto di nuovo da dire.

    * Una nuova attenzione a situazioni e tempi di vita particolari.
    Si tratta di momenti di vita del giovane a cui la pastorale giovanile non ha dato (o non l’ha fatto dappertutto) adeguata attenzione, anche per l’esistenza di organismi o associazioni “di settore”. Pensiamo alla scelta degli studi; pensiamo al tempo di passaggio dagli studi al lavoro; pensiamo alla realtà del fidanzamento; pensiamo al servizio civile o quello militare; pensiamo alla malattia e all’handicap; pensiamo al disagio, alle dipendenze, all’immigrazione, al carcere… Finora l’attenzione della comunità cristiana verso i giovani coinvolti in tali situazioni è stata espressa da figure specializzate e istituzionali, che hanno avuto l’occasione di contattare giovani in momenti particolarissimi della loro esistenza. Al di là del valore dell’azione di tali figure (spesso validissima), la pastorale giovanile è rimasta in molti casi alla finestra.
    È invece necessario un processo di riappropriazione, che integri il contributo delle vecchie presenze in ottica nuova. Non ci sfugge, infatti, il grande valore educativo – anche in ordine alla proposta di fede – di tali situazioni. Vogliamo ricordarci, inoltre, che una pastorale giovanile capace di non lasciare indietro chi vive momenti di bisogno ha la garanzia di essere davvero aperta a tutti. Vedo in questo contesto anche un rinnovamento della pastorale vocazionale, perché passi da appendice più o meno facoltativa ad attenzione ordinaria della pastorale giovanile. Sono infatti i momenti di passaggio della propria esperienza personale quelli in cui la persona è disposta (e a volte lo chiede) a mettere in discussione i propri orientamenti e progetti.

    * Una nuova apertura al territorio.
    L’attenzione agli ambienti e alle situazioni di vita dei giovani ci porta a cercare delle alleanze; se ci poniamo il problema degli ambienti, non possiamo non riconoscere che non ne siamo gli unici abitatori: starci dentro implica il confronto e la collaborazione con altre persone e agenzie, a livelli diversi. Implica anche un diverso modo di vivere la struttura territoriale della comunità cristiana. Ma su questo non vorrei dilungarmi.

    * Una nuova tensione universalistica.
    La missionarietà apre gli orizzonti sul mondo. Di questo oggi c’è estremo bisogno. Sentiamo che una pastorale giovanile che prende sul serio la laicità non può evitare di mettere a tema la grande politica, che riguarda il futuro del mondo e la pacifica convivenza tra le nazione. Anche su questo non vorrei dire altro, perché la cosa mi porterebbe assai lontano.

    Per una nuova formazione di nuove figure educative

    L’attuazione di una pastorale giovanile impostata sulla missionarietà passa attraverso la formazione degli operatori. Essa ha finora mirato alla crescita degli animatori di gruppo, dotati di competenze in relazione a questo strumento. Abbiamo formato generazioni di animatori esperti nella progettazione e nella gestione di percorsi di gruppo. Per questo abbiamo insistito sui contenuti, sulla dinamica di gruppo, sulle tecniche di comunicazione.
    La centralità della missione impone percorsi formativi diversi: c’è bisogno di animatori di gruppo che sappiano sostenere l’estroversione. Dotati quindi, oltre ai consueti strumenti, di approcci, competenze e risorse.
    Ci occorrono anche nuove figure educative, per attuare la missione là dove lo strumento gruppo (almeno nella forma consueta) non appare praticabile. Tale risorsa può scaturire, in parte, dalla valorizzazione dei tanti adulti cristiani che sono già educatori dei giovani; già all’indomani di Palermo si insisteva sul “risvegliare responsabilità e passione educativa in varie figure di adulti: genitori, insegnanti, animatori culturali, operatori della comunicazione sociale, dirigenti, sportivi, responsabili di ambienti ricreativi”. È però necessario inventare e preparare anche animatori di tipo nuovo, capaci, attraverso una presenza informale nei luoghi dei giovani, di innescare percorsi educativi. In questo senso, spero che il nostro convegno sappia fornire indicazioni e esperienze.
    Anche l’esperienza dei movimenti ecclesiali può fornire in materia utili elementi di riflessione (penso alle “scuole di evangelizzazione” proposte da varie aggregazioni).
    Bisognerebbe spendere una parola (i documenti lo fanno) sulla formazione seminaristica permanente di noi preti, in relazione alle mutate esigenze della pastorale giovanile. Non vi nascondo qualche personale preoccupazione, che però non ho il tempo né la voglia di esprimere.

    Per un sistema di itinerari differenziati, attenti a chi ri-comincia ad essere cristiano

    Nella prassi attuale esiste una grande varietà di itinerari formativi: pensiamo alla grande ricchezza di modelli che presentano le diverse aggregazioni laicali. A livello “di base”, tuttavia, si registra una certa difficoltà a pensare occasioni e percorsi di autentica “prima evangelizzazione”, che conducano dal primo annuncio ad una rinnovata appartenenza alla comunità cristiana, tenendo insieme gli elementi essenziali dell’esperienza credente e quelle dimensioni vicine alla sensibilità dei giovani, come l’accentuazione esistenziale, l’emotività, la bellezza, la relazionalità, la corporeità…
    Gli orientamenti suggeriscono un ripensamento a diversi livelli:
    – le occasioni di contatto con la comunità cristiana legate ad eventi religiosi “tradizionali”;
    – il dialogo culturale;
    – il catecumenato stricte dictum;
    – gli itinerari per chi ricomincia ad essere cristiano;
    – la carità.
    Per ciascuno di questi ambiti c’è un gran lavoro di riflessione e di progettazione da fare, per individuare vie nuove di testimonianza del Vangelo e di accompagnamento personale e di gruppo. Si tratta di immaginare percorsi differenziati, capaci di partire a livelli e da occasioni diverse, per introdurre ad un cammino di riscoperta (o di conoscenza) di Cristo, del suo Vangelo, del suo popolo.


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