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    La «Gaudium et Spes», un documento orizzontalista?



    Luis A. Gallo

    (NPG 2002-05-41)


    La «Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo attuale» del Vaticano II ebbe un certo numero di voti negativi (per la precisione 75 su 2391 votanti) nella sua votazione finale, e ciò rivela che alcuni dei partecipanti al concilio avevano delle obiezioni di peso sulle sue prese di posizione. Nonostante ciò, il documento ricevette un’ampia approvazione, segno chiaro del pensiero della maggioranza ecclesiale, anche nelle sue basi rappresentate dai loro pastori.

    Un’obiezione frontale

    Probabilmente l’obiezione più radicale che veniva fatta allora – e che qualcuno fa tuttora – alla «Gaudium et Spes», fu quella che si può esprimere mediante la parola «orizzontalismo».
    Il papa Paolo VI, nel suo discorso dell’8 dicembre 1965, diceva:

    «[Questo concilio] è stato vivamente interessato dallo studio del mondo moderno. Non mai forse come in questa occasione la Chiesa ha sentito il bisogno di conoscere, di avvicinare, di comprendere, di penetrare, di servire, di evangelizzare la società circostante, e di coglierla, quasi di rincorrerla nel suo rapido e continuo mutamento».

    La serie di verbi adoperati per caratterizzare l’atteggiamento del concilio parla chiaramente di un vero suo decentramento verso «la società circostante», ossia verso il mondo. Di essi i due ultimi – cogliere, rincorrere – sottolineano ancora ulteriormente la concretezza di tale decentramento: il mondo che il concilio pose al centro del suo interesse fu quello concreto, segnato da «profondi e rapidi mutamenti che progressivamente si estendono all’intero universo» (GS 4), un mondo pieno di «gioie e speranze», ma anche di «tristezze e angosce» (GS 1).
    In un altro punto dello stesso discorso il papa aggiunse:

    «La Chiesa del concilio si è assai occupata [...] dell’uomo quale oggi in realtà si presenta. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto [...]. Una simpatia immensa lo ha pervaso tutto [...]. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo».

    È la constatazione di quanto il Vaticano II abbia preso sul serio l’invito di papa Giovanni XXIII sul letto di morte: al centro dell’attenzione e dell’interesse del concilio doveva esserci non il cristiano, ma l’uomo in quanto tale.
    Ora, fu proprio quest’orientamento che suscitò le reazioni di certi membri del concilio e, dietro a loro, di altri cristiani che in essi si rispecchiavano. Costoro, come riconobbe ancora Paolo VI, ebbero «il sospetto che un tollerante e soverchio relativismo al mondo esteriore, alla storia fuggente, alla moda culturale, ai bisogni contingenti, al pensiero altrui, abbia dominato persone e atti del Sinodo ecumenico a scapito della fedeltà dovuta alla tradizione e a danno dell’orientamento religioso del medesimo». Il punto più alto del sospetto, come risulta chiaro, è proprio quello segnalato in fondo alla citazione: infedeltà all’orientamento religioso. Quindi, il concilio, e in particolare nella sua Costituzione pastorale che costituisce il suo vertice, avrebbe stravolto la natura religiosa della Chiesa, avrebbe cioè rinnegato la sua finalità trascendente, riducendosi a perseguire le finalità immanenti a questo mondo. In altre parole ancora, avrebbe abbandonato Dio per occuparsi del mondo e dell’uomo. Un orizzontalismo privo di ogni apertura verso l’alto, quindi.

    La risposta di Paolo VI

    L’obiezione era frontale. Forse anche per questo Paolo VI sentì il bisogno di debellarla nel chiudere le sessioni conciliari. E lo fece con delle risposte molto tassative, anche nel suo modo di esprimersi.
    Anzitutto, al sospetto sopra menzionato oppose queste nette parole, cariche di modestia ma anche di fermezza:

    «Noi non crediamo che questo malanno si debba ad esso [concilio] imputare nelle sue vere e profonde intenzioni e nelle sue autentiche manifestazioni».

    E più avanti, continuando il suo discorso, si pose una domanda che riprendeva indubbiamente l’obiezione sollevata:

    «Tutto questo e tutto quello che potremmo ancora dire sul valore umano del concilio, ha forse deviato la mente della Chiesa in concilio verso la direzione antropocentrica della cultura moderna?

    Una domanda alla quale rispondeva con una formula davvero lapidaria: «Deviato, no; rivolto, sì». Va rilevato, in primo luogo, in queste parole, il riconoscimento dell’orientamento antropocentrico della cultura moderna. Essa, come è risaputo, si distingue precisamente per la svolta antropologica che pone l’uomo e il suo mondo al centro dell’attenzione e dell’interesse, facendo di lui il punto focale dal quale guardare l’intera realtà. Un umanesimo che in casi estremi, come per esempio nel marxismo e nel freudismo, è diventato ateo, ma che non ha di per sé una connotazione necessariamente atea.
    È anche da notare, in secondo luogo, che il papa ammette, in questo testo, l’assunzione di tale orientamento da parte del concilio. Infatti, dopo secoli di resistenza, fondata sui motivi ricordati nell’articolo precedente (NPG 3/2002), la chiesa accettò finalmente il nuovo mondo nato dalla coscienza adulta dell’uomo moderno ed emancipato, e adottò un nuovo modo di rapportarsi con esso. Il Vaticano II fu, infatti, l’occasione in cui finalmente la Chiesa si riconciliò con il mondo, dal quale era vissuta separata, in atteggiamento di non nascosta ostilità reciproca, durante diversi secoli.
    In terzo e ultimo luogo è da rilevare che il papa proclama in quest’occasione la correttezza di tale presa di posizione: «deviato, no», sostiene con determinazione. Abbracciare questo nuovo mondo come tale non è, quindi, secondo lui, un andare fuori strada, un prendere una via sbagliata che porti a tradire la propria identità.

    I fondamenti ultimi della risposta

    È importante esaminare ciò che suppone in profondità l’obiezione di cui ci stiamo occupando, anche per capire nel suo senso più ricco la risposta data da Paolo VI.
    Ciò che è qui in gioco, in definitiva, è la concezione della religione. Viene impugnata, infatti, la qualità religiosa del concilio per via del suo presunto eccessivo e, ancora di più, quasi esclusivo interessarsi dell’uomo nelle sue dimensioni «mondane». Essere religioso implicherebbe, stando alla concezione che ingenera l’impugnazione, occuparsi di Dio e delle «cose di Dio». Quindi, se tale occupazione richiede interessarsi anche dell’uomo, lo richiede dal punto di vista della sua dimensione trascendente e ultramondana.
    In realtà, questo modo di pensare la religione perverte il senso evangelico stesso della religione. Come si sa, la religione consiste in sostanza nel rapporto di riconoscimento e di accettazione dell’uomo con Dio, un rapporto che è condizionato principalmente dal modo in cui viene concepito Dio stesso. Ora, il Dio della religione cristiana, quello rivelato da Gesù Cristo con le sue parole e con i suoi atti, non è il Dio che ha presieduto e presiede non poche religioni.
    Alcune di esse si basavano – e si basano tuttora – sulla concezione di un Dio o di dèi gelosi della propria condizione divina. Un testo mitologico dell’antichità, l’Epopea di Gilgamesh, racconta che quando gli dèi pensarono di creare il mondo, decisero di riservarsi la vita per sé e di destinare la morte per l’uomo. Erano divinità che non favorivano l’affermazione dell’uomo, perché temevano di perdere qualcosa nel caso in cui essa arrivasse ad attuarsi. Ancora più, erano divinità a spese dell’uomo, nel senso che in realtà questi doveva annientare se stesso affinché essi potessero essere tali.
    Altre si fondavano – e si fondano – sull’immagine di un Dio e degli dèi bisognosi di essere o imboniti o rappacificati dagli uomini, oppure bisognosi di essere convinti in loro favore. Il modo più comune di ottenerlo era quello di offrire loro dei sacrifici, in qualche caso anche umani, mediante i quali venivano riparate le offese loro fatte, o li si persuadeva a piegarsi in favore degli offerenti.
    Le religioni greche, invece, erano presiedute da divinità indifferenti e insensibili alle vicende umane. Se ne stavano felici e beate nel loro Olimpo, noncuranti di quanto succedeva quaggiù, nel mondo degli uomini. In più di un caso apparivano perfino come beffarde e canzonatorie nei confronti delle sventure umane.
    Ovviamente, il rapporto con tutte queste divinità non richiedeva di prendersi cura degli uomini; viceversa, richiedeva piuttosto di prendersi cura di esse stesse e, a questo scopo, distogliere l’attenzione dal mondo. In qualche caso, esigeva perfino di sacrificare l’uomo stesso.
    Non è affatto questa la religione vissuta e proposta da Gesù. Perché il suo Dio non è un Dio contro l’uomo, né un Dio a spese dell’uomo, e neanche un Dio indifferente o apatico verso l’uomo. È, viceversa, un Dio «antropocentrico», al quale sta infinitamente a cuore la vita e la felicità di ogni uomo, e quindi tutto ciò che lo riguarda in questo mondo. Un Dio la cui gloria, secondo la celebre frase del vescovo martire S. Ireneo, è l’uomo pieno di vita. Egli, come hanno affermato alcuni antichi Padri della Chiesa e come ricordò Paolo VI nel suo discorso, è il Buon Samaritano dell’umanità. Come il Samaritano della parabola, egli si avvicina ad ogni uomo ferito e si lascia commuovere fino alle viscere dalla sua condizione, mettendosi con infinita sollecitudine a disposizione della sua felicità e del suo benessere.
    La religione che questo Dio si attende da chi lo vuole onorare consiste, quindi, nel fare propria la sua stessa sollecitudine. Lo mette ancora in chiara luce il papa rifacendosi a delle frasi neotestamentarie cariche di senso programmatico e di incitamento provocatorio:

    «Vogliamo notare come la religione del nostro concilio sia stata piuttosto la carità; e nessuno potrà rimproverarlo d’irreligiosità [...] quando lasciamo risuonare ai nostri animi le parole apostoliche: ‘La religione pura e immacolata, agli occhi di Dio e del Padre, è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo’ (Gc 1,27); e ancora: ‘Chi non ama il proprio fratello, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede?’ (1Gv 4,20)».

    Potrebbe aver citato ancora, e forse con ancor maggiore incisività, la parabola del giudizio finale di Mt 25,31-46, nella quale la valutazione definitiva sulla riuscita di una persona viene data sulla base del dar da mangiare a chi ha fame o da bere a chi ha sete, del visitare chi è malato o carcerato, del vestire chi è nudo...
    In altre parole, secondo il Vangelo di Gesù, l’orizzontale, cioè le realtà del mondo concreto, è attraversato dal Verticale, l’immanente dal Trascendente, il mondo da Dio. Occorre solo avere occhi per scoprirlo. È nel mondo che Dio si mostra decentrato e indigente, e attende una risposta. È lì che si gioca la sua gloria, perché è lì che si gioca la vita e la morte degli uomini.
    Si spiega così che, rispondendo all’obiezione formulata, Paolo VI abbia fatto un’autentica «ritorsione dell’argomento», una delle operazioni della classica logica aristotelica: a chi accusava il concilio, e in particolare la «Gaudium et Spes», di non essere religiosi perché si erano occupati troppo del «mondo esteriore, della storia fuggente, della moda culturale, dei bisogni contingenti», egli rispose che il concilio era stato religioso precisamente perché aveva fatto tutto questo, poiché la sua religione era stata quella del Vangelo. Caso mai, irreligioso di «irreligiosità evangelica» era chi sollevava l’obiezione.


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