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    La Quaresima


    I «quaranta giorni» in cui riviviamo ogni anno la nostra preparazione al Battesimo

    Mario Cimosa

    (NPG 02-03-52)



    La Quaresima, come dice la stessa parola, «quaranta giorni», è un periodo quanto mai «opportuno», come lo chiama Paolo, per ogni giovane di ripensare e rivivere la preparazione al proprio Battesimo, per rilanciare con entusiasmo rinnovato la propria vita cristiana.

    È quello che gli antichi chiamavano il «catecumenato», quando il Battesimo lo si riceveva da adulti dopo una opportuna preparazione, intensificata durante la Quaresima, per poi fare il passaggio, durante la Veglia Pasquale, da «catecumeni» a «neofiti», a «photismoi/illuminati», cioè a «cristiani».
    La Parola di Dio, luce sul cammino di ogni uomo, ci guiderà aiutandoci in questo «tempo forte» dell’anno liturgico a ripercorrere le grandi tappe dell’antico «catecumenato».
    La liturgia della Parola ci offre infatti in Quaresima ogni anno una grande catechesi battesimale (specialmente attraverso la lettura dei Vangeli), preparata dalle tappe principali della storia della salvezza (della prima lettura, dall’Antico Testamento), e approfondita dalla meditazione personale sulla salvezza cristiana (nei brani delle lettere paoline, dalla seconda lettura). Si tratta perciò di un progetto di letture, di riflessione e di vita che si realizza con un carattere progressivo, articolato, dinamico.
    Le prime due domeniche hanno un carattere iniziale-introduttivo, mentre la terza, la quarta e la quinta domenica ci offrono delle catechesi specifiche, la sesta è già «Domenica delle Palme» e ci introduce nella Settimana Santa.
    Nella prima lettura liturgica leggeremo quest’anno dei testi molto belli dell’Antico Testamento che si riferiscono alla storia della salvezza. Si tratta del ricordo di alcuni momenti salienti, come il racconto della creazione e del peccato delle origini, la vocazione di Abramo, padre di tutti i credenti, l’acqua che Mosè fa scaturire dalla roccia, la consacrazione di Davide a re di Israele, il dono dello spirito che dà vita al popolo esiliato in Babilonia, la protezione divina assicurata al Servo del Signore.
    La seconda lettura di questo tempo liturgico rende più agevole il collegamento tra l’Antico Testamento e il Vangelo e mostra con grande chiarezza l’unità dei due Testamenti. Dalla Parola di Dio scaturiscono orientamenti ben chiari e precisi per la nostra vita cristiana: dalla conversione del cuore, a una vita vissuta nella luce e nella autenticità, ad una esistenza guidata dai doni dello Spirito, all’umiltà che permette una identificazione a Cristo nell’amore come servizio ai fratelli fino al dono della propria vita.
    Nella prima e nella seconda domenica di Quaresima il Vangelo di ogni anno (quest’anno si segue la redazione di Matteo) riporta il racconto delle tentazioni e della trasfigurazione di Gesù sul monte. Mentre nelle altre tre domeniche gli evangelisti Giovanni e Luca ci presentano i grandi temi della conversione, della misericordia inesauribile di Dio verso coloro che si convertono, e i temi dell’acqua, della luce e della vita.

    Prima domenica di quaresima

    2002-03 53

    La prima lettura, dell’AT, è tratta dai primi undici capitoli del libro della Genesi. Il racconto della creazione dell’uomo è preceduto da quello della creazione della terra secondo una moda letteraria comune nel medio oriente antico, come si può vedere nei racconti babilonesi, e consisteva nell’iniziare in forma negativa e dicendo che cosa ancora non c’era alle origini. La descrizione è conforme all’idea che della terra aveva un contadino palestinese: un suolo secco e arido che aveva (ha) bisogno dell’acqua. Senza l’acqua e senza il braccio dell’uomo la terra resta incolta. La scena prepara perciò la necessità dell’uomo che secondo questo racconto è al centro dell’universo:

    «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo
    con polvere del suolo
    e soffiò nelle sue narici un alito di vita
    e l’uomo divenne un essere vivente».

    In questo versetto troviamo una sintesi dell’antropologia biblica. Dio viene rappresentato, come spesso nel mondo biblico ed extrabiblico, come un vasaio seduto alla ruota che modella il corpo dell’uomo dalla polvere, la parte più sottile della terra (’adamah). L’uomo, tratto dalla terra, resta unito alla terra, è debole, fragile ed è destinato alla terra ma dipende da Dio che lo ha creato. Il nome Adamo ricorda continuamente all’uomo la sua origine, la terra.
    Su una costruzione senza vita il Signore si piegò e alitò nelle sue narici «un alito di vita» e «l’uomo divenne un essere vivente». Il soffio di Dio e la materia fanno dell’uomo un «essere vivente».
    L’autore in questo testo non è preoccupato di dirci come l’uomo ha avuto origine ma che cosa egli è: una materia che appartiene alla terra a cui Dio ha infuso un alito di vita. Dio ha preso parte attiva nella creazione dell’uomo.
    Nell’immensa e arida steppa (eden) Dio pianta un giardino (paradeisos in greco, una parola di origine persiana) meraviglioso, ricco di acqua e di piante, una vera oasi. Per un orientale è il massimo della felicità. Nel Medio Oriente un giardino così lussureggiante circondato dal fuoco e custodito dai cherubini è la dimora degli dèi. Anche nel racconto biblico è presentato come la villa di Dio dove, da signore orientale, vi passeggia e si prende la brezza della sera. In questo giardino meraviglioso Dio invita l’uomo, appena creato, lo tratta come un amico, come un figlio.
    Al racconto della creazione segue la descrizione della prima colpa commessa dai progenitori, la punizione e le conseguenze per la sua discendenza.
    L’autore iahvista sentì forte il problema del male come lo sentivano gli uomini del suo tempo, e qui offre la sua risposta e la presenta come una piccola colpa come se fosse un sassolino all’inizio di una potente valanga ingrandita dai peccati dei discendenti che travolge tutto quello che incontra.
    Il racconto della tentazione è un vero capolavoro di psicologia. Colui che tenta è satana, il nemico di Dio. Viene presentato con il simbolo del serpente. In tutto l’oriente antico il serpente era venerato come simbolo della fertilità e della vita. È rappresentato su recipienti e sigilli come divinità che dona vita e salute. L’autore lo presenta come «astuto». Nel colloquio con la donna comincia alla larga. La donna cade in un tranello: poter ottenere la sapienza, poter conoscere tutto, avere un’autonomia etica, farsi regola da sé come lo stesso Dio. L’astuto serpente inganna la donna:

    «Dio sa che qualora ne mangiaste,
    si aprirebbero gli occhi vostri
    e diventereste come Dio,
    acquistando la conoscenza del bene e del male.
    Dopo che ebbero mangiato il frutto,
    il Signore parlò loro:
    «Ecco! L’uomo è diventato
    come uno di noi,
    avendo la conoscenza del bene e del male».

    In una creazione che l’autore sacerdotale nel primo capitolo ha chiamato ripetutamente buona e bella compare il serpente, simbolo del male. Perché?
    L’autore iahvista lo ha preso dalla letteratura circostante e gli ha impresso il sigillo della sua concezione dandogli il ruolo di una divinità ostile a Dio che tenta l’uomo e che viene solennemente maledetto. L’intervento del serpente serve all’autore iahvista a scagionare Dio da ogni responsabilità. Dio non poteva tentare l’uomo, creato in un ordine buono. Dio non ha alcuna responsabilità nella caduta dell’uomo.
    Quel che è male oggettivo per l’umanità sembra buono da mangiare, bello da vedere, desiderabile per crescere, sembra un bene. Anche per l’autore iahvista l’allontanamento dal suo Dio per seguire divinità straniere sembra un bene. La sua esperienza e quella degli uomini del suo tempo viene proiettata alle origini e applicata ai nostri progenitori. L’autore trasporta la lotta che c’era al suo tempo tra la fede iahvista e il culto a Baal. Ecco il significato del racconto: credere bene il male e allontanarsi da Dio rifiutando la comunione con Lui e l’osservanza di alcune clausole dell’alleanza. Mangiare dell’albero che stabilisce quel che è bene e quel che è male. L’albero è presentato come esclusivo di Dio, il simbolo delle sue prerogative. Proibire di mangiarne i frutti significa proibire di voler essere come Dio. Se si viene meno a questo dovere non solo non si diventa come Dio ma si sperimenta il contrario, la non-divinità radicale, cioè la morte. L’ha detto Dio stesso: «Morirete!». Sarete cioè condannati a sperimentare la morte. Non potrete più disporre dell’albero della vita (cioè di una vita piena, senza limitazioni di dolore e di morte) data da Dio.
    Nel Vangelo Matteo racconta che Gesù ha ricevuto al Giordano il battesimo di Giovanni e ora ci dice che lo Spirito lo spinge nel deserto. Perché? Gesù è la salvezza: ma di che salvezza si tratta? Una salvezza soltanto umana e terrena? Il suo messianismo è quello atteso dai Giudei? Finalmente è arrivato colui che risolverà tutti i nostri problemi? Il male, la sofferenza, le ingiustizie, le oppressioni scompariranno subito? Andiamo adagio. Se Gesù vuole compiere tutto quello che il Padre vuole da lui, questo non avverrà così semplicemente, senza problemi, senza difficoltà. Cosa dovrà fare? Ecco la risposta. Sconfiggere il male, vincere le tentazioni, come il suo popolo durante l’Esodo, come ciascuno di noi nell’esodo della nostra esistenza quotidiana, nella lotta continua contro il male, le ingiustizie, gli odi, le sopraffazioni. Le tre tentazioni che dovrà subire Gesù sono tre tentazioni tipiche di ogni uomo: furono del popolo, sono le nostre. Qual è la strada per superarle? Quella che purtroppo il popolo di Israele non ha saputo seguire. Gesù liberamente decide dinanzi alla scelta che gli viene proposta. Egli rifiuta ogni tipo di dominazione terrena sul mondo perché la sua missione è di annunciare ai poveri la bella notizia della salvezza. Gesù è il nuovo Mosè, incarna il nuovo popolo di Dio che vince quella «tentazione» in cui il suo popolo era caduto. Tutte e tre le tentazioni cominciano con le parole: «Se sei Figlio di Dio…». Gesù è tentato a verificare la potenza legata alla filiazione divina appena rivelata durante il Battesimo al Giordano. Lo scontro con satana viene descritto come una battaglia a colpi di citazioni bibliche che fa della Bibbia-Parola di Dio la chiave essenziale dell’episodio. Quale potrebbe essere il significato che l’evangelista Matteo vuole dare alle tre tentazioni? Il rifiuto da parte di Gesù di un potere e di un messianismo solo terreno? Un modello per ognuno di noi nel vincere le tentazioni tipiche del nostro quotidiano? A differenza del suo popolo Gesù riesce a vincere quelle tentazioni in cui invece Israele era caduto.
    Già nella prima tentazione si allude al pericolo di ogni compromesso politico che, pur recando vantaggi materiali, fa correre il rischio di perdere la propria identità. Non si tratta di seguire il proprio egoismo, i propri interessi personali. Compiere quello che Dio vuole esige talvolta sacrifici e rinunce ma si può essere sicuri di raggiungere così la mèta, di conquistare la propria felicità, di compiere la propria missione. Anche Gesù si impegna a vivere di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Sarà la Parola di Dio a fargli da guida.
    L’antico popolo di Israele aveva tentato Dio nel deserto del Sinai e si era rifiutato di entrare nella Terra Promessa girovagando per quarant’anni nel deserto. La tentazione di essere come gli altri popoli gli faceva dimenticare il suo Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù dell’Egitto e del faraone.
    Infine la tentazione del potere e della gloria. Ma Gesù capisce che si tratta ancora di una tentazione diabolica che gli impedisce di compiere la sua missione e di instaurare il regno del Padre suo che è regno di amore, di giustizia e di pace, un regno che consiste di fare di tutti gli uomini una sola grande famiglia di fratelli di cui lui è l’unico Padre e padre di tutti. Al termine di questi quaranta giorni in cui viene continuamente tentato dal demonio Gesù sceglie la via dell’ascolto della Parola di Dio e così rinuncia ad ogni tipo di potere che non sia l’adorazione e il servizio di Dio e dei fratelli. Vince satana e così riceve da Dio ogni potere. Un potere che è servizio, liberazione e salvezza dell’uomo. Gesù sceglie così di servire l’uomo e di salvarlo. Anche la nostra missione di cristiani che è vissuta nella lotta continua contro il male si inserisce in questa missione di servizio, di Cristo e della Chiesa.
    Paolo, nella seconda lettura, ci ricorda che il racconto della caduta dell’uomo, il primo Adamo, trova una risposta nella vittoria di Gesù e nostra sul demonio e sul male.

    «Dunque uno solo è caduto, Adamo, e ha causato la condanna di tutti gli uomini; così, uno solo ha ubbidito, Gesù Cristo, e ci ha ristabiliti nella giusta relazione con Dio che è fonte di vita per tutti gli uomini» (Rm 5, 18).

    Il paragone tra l’uomo-Adamo e il Cristo-nuovo Adamo è caro a San Paolo. Come siamo tentati nel Cristo, in lui siamo anche vincitori. Sant’Agostino prendendo lo spunto da queste affermazioni paoline commenta così il Salmo 59:

    «Il Cristo ci ha trasfigurati in sé, quando ha voluto essere tentato da Satana. Infatti noi leggiamo nel Vangelo che Gesù nel deserto fu tentato dal diavolo. Il Cristo fu tentato dal diavolo, ma nel Cristo eri tentato tu. Perché il Cristo prese da te la sua carne, ma da sé la sua salvezza; da te la sua morte, da sé la tua vita; da te l’umiliazione, da sé la tua gloria; dunque da te ha preso la sua tentazione, da sé la tua vittoria. Se in lui noi siamo tentati, in lui vinceremo il diavolo». Nel messaggio di Paolo nella Lettera ai Romani della seconda lettura di oggi c’è una nota di ottimismo che deve essere colta ed è che «dove era abbondante il peccato, ancora più abbondante fu la grazia» (Rm 5, 20).

    Perciò la nostra vittoria sul male è garantita, anche se questo non vuol dire che la vita non debba essere una lotta continua contro il male, però con la certezza della vittoria finale.

    Seconda domenica di quaresima

    2002-03 56

    Nella lettura dell’Antico Testamento di questa domenica leggiamo il racconto della vocazione di Abramo.
    Tutta la storia dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe è contenuta in sintesi nei tre versetti che raccontano la vocazione di Abramo dove troviamo anche il messaggio religioso dell’autore iahvista.

    Gn 12,1: Jhwh (Iahvè) dà ad Abramo l’ordine di lasciare il suo paese:

    Il Signore disse ad Abram:
    Lascia la tua terra, la tua tribù,
    la famiglia di tuo padre,
    e va’ nella terra che io ti indicherò.

    Gn 12,2: Jhwh promette di fare di Abramo un grande popolo:

    Farò di te un popolo numeroso,
    una grande nazione.

    Gn 12,3: Abramo sarà benedetto
    e diventerà benedizione per tutte
    le nazioni della terra:

    Il tuo nome diventerà famoso.
    Ti benedirò.
    Sarai fonte di benedizione.
    Farò del bene a chi te ne farà.
    Maledirò chi ti farà del male.
    Per mezzo tuo io benedirò tutti i popoli della terra.

    Il racconto della vocazione di Abramo è importante per capire come la scelta di Abramo da parte di Dio non è limitata a lui solo ma come, attraverso Abramo e il popolo di Israele, di cui Abramo è capostipite, Dio intende arrivare a tutti i popoli. È l’amore gratuito e l’iniziativa libera di Dio che sceglie quest’uomo la cui risposta di fede permette di realizzare il suo piano di salvezza per tutti gli uomini.
    Il contributo di Abramo è la sua risposta generosa alla chiamata divina pur senza sapere fin dove questa chiamata l’avrebbe portato: «Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore...» (Gn 12,10).
    Chi ha scelto la Parola di Dio e ha accettato di lottare contro il male come Gesù, l’abbiamo sentito domenica scorsa nella prima domenica, vede ciò che sarà: trasfigurato come il Cristo. Mosè ha digiunato quaranta giorni. Elia ha digiunato per quaranta giorni. Tutti e due sono saliti sulla santa montagna. Oggi appaiono col Cristo trasfigurato dinanzi agli apostoli:

    «Là, di fronte a loro, Gesù cambiò aspetto: il suo volto si fece splendente come il sole e i suoi abiti diventarono bianchissimi, come di luce. Poi i discepoli videro anche Mosè e il profeta Elia: essi stavano accanto a Gesù e parlavano con lui» (Mt 17, 2-3).

    Già durante la loro vita Mosè ed Elia erano stati in una particolare intimità con il Signore al cui incontro si erano preparati con un digiuno di quaranta giorni. È significativo che ora appaiono di nuovo così accanto a Gesù che si trasfigura.
    E gli apostoli fanno già l’esperienza del Signore Risorto. La trasfigurazione ne è un segno profetico. Abbiamo quasi una Pasqua anticipata. Il Padre aveva rivelato a Pietro chi è Gesù ed è di nuovo il Padre che lo rivela ai tre discepoli sulla montagna: «Questo è il Figlio mio, che io amo. Io l’ho mandato. Ascoltatelo!» (Mt 17,5).
    La Quaresima ci ha preparati con un po’ di penitenza e con qualche sacrificio all’incontro con il Signore, proprio come Mosè ed Elia. Insieme con Pietro, Giacomo e Giovanni, con gli apostoli ci conduce ora alla Trasfigurazione. Il Signore Gesù sarà glorificato ma prima dovrà passare attraverso la sofferenza e la morte. È il programma di ogni battezzato, di ogni cristiano che vuole ricalcare la sua vita su quella di Cristo. È quello che scaturisce dall’immersione nel fonte battesimale. Questo era anche visibilmente evidente quando il battesimo avveniva appunto per immersione. Siamo in pieno clima pasquale, quasi a metà dell’itinerario. Attraverso la morte Gesù raggiungerà il massimo della gloria. Sulla montagna c’erano Mosè ed Elia. Altre volte Dio aveva parlato per mezzo dei profeti, in particolare per mezzo di Mosè e di Elia.
    Ora comanda di ascoltare il Figlio. Il Vangelo pone subito i discepoli in atteggiamento di ascolto e di dialogo con Gesù.
    Paolo scrivendo a Timoteo, come ci ricorda la seconda lettura di questa domenica, gli ricorda che «(Gesù) ha distrutto il potere della morte e, con l’annunzio della sua parola, ci ha fatto conoscere la vita immortale». Perciò come Timoteo anche noi non dobbiamo vergognarci di dichiarare di essere dalla parte del Signore.
    Dio ci ha chiamati ad essere membri del suo popolo, Paolo dice «con una vocazione santa», e lo ha fatto gratuitamente per sua generosità. Ci ha chiamati ad annunciare il suo Vangelo, a far conoscere a tutti il suo progetto d’amore che è la vittoria sulla morte e il trionfo della vita. È la vittoria pasquale.
    Il battesimo ci ha dato gli elementi iniziali della nostra glorificazione in quanto ci ha fatto partecipare alla glorificazione di Cristo.
    Anticamente gli adulti che si preparavano attraverso il catecumenato al battesimo venivano sottoposti a dei riti che erano chiamati «scrutini» e servivano ad esprimere i momenti della propria preparazione spirituale purificando il cuore e la mente con una revisione della propria vita.

    Terza domenica di quaresima

    2002-03 57

    Il primo «scrutinio» si celebrava nella terza domenica di Quaresima. Attraverso la lettura di Esodo 17, 3-7 si faceva emergere l’esperienza della sete che il popolo aveva sofferto nel deserto e l’esperienza della bontà di Dio che colma questa sete con il dono dell’acqua viva che salva che diventa simbolo del battesimo nell’episodio dell’incontro di Gesù con la samaritana (è il vangelo che si legge quest’oggi!): «Se uno beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete: l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente per l’eternità» (Gv 4, 14), e simbolo dello Spirito come ricorda Paolo nel testo della Lettera ai Romani che si legge in questa domenica come seconda lettura.
    Gesù chiede alla samaritana l’acqua da bere per farle il grande dono della fede, e di questa fede ebbe sete così ardente da accendere il lei la fiamma dell’amore di Dio.
    «Se tu conoscessi il dono di Dio!» dice Gesù alla samaritana. Quante volte noi ignoriamo il dono che Dio ci fa attraverso il suo Cristo! Gesù spesso ci offre il dono della manifestazione del suo mistero attraverso i nostri fratelli sofferenti, poveri, disprezzati ed emarginati, ma noi non sappiamo scorgere il volto di Cristo in questa umanità sofferente. «Se tu conoscessi il dono di Dio», ci dice Gesù ancora una volta. Abbiamo tra le mani la parola viva di Dio, ma non la facciamo penetrare nel nostro cuore. Il Cristo si rivela a noi nel suo Vangelo, ma questo messaggio non trasforma la nostra vita. Un altro tema che ci suggerisce il colloquio di Gesù con la samaritana è la realtà indiscussa che l’interiorizzazione della Parola è l’unica fonte della felicità autentica, profonda ed eterna. Il nostro cuore e quello dei nostri fratelli è assetato di vita, di felicità, di salvezza. Ora Gesù ci insegna che questa sete può essere estinta e per sempre, bevendo l’acqua viva della sua parola, della sua verità, della sua rivelazione. La seconda lettura dà tutto il significato spirituale al vangelo della samaritana. Esso ci ha fatto prendere contatto con l’acqua che zampilla per la vita eterna. La prima lettura ci ha mostrato i figli di Israele nella loro disperata ribellione per la sete. Ora eccoci con San Paolo in piena speranza.

    «La speranza poi non porta alla delusione, perché Dio ha messo il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci ha dato» (Rm 5,5).

    È il dono dell’amore che soltanto disseta.

    «È difficile che qualcuno sia disposto a morire per un uomo onesto; al massimo si potrebbe forse trovare qualcuno disposto a dare la propria vita per un uomo buono. Cristo invece è morto per noi, quando eravamo ancora peccatori: questa è la prova che Dio ci ama» (Rm 5,7-8).

    L’acqua è il segno di un dono, il dono dell’amore che rende giusti per mezzo dello Spirito.

    Quarta domenica di quaresima

    2002-03 58

    Ecco un’altra tappa della storia della salvezza. Davide viene consacrato re di Israele. La sua regalità carismatica continua quella del primo re di Israele, Saul, che continuava quella dei Giudici. Dio respinge Saul per il suo peccato di disobbedienza e sceglie Davide. Questi viene consacrato re da Samuele e viene in modo permanente afferrato dallo Spirito di Dio. Il racconto non si addentra nei dettagli della successione dinastica ma dice una sola cosa: il re è l’eletto di Dio. Si dice che il re riceve una unzione sacra e diventa l’unto, il messia del Signore. Questa unzione conferisce al re lo spirito del Signore che gli darà la forza di salvare il suo popolo. Il nuovo re consacrato da Samuele diventerà il salvatore del suo popolo, non solo con la forza delle armi, ma anche governandolo con saggezza e con giustizia. Il profeta Isaia contemplerà il Messia futuro su cui si poserà lo Spirito del Signore con tutte le prerogative dei grandi antenati della dinastia: sapienza e giustizia di Salomone, prodezza e pietà di Davide. Non siamo ancora al nuovo Davide dei profeti, né alla figura dei salmi «messianici», né al Cristo Gesù. Ma abbiamo già una tappa importante nel progresso della rivelazione e nella realizzazione della salvezza dell’umanità. Davide appare come la prefigurazione del Messia. Viene qui sottolineata la scelta che Dio fa di coloro che vuole attirare a sé per consacrarli e in questo è evidente il dono della fede. La scelta di Dio è molto personale. Chi è scelto per la fede non ne ha il merito. L’unzione del re si può assimilare all’unzione degli occhi del cieco-nato di cui ci parla il Vangelo di oggi, all’unzione del battesimo che ci rende «re», facendoci partecipare della «regalità» di Cristo.
    Il significato liturgico del Vangelo di oggi ha fatto scegliere la seconda lettura dalla Lettera di Paolo agli Efesini dove l’apostolo risponde ad una esigenza molto pratica della vita cristiana, cioè di «cercare quello che piace al Signore». Lo fa usando un linguaggio simbolico molto facile da capire. L’esperienza quotidiana della vita infatti è regolata dal ritmo luce-tenebre, giorno-notte che sono il simbolo di vita-morte, bontà-cattiveria. Partendo dalla fonte della luce che è il Cristo, Paolo dice ai suoi lettori e a ciascuno di noi che lo leggiamo oggi: «Cristo ti illuminerà» (v. 14). Infatti il Cristo è la luce che ricrea, che risveglia, che libera chi è addormentato nel sonno oscuro dell’ignoranza religiosa e del peccato. Chi ha accolto Cristo prima era tenebra, ma ora è luce nel Signore. Il cristiano è «figlio della luce» (v. 8), generato a nuova vita dall’amore-luce che è lo stesso Signore. La luce di Cristo ci aiuta a conoscere la natura vera delle cose, di valutare quello che vale e quello che non vale nella nostra vita. La luce genera la vita, è capace di generare dei figli. Il Battesimo è la grande illuminazione che è penetrata nelle nostre tenebre e ci ha resi figli della luce. Inondati dalla luce si diventa luce. Non per nulla i primi cristiani chiamavano i «neofiti» cioè i nuovi battezzati con una parola greca: oi photismoi che significa appunto gli illuminati. I cristiani in quanto figli della luce devono condurre una vita così luminosa che si riconosce dai frutti della luce: bontà, giustizia, verità. Sono questi frutti che fanno riconoscere e distinguere i cristiani dagli altri, da quelli che fanno azioni malvage e sterili e che sono i figli delle tenebre. Il modo di comportarsi del cristiano è la migliore «denuncia» (v. 11) del modo di agire pagano. Si può condannare un comportamento a parole, con discorsi, ma la forma più efficace è la condotta che si tiene di fronte agli altri, apparendo così come veri figli della luce.
    Nell’antichità si pensava che la malattia fisica fosse sempre conseguenza del peccato, ma nell’episodio narrato in questo Vangelo Gesù sconfessa i suoi discepoli. Purtroppo questa mentalità sussiste ancora oggi. Talvolta dinanzi a una disgrazia, i «buoni cristiani» gridano al castigo del Signore. Ma è ingiusto ed è contro-evangelico. Quello che appare una punizione, nei piani di Dio può essere un atto di misericordia perché si manifestino le opere del Signore. Ricordate nei «Promessi Sposi» quando Padre Cristoforo dinanzi a don Rodrigo agonizzante, vittima della peste, non seppe pronunciarsi e disse: «Può essere castigo, può essere misericordia»?
    Gesù prende lo spunto dal miracolo che compie dando la vista a un cieco-nato per dire che la vera cecità è la mancanza di fede e l’incredulità: quella dei giudei ostinati nel chiudere gli occhi dinanzi alla realtà di quello che Gesù compie e da cui potrebbero dedurre la sua provenienza, ma è anche la nostra incredulità. Quando non ci lasciamo illuminare dalla Parola di Dio e quindi viviamo come se fossimo ciechi o quando viviamo nella cecità pratica dell’edonismo, del materialismo o dell’imborghesimento chiudendo gli occhi dinanzi ai bisogni del nostro prossimo.
    Gesù guarendo il cieco ha di mira una finalità salvifica: dinanzi a un uomo concreto, un cieco, vuole dimostrare che non solo questa malattia non ha nulla a che fare con il peccato, ma diventa un’occasione per mostrare la bontà di Dio. A Gesù non interessa in questo caso qual è l’origine di questa sofferenza, quanto piuttosto il significato che essa ha nel piano di Dio. Anche la malattia, il dolore, la sofferenza possono acquistare un grande valore nei piani di Dio, se accolti con rassegnazione e accettati con serenità.
    Ma il dono della fede rappresenta un’autentica illuminazione per la vita dell’uomo. L’episodio della guarigione del cieco alla piscina di Siloe è molto eloquente per illustrare il significato vitale della fede. Il cieco-nato che viveva nelle tenebre all’improvviso ha potuto gustare la gioia dei colori, del sole, della luce. Con l’incredulità si brancola nelle tenebre dell’ignoranza religiosa e del peccato. È molto bello uno dei commenti di Sant’Agostino a questo brano:

    «Il Signore illumina i ciechi. Ora i nostri occhi sono curati col collirio della fede. Prima, infatti, egli mescolò la sua saliva con la terra per ungere colui che era nato cieco. Anche noi siamo nati ciechi da Adamo e abbiamo bisogno di essere illuminati da lui… Godremo della verità quando vedremo Dio faccia a faccia, perché anche questo ci viene promesso… Non ti vien detto: devi affaticarti a cercare la via per arrivare alla verità e alla vita; non ti vien detto: pigro, alzati! La via stessa è venuta da te e ti ha svegliato dal sonno, se pure ti ha svegliato. Alzati e cammina!».

    È impressionante la risposta decisa del cieco guarito ai farisei che lo interrogano: «Un uomo chiamato Gesù mi ha detto: Va’… e io ho riacquistato la vista». Gli interrogatori del cieco-nato davanti ai farisei e ai giudei sono un esempio magnifico di testimonianza cristiana coraggiosa.
    Il cieco guarito, con la sua intrepida testimonianza davanti al tribunale della sinagoga, è presentato da Giovanni come il modello del discepolo che coraggiosamente testimonia la sua fede, senza temere scomuniche o emarginazioni.
    Talvolta per ragioni di carriera e di lavoro si è disposti a venire a patti con l’egoismo del mondo e della moda, anche in fatto di fede e di morale.
    In conclusione, Gesù si rivela Figlio dell’uomo e luce del mondo. Quella luce che illumina ogni uomo.
    La piscina di Siloe e la guarigione del cieco ha fatto utilizzare da sempre questo episodio come una catechesi battesimale.
    Arricchita dalle altre due letture: i battezzati sono gli «illuminati».
    In questa quarta domenica si celebra il secondo scrutinio per i catecumeni.
    La parola di Dio li illumina nel comprendere la scelta che devono fare per smascherare il male affinché appaia la luce nella loro vita.

    Quinta domenica di quaresima

    2002-03 60

    Nella quinta domenica si celebra il terzo scrutinio. È annunciato il passaggio dalla morte alla vita. In esilio Israele è un popolo morto, ma l’esperienza della liberazione annunciata da Ezechiele fa presagire al popolo una nuova vita (Ez 37, 12-14).
    Lo stesso può avvenire a livello personale (Rm 8, 8-11). Risuscitando Lazzaro, Gesù manifesta che è il Signore della vita (Gv 11, 1-45).
    L’episodio della risurrezione di Lazzaro che ascolteremo nell’ultima domenica di Quaresima ci prepara direttamente a vivere il mistero della risurrezione di Cristo come mistero di risurrezione e di vita. Gesù viene informato della malattia mortale di Lazzaro e dichiara che questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio. Ogni cristiano che sa accettare con pazienza e rassegnazione le proprie sofferenze e le proprie malattie può partecipare alla passione di Cristo per essere poi glorificato con Lui.
    Il racconto sottolinea molto l’amore di Gesù per i tre fratelli di Betania, «la casa dell’amicizia». Tra il Maestro e questa famiglia c’era una profonda e forte amicizia, tanto che le due sorelle informarono il Signore della malattia di Lazzaro, con le parole: «Signore, il tuo (più caro) amico è ammalato» (v. 3), e l’evangelista annota che Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Questo comportamento di Gesù che si è circondato di amici c’invita a riflettere sul significato, sul valore e sulla cura dell’amicizia. L’amicizia deve essere coltivata, mai tradita! L’amico è più prezioso dell’oro, quindi bisogna fare la massima attenzione a non perdere questo tesoro.
    In questo racconto Gesù dichiara di essere la risurrezione; inoltre concretamente di essere lui il Signore della vita e della morte. Per Gesù la morte è un semplice sonno, dal quale sveglia con un grido. Cristo è la fonte dell’immortalità: chi crede in lui vivrà in eterno. Per mezzo di Lui l’uomo può riportare vittoria sul suo nemico più implacabile: la morte. Quindi il desiderio più profondo del cuore umano può essere soddisfatto pienamente dal Figlio di Dio. Gesù appaga il nostro anelito di vita e di vita piena assicurandoci il dono della vita eterna e la risurrezione del nostro corpo.
    Marta nel dialogo con il Signore confessa la sua fede nell’intercessione onnipotente di Gesù: «E anche ora so che Dio ascolterà tutto quello che tu gli domandi» (v. 22). Il Maestro otterrà dal Padre tutto quello che gli domanderà in favore dei suoi amici.
    Ma l’intercessione di Gesù non è circoscritta al tempo della sua esistenza terrena. Anche ora intercede per tutti gli uomini, egli però è il Paraclito, il nostro avvocato presso Dio:

    «Figli miei, vi scrivo queste cose perché non cadiate in peccato. Se uno cade in peccato, possiamo contare su Gesù Cristo, il Giusto. Egli è il nostro difensore accanto al Padre; egli si è sacrificato per farci avere il perdono dei nostri peccati, e non soltanto dei nostri, ma di quelli del mondo intero» (1 Gv 2,1-2).

    Gesù dichiara poi a Marta che per non sperimentare la triste realtà della morte eterna, cioè per vivere sempre, bisogna credere nella sua persona divina, si deve aderire in modo esistenziale a lui che è la risurrezione e la vita. Con questa fede profonda si sperimenta la felicità perfetta, in quanto si è sicuri di vincere il nemico che nessuno potrebbe sconfiggere, cioè la morte. Il discepolo di Gesù non può vivere con l’angoscia del pensiero della fine dei suoi giorni. La speranza della vita eterna infonde in noi un senso di serenità e di fiducia.
    Questa fede esistenziale deve essere espressa con una condotta ispirata alla parola di Cristo.
    La lettura del racconto della risurrezione di Lazzaro ci mostra fino a che punto il Cristo sia la risurrezione e la vita. Lo scopo dell’evangelista Giovanni nel raccontare questo fatto è di accendere nel nostro cuore una fede profonda nel Figlio di Dio, fonte della vita e dell’immortalità. Credere che Gesù è la risurrezione e la vita, è motivo di fiducia e di ottimismo per tutti noi, specie per chi è nella sofferenza e lotta contro il male. Credere che l’uomo unito a Cristo che è la vita può sconfiggere le forze distruttrici dell’odio, dell’egoismo e della violenza, della malattia e della morte, è fonte di grande fiducia. Dinanzi al male di qualsiasi tipo (etico, sociale, psicosomatico…) la fede in Gesù, risurrezione e vita, può e deve aiutarci a superare la tentazione dello scoraggiamento o della disperazione, anzi deve infondere una ferma speranza nella vittoria sul male e sulla morte.

    Sesta domenica di quaresima

    2002-03 62

    Alcuni rilievi conclusivi sul messaggio della Parola di Dio nella «Domenica della Palme» che ci aiuteranno senza dubbio a coglierne il mistero, integrati dagli altri testi che verranno letti durante la benedizione delle Palme e la solenne processione che precederà la liturgia eucaristica. Nei giorni che precedono il cosiddetto «triduo pasquale» leggeremo le pagine drammatiche e commoventi di Isaia che vanno sotto il nome di Canti del Servo del Signore. Oggi leggiamo in anticipo il terzo canto dove si sottolinea la capacità del Servo di ascoltare e lasciarsi formare dalla Parola di Dio:

    «Il Signore mi ha insegnato le parole adatte per sostenere i deboli. Ogni mattina mi prepara ad ascoltarlo, come discepolo diligente» (v. 4),

    perciò come un uomo sapiente che ascolta e come un profeta che parla da uomo sapiente. Il sapiente che ha appreso da Dio la Parola e il profeta che annunzia a nome di Dio la Parola. Ma anche il servo che a causa della Parola viene perseguitato e sottoposto a sofferenze ed umiliazioni ma non viene mai meno nel suo impegno e nel suo coraggio:

    «Ma essi non riusciranno a piegarmi, perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto, rendo il mio viso duro come la pietra. So che non resterò deluso. Il Signore mi è vicino, egli mi difenderà» (vv. 7-8).

    È tipico del Vangelo di Matteo di offrire un racconto a carattere catechetico ed ecclesiale, per cui anche nel racconto della passione che leggiamo quest’anno nella «Domenica delle Palme» si nota questa caratteristica. Pur seguendo il quadro semplice e lineare dell’evangelista Marco vi inserisce alcuni elementi propri che ne fanno una catechesi che illumina il lettore sul significato di avvenimenti tanto oscuri e tragici. Basta seguire nella lettura con attenzione nei cinque brevi atti del dramma le scene nuove che Matteo inserisce. Le elenco brevemente e rapidamente: nel momento dell’arresto è la risposta a Giuda: «Amico, si faccia quello che sei venuto a fare» (Mt 26,50) e la risposta a Pietro:

    «Rimetti la spada al suo posto! Perché tutti quelli che usano la spada moriranno colpiti dalla spada. Che cosa credi? Non sai che io potrei chiedere aiuto al Padre mio e subito mi manderebbe più di dodici migliaia di angeli? Ma in questo caso non si compirebbero le parole della Bibbia. Essa dice che deve accadere così» (Mt 26, 52-54),

    e infine la decisa volontà di Gesù nella Passione. Per la scena del giudizio giudaico nel suicidio di Giuda è Israele giudicato, respinto. Nel giudizio romano: l’intervento della moglie di Pietro, Pilato che si lava le mani e le genti che si volgono a Cristo. Nella scena della crocifissione e della morte: l’innocenza di Gesù Figlio di Dio: «Ha sempre avuto fiducia in Dio e diceva: «Io sono il Figlio di Dio». Lo liberi Dio, adesso, se gli vuol bene!». Oltre al terremoto e all’apparizione di morti risuscitati che fanno della morte di Gesù un avvenimento escatologico. E infine nella scena della sepoltura: la presenza delle guardie alla tomba: perché aveva detto che dopo tre giorni sarebbe risuscitato. Sono queste le aggiunte proprie al racconto dell’evangelista Matteo. Non sono di grande rilievo, ma certamente ben caratterizzate e puntuali. Se si leggono con attenzione, è possibile cogliere l’intenzione catechistica propria di Matteo rispetto agli altri evangelisti. Matteo ha saputo fare e così ci offre del racconto della passione una catechesi adatta a preparare in noi lettori cristiani di questo racconto l’annuncio dell’imminente salvezza. Un dramma sconcertante con un messaggio efficace di salvezza: così emerge dalle tenebre del Calvario la chiarezza della fede, educata da quell’impareggiabile maestro cristiano che è l’evangelista Matteo.
    Il contesto del brano della Lettera ai Filippesi dove Paolo, dopo aver raccomandato l’unità nella carità, esorta all’umiltà degli uni verso gli altri e a mettere al centro dei propri interessi gli altri e non se stessi, è questo dove egli riporta un inno cristologico molto famoso che ogni anno leggiamo nella «Domenica delle Palme» nella seconda lettura. Attraverso questo inno Paolo vuole presentare l’esempio di Gesù. Di Lui si dice che ancora prima della Risurrezione possedeva un modo di esistere e di operare come quello di Dio. Ma non lo ha mai dimostrato, né preteso, come voleva fare Adamo o vuol fare ognuno di noi quando si sente autosufficiente. Gesù si ridusse a nulla e prese un atteggiamento da servo, da creatura umana fragile, mortale, oppressa da limiti, da dolori, dalla morte. Gesù sperimentò anche l’obbedienza, cioè la dipendenza dagli altri, la sperimentò fino alla morte, e alla infamante morte di croce. Ma lo ha fatto per dimostrare fino a che punto Dio è amante dell’uomo.
    Perciò poi Dio è intervenuto a confermare la dignità divina di questo Gesù vissuto da povero servo. Ed ecco la seconda parte dell’inno: «Perciò Dio lo ha innalzato sopra tutte le cose e gli ha dato il nome più grande. Perché in onore di Gesù, in cielo, in terra e sotto terra, ognuno pieghi le ginocchia, e per la gloria di Dio Padre, ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore» (vv. 9-11).

    Con la sua risurrezione, dopo la Pasqua Gesù diventa Signore non solo della morte, ma di tutta la storia e dell’intero universo. Con il Padre Gesù condivide il nome di Signore universale. E questo perché Gesù pur possedendo titoli divini aveva la scelto la strada del servo.
    La Pasqua ci ricorda alla scuola di Gesù anche questo, il vero modo di essere uomini è saper dipendere, servire i fratelli, come uomo tra gli uomini e servo tra con-servi, come fratello tra fratelli.


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