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    Tra forza e debolezza:

    donne che incontrano Dio

    Stella Morra

     

    Vorrei condividere con voi qualche storia di donne [1], tratta dalla Bibbia, per riflettere insieme sul modo in cui le donne che incontrano Dio possono diventare motore di speranza e di azione per servire la vita, la dignità e il bene di tutti. Avrei potuto fare una sintesi teologica, trattare questo tema più teoricamente, in modo completo ed esauriente, esaminando i molti aspetti che si presentano alla nostra mente, farmi aiutare dalla filosofia e dalla sociologia.
    Ho preferito invece scegliere racconti, narrazioni, vicende personali, con un nome preciso, una storia, una biografia: infatti il primo richiamo che la nostra fede ci rivolge (mi sembra) è ricordare sempre che non c'è una «teoria generale» del dolore, della gioia, della vita, della dignità violata; ogni dolore o violenza, ogni gioia, ogni speranza, sono sempre una storia drammaticamente di chi la compie e di chi, tacitamente, non fa nulla per interromperla. Vorrei offrirvi alcune narrazioni, a partire da storie bibliche, che ci aiutino da una parte a raccogliere le esperienze che viviamo e le persone che incontriamo sotto lo sguardo della nostra fede, e dall'altra parte ci stimolino, a partire proprio dalla nostra fede, ad ascoltare con cuore sempre più grande il grido silenzioso delle donne e dei bambini, dei vecchi e delle persone sole, dei poveri e di tutti coloro che sono raramente ascoltati. E ci aiutino a fare di questo ascolto un'azione di forza e di grazia.
    Nella Scrittura c'è spazio per tutta la nostra vita: la Scrittura non chiude gli occhi e Dio sa di che pasta siamo fatti. Un giorno, leggendo la Bibbia con un gruppo di donne che vivevano in una casa rifugio perché in fuga dalle violenze subite, di fronte ad un testo, duro e violento, che davvero non sapevo come giustificare, una di loro ha detto: «Allora c'è posto anche per me e per la mia storia in questa Bibbia, non riguarda solo le donne fortunate». Ecco, vorrei provare a fare in modo che la Scrittura ci aiuti a fare posto per tutte e per tutti, per ogni cosa che riguarda le donne e gli uomini.
    Ho scelto storie e figure non troppo conosciute: abbiamo certo avuto e avremo ancora occasione di «incontrare» le grandi figure della Bibbia, prima fra tutte Maria, la madre di Gesù. Ma può forse essere un primo gesto di conversione ascoltare le «figure minori», le più nascoste, quelle che la storia ricorda appena, ma che avendo incontrato Dio hanno fatto quello che era in loro potere per il bene di tutti. Ognuna di noi è una «figura minore», nessuna è troppo piccola, troppo insignificante per non poter fare qualcosa.

    Cominciando da lontano: Sifra e Pua

    Leggiamo nel libro dell'Esodo al capitolo 1: «Il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: "Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, potrà vivere". Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d'Egitto e lasciarono vivere i bambini. Il re d'Egitto chiamò le levatrici e disse loro: "Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i bambini?". Le levatrici risposero al faraone: "Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito!". Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una discendenza» (vv. 15-20).
    Due donne che per mestiere sono poste sulla soglia della vita, a custodirla, che sono chiamate a far nascere i figli delle altre e che si scontrano con il potere del nuovo re «che non ha conosciuto Giuseppe» (Es 1,8). Progetti e potenze di maschi: Giuseppe, che era conosciuto e stimato, era una protezione per il popolo di Israele, il nuovo faraone era una minaccia mortale per la sopravvivenza stessa del popolo.
    Ma due donne, di cui il testo ci tramanda solo il nome e il mestiere (Sifra e Pua, levatrici), sono il piccolo granello di sabbia che blocca il meccanismo, che permetterà a Mosè di non morire alla nascita e di diventare, faticosamente, la guida del popolo verso la terra promessa. E perché lo fanno? Il testo ci dice che «temettero Dio», che percepiscono che ci sono autorità più grandi del faraone e di Giuseppe, e che esse rispondono alla propria coscienza di questo «timore». Come sappiamo, nella Scrittura il timore di Dio non indica la paura, ma piuttosto il senso profondoche ci sono cose della vita e delle vite che sono troppo serie per essere sottoposte solo alla forza o all'arbitrio di ciascuno.
    Le levatrici di Israele ci mostrano che si deve cominciare da lontano, dal senso della dignità della propria coscienza, dall'avere un senso profondo di ciò che conta e ciò che conta meno, di ciò che permane e ciò che è destinato a passare, di ciò che va obbedito. Temere Dio è, nell'Antico Testamento, il senso profondo della serietà dell'esistenza che può, e dovrebbe, accomunare tutti. Sifra e Pua fanno con semplicità (e con un po' di furbizia... le donne ebree sono troppo sane e veloci nel partorire, non è colpa nostra...) ciò che loro compete, secondo la logica del loro mestiere che serve a far nascere e non a far morire.
    Tutte e tutti dovremmo educarci a cominciare da qui: essere dove siamo, fare ciò che ci compete con la profondità che richiede, per temere il Dio che vogliamo incontrare e far incontrare.

    Mettersi in cammino: la serva della moglie di Naamàn

    Leggiamo nel II libro dei Re al capitolo 5: «Naamàn, comandante dell'esercito del re di Aram, era un personaggio autorevole presso il suo signore e stimato, perché per suo mezzo il Signore aveva concesso la salvezza agli Aramei. Ma quest'uomo prode era lebbroso. Ora bande aramee avevano condotto via prigioniera dalla terra d'Israele una ragazza, che era finita al servizio della moglie di Naamàn. Lei disse alla padrona: "Oh, se il mio signore potesse presentarsi al profeta che è a Samaria, certo lo libererebbe dalla sua lebbra"» (vv. 1-3).
    Una ragazza, di cui non conosciamo neppure il nome, per cui la vita non è stata facile: è diventata prigioniera e schiava. La Scrittura non ci dice del suo dolore, di chi ha lasciato a casa sua, della fatica della separazione... ma ci dice qualcosa di molto serio: la ragazza non solo non sceglie la via della vendetta, ma neppure quella dell'indifferente assenza di fronte alla vita e ai problemi di coloro che sono i suoi padroni. Essa lascia che il suo cuore sia toccato dalla pena per la lebbra che ha colpito un uomo prode e stimato. La lebbra è la grande metafora di ciò che divide ed esclude, la lebbra cancella tutto ciò che c'è stato prima, meriti, onori, stima: un lebbroso diventerà uno di cui avere paura, da tenere lontano.
    E dunque la ragazza prende l'iniziativa, condivide la ricchezza preziosa che possiede anche nel tempo della prigionia e della schiavitù: la sua fiducia nel profeta Eliseo che in terra di Samaria guarisce. È una piccola donna che tiene viva la certezza che vita e benedizione sono possibili, che non ci si deve rassegnare alla lebbra, che neppure colui o coloro che non sono affatto suoi amici, né suoi benefattori, anzi che le hanno fatto del male, meritano di vivere senza una speranza e una possibilità di guarigione.
    Il Vangelo di Luca ci dirà, al capitolo 4: «C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro» (v. 27), frase attribuita a Gesù dopo che, avendo predicato nella sinagoga di Nazareth, viene provocato dai suoi concittadini. E lui ci indica che i confini della fede e della benedizione, dell'incontro con Dio, non sono geografici, né così facilmente distinguibili.
    Così la ragazza serva della moglie di Naamàn ci aveva anticipato: non ci sono confini tra amici e nemici, tra i «miei» e gli «altri» quando serve compassione e guarigione. Impariamo ad avere un cuore che si commuove e che si mette in cammino perché anche gli altri possano mettersi in cammino, per la loro strada. Il Dio padre di tutti saprà condurre ciascuno al suo luogo di benedizione.

    Anche le donne sono violente? Debora e Giaele

    Non tutto però è così dolce e pacifico nella Scrittura: se leggiamo i capitoli 4 e 5 del libro dei Giudici, troviamo due figure di donne, Debora e Giaele, piuttosto inquietanti: siamo nel tempo dei Giudici, appunto, quando il popolo di Dio è irrequieto e incerto, confuso e senza guida («Eud era morto, e gli Israeliti ripresero a fare ciò che è male agli occhi del Signore», Gdc 4,1). I pericoli sono in agguato, i nemici sono molti e senza pietà; Debora è profetessa e giudice in Israele e fa chiamare Barak perché sfidi in battaglia l'esercito nemico. Egli lo farà e vincerà, ma il capo dei nemici, Sisara, fuggirà a piedi: Giaele, donna di cui sappiamo solo che era moglie di un alleato di Sisara, lo attira nella propria tenda e lì lo uccide, con una certa crudeltà, e ne consegna il cadavere a Barak.
    Fino a qui la storia come ci è narrata, seguita nel capitolo 5 da un inno di lode e di gioia cantato da Debora. Le donne dunque tramano per uccidere? Sì, ma non i propri nemici personali, quanto piuttosto chi mette in pericolo l'esistenza stessa del popolo di Israele; dirà Debora nel suo canto: «Era cessato ogni potere, era cessato in Israele, finché non sorsi io, Debora, finché non sorsi come madre di Israele» (v. 7). Ci pare davvero qui il nucleo della questione; nel tempo antico, il potere possiede la sola forma della violenza, oggi sappiamo (fortunatamente!) che ci sono altri modi di esercitare potere e autorevolezza, ma la questione è sempre la stessa: chi si prende la responsabilità, chi si assume in tempo di crisi il ruolo di «madre», chi sa ascoltare il Signore e servirlo facendo quello che serve, anche a rischio di sbagliare?
    Debora e Giaele sono il segno di gesti forti, pieni di coraggio e capaci di non confondersi in tempi oscuri, di gesti che non attendono che siano altri a decidere, che non si compiangono nella tristezza, che ascoltano la parola di Dio e cercano la strada e gli interlocutori perché questa parola venga seguita, diventi realtà.
    E, ancora, occorre notare che servono due donne per portare a compimento l'opera: una da sola, per quanto forte, non è sufficiente; insieme si può. E, ancora, insieme agli uomini: Debora interpella Barak, che non a caso risponde: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò».
    Cosa vuol dire per noi oggi assumerci una responsabilità forte, quella che ci compete, senza per questo scegliere l'unica via della violenza? E cosa significa farlo insieme?

    Senza smettere di aspettare: Anna

    Leggiamo nel vangelo di Luca, al capitolo 2: «C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme».
    Con questo testo facciamo un grande balzo in avanti, passiamo dall'età dei Giudici (ca. 1200-900 a.C.) al tempo di Gesù, per la precisione quando il piccolo Gesù viene presentato al Tempio. Il primo incontro è con Simeone, ma ci viene narrato anche l'incontro con un'altra profetessa (come Debora) di nome Anna.
    I tempi sono cambiati, Israele ha costruito un regno, l'ha perduto, è stato purificato dall'esilio, è tornato nella terra dove subisce il dominio di stranieri... L'attesa è cresciuta nei secoli, il desiderio di sperimentare che Dio rimane fedele alle sue promesse, anche quando tutto sembra indicare il contrario.
    Nuove forme della responsabilità da assumere, in questa attesa: da un lato la forma dell'attesa paziente e fedele («ora aveva ottantaquattro anni»), dall'altro parlare del bambino fuori dal Tempio, a coloro che attendevano la redenzione di Gerusalemme. Simeone parla per sé («Ora lascia o Signore che il tuo servo vada in pace») e per Maria («a te una spada trafiggerà l'anima»); Anna parla ai molti altri senza nome che attendono, tesse reti di attesa fedele che finalmente e misteriosamente riconoscono in un bimbo indifeso il Dio potente e forte, fa aprire gli occhi e il cuore.
    In Anna si vede l'anticipo di ciò che Gesù compirà: muore, per la nostra salvezza, e non fa morire; così Anna non assume una responsabilità con la forza, ma nell'apparente debolezza dell'attesa e del silenzio di una parola che non ha l'autorevole solennità di Simeone, quanto piuttosto la dolcezza del «parlare altrove». Ma quanta forza serve per non allontanarsi mai dal tempio e servire Dio notte e giorno, quanta violenza su se stessi per non perdere la speranza e non cedere alla vecchiaia, per non smettere di sperare che nel paradossale segno di un neonato si veda la vittoria di Dio sulla morte e sul peccato!

    Il coraggio del tocco: la donna con perdite di sangue

    Leggiamo, ancora nel vangelo di Luca, al capitolo 8: «Mentre Gesù vi si recava, le folle gli si accalcavano attorno. E una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, la quale, pur avendo speso tutti i suoi beni per i medici, non aveva potuto essere guarita da nessuno, gli si avvicinò da dietro, gli toccò il lembo del mantello e immediatamente l'emorragia si arrestò. Gesù disse: "Chi mi ha toccato?". Tutti negavano. Pietro allora disse: "Maestro, la folla ti stringe da ogni parte e ti schiaccia". Ma Gesù disse: "Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me". Allora la donna, vedendo che non poteva rimanere nascosta, tremante, venne e si gettò ai suoi piedi e dichiarò davanti a tutto il popolo per quale motivo l'aveva toccato e come era stata guarita all'istante. Egli le disse: "Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace!"» (vv. 42-48).
    Si tratta di un testo un po' misterioso e di una figura di donna (ancora una volta senza nome) che raccoglie in sé la vergogna e la fatica dell'essere donna e insieme impura... talmente conscia della propria condizione marginale e talmente provata dalla sua malattia che non osa parole, richieste, desiderio. Ma non è rassegnata, né sconfitta: si avvicina da dietro e tocca in silenzio il mantello di Gesù.
    Le donne conoscono le vie indirette, silenziose e piene di tatto: in italiano, la stessa parola («tatto», appunto) indica sia il garbo che la gentilezza, come il senso che ci permette di toccare e riconoscere attraverso le dita, le mani, il corpo. Le donne conoscono come si arriva al risultato per vie traverse, gentili, garbate e corporee, quando una carezza cura più di mille parole.
    La donna del vangelo ha bisogno di guarire, lo vuole disperatamente; sa che Gesù la può guarire, lo sa con il corpo e con il cuore. E, in mezzo ad una folla rumorosa e pressante, si fa coraggio e trova una strada silenziosa.
    Gesù sente una «forza» uscire da sé: è un'espressione che indica, nello stesso registro corporeo e senza parole, una comunione profonda che si crea, un legame, un incontro. È l'incontro che trasforma, che cura, che salva, che chiede forza e la ottiene, che dona forza e la rigenera.
    Scopriamo in noi la forza che riceviamo dal Signore, abbiamo il coraggio di lasciarci invadere dalla salvezza che ci dona e diventiamo a nostra volta attenti al tocco di chi è al margine, di chi non osa neppure parlare e chiedere, di chi ha bisogno di essere guarito. Con «tatto» e per vie traverse e indirette troveremo il modo si seminare benedizione intorno a noi.

    Continuare: Lidia, Priscilla e le molte altre

    Nel libro degli Atti e nelle lettere di Paolo troviamo citate molte donne. Ad esempio al capitolo 16 di Atti troviamo scritto: «Ad ascoltare c'era anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo essere stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò dicendo: "Se mi avete giudicata fedele al Signore, venite e rimanete nella mia casa". E ci costrinse ad accettare» (vv. 14s); e al capitolo 18: «Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo di nome Aquila, nativo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia, con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro e, poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì in casa loro e lavorava. Di mestiere, infatti, erano fabbricanti di tende» (vv. 1-3).
    Lidia, Priscilla e le molte altre sono solo l'inizio di una schiera innumerevole di donne che hanno seguito il Signore nel corso dei secoli e fino ad oggi. Di alcune conosciamo il nome (Agnese, Scolastica, Chiara, Ildegarda, Teresa, Edith...) e la chiesa ce le propone come guide, modelli e amiche; della maggior parte (le molte altre!) non conosciamo il nome, solo Dio lo sa... Ma certo ognuna e ognuno di noi ha nel cuore la propria nonna, la propria madre, la propria catechista, una suora, un'amica: c'è una tradizione di fede condivisa, trasmessa, insegnata, vissuta che continua. Il Signore continua ad aprire i cuori perché la sua Parola li converta e continua a darci la gioia di ritrovarci sorelle. Donne che hanno incontrato Dio e che, per questo, incontrano i fratelli e le sorelle.
    Colpisce che, nei testi apostolici, la caratteristica che più spesso viene menzionata (come nei due brevi testi citati) sia l'ospitalità delle donne, un'ospitalità che, addirittura, «costringe»!
    Per far parte della schiera delle molte altre occorre prendere le mosse dall'ospitalità, dal fare spazio nella propria casa e nel proprio cuore a tutti, davvero a tutti. L'ospitalità come gesto concreto nasce da un atteggiamento del cuore e della mente, dal sapere che nessuno mi è estraneo o indifferente. Solo a partire da qui si potranno poi trovare le strade, i gesti, le scelte, le collaborazioni necessarie a cambiare il mondo per orientarlo verso il Regno di Dio.

    Per potere tutti benedire Dio

    Vorrei dunque concludere questa riflessione condivisa con un breve testo, scritto da una sorella evangelica, che mi sembra esprimere bene il realismo necessario e la speranza nel Signore che ci abitano e, ci auguriamo, continueranno ad abitarci per poter servire la vita, la dignità e il bene comune:
    Leggo i Salmi a caso, da sempre. Mi dico: sono poesie, sono preghiere, parole incarnate in esperienze lontane; se vuoi capire il testo, studia, contestualizza! Eppure... Oggi che mi è chiesto di parlare della violenza, delle violenze maschili sulle donne, potrei cercare uno dei tanti salmi che gridano a Dio dolore o sconfitta; invece la memoria continua con insistenza a ripropormi un verso diverso: «Mio Dio, mio re... Ogni giorno ti benedirò e loderò il tuo nome per sempre». Lo cerco nella Bibbia: è l'inizio del salmo di lode 145.
    Ogni giorno. Ogni giorno loderò il Signore, anche quando saprò di mogli picchiate, di figlie vendute, di bambine infibulate, di prostitute adolescenti, di vecchie stuprate, di creature morenti di bombe o di fame, scheletri viventi...
    Quale lode, Signore?
    La condizione umana è così fortemente segnata da ingiustizie, rapine, sopraffazioni che sembra inevitabile, là dove è possibile, chiudersi ciascuno nel proprio nido, famiglia, comunità o – al contrario – ergersi a giudici, sfogare le proprie frustrazioni,
    fomentando odio, cercando vendette, trovando il capro espiatorio di turno. La storia purtroppo si ripete.
    Quale lode, Signore? Ci sembra di sapere solo parole rituali: vere, ma rituali.
    Lode a Te, Signore, dice il salmista. Forse, il verso antico è sulle nostre labbra senza lode perché sappiamo che ogni giorno lo Spirito, nella sua libertà, apre nuovi orizzonti a chi lo invoca. Ogni giorno difficile, ogni giorno di sconforto e di resistenza loderemo il Tuo nome, Signore, e riprenderemo il cammino a testa alta.
    (Franca Long)


    [1] Relazione tenuta in occasione della Conferenza delle Donne del Medio Oriente, organizzata da WUCWO (World Union of Catholic Women's Organisations) insieme al FIAC (Forum Internazionale dell'Azione Cattolica) e con la collaborazione del Patriarcato Latino di Gerusalemme, dal 24 al 26 ottobre 2013 (cfr. https://www.wucwo.org/node/103). La conferenza aveva come tema: Donne credenti al servizio della vita, della dignità e del bene comune. L'incontro è stato particolarmente significativo per la partecipazione di più di cinquanta donne che vivono nella complessa situazione degli stati mediorientali (diciannove Paesi rappresentati), esperienza di incontro personale, di ascolto e dialogo che difficilmente può essere raccontata dai soli documenti.personale, dietro ad un «problema» ci sono sempre persone, storie, madri, fratelli, figli, amici, giorni e vite. In modo particolare la violenza sui deboli, sulle donne e sui bambini è sempre una faccenda che si incide nella carne di chi la subisce e di coloro che li amano,

    (Marinella Perroni, a cura, Corpo a corpo. La Bibbia e le donne, Effatà 2015, pp. 86-97)


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