Il brivido della bellezza

Fernando Savater


N
elle Leggi, il suo ultimo dialogo, il vecchio Platone dice che gli esseri umani sono sottomessi alla pedagogia forzosa di due maestri: il piacere e il dolore. Con le rispettive coercizioni, gradite e terribili, essi ci insegnano a vivere e a sopravvivere. Poiché la maggior parte di ciò che fa godere e soffrire gli uomini è comune a tutti, il piacere e il dolore costituiscono forti collanti della fratellanza universale. Tuttavia, visto che nessuno gode e soffre esattamente con le stesse sfumature né sperimenta gli stessi stimoli nell'arco della propria vita, sono i piaceri e i dolori che ci dotano di una biografia irripetibile, che definiscono l'autentica personalità di ciascuno di noi. Il piacere e il dolore ci insegnano che siamo «uguali» in generale e, nel contempo, «diversi» nel particolare. Constatiamo una volta di più che le stesse cose che ci uniscono – i nostri «interessi»  sono anche ciò che ci separa, ciò che ci conferisce personalità e forse, prima o poi, ciò che ci mette l'uno contro l'altro.

Vediamo un po' più da vicino quel che in termini molto ampi potremmo definire «piacere». Non mi riferisco solamente a quanto produce in noi una sensazione gradevole, bensì a tutto ciò - cosa, persona, prodotto, comportamento, eccetera - per il quale sentiamo approvazione. «Ah, sì, questo sì!», «Ne vorrei ancora!», «Mi piacerebbe ripeterlo!». Per esempio, un piatto delizioso di... (lascio a ciascuno la possibilità di riempire lo spazio sottolineato dai puntini di sospensione con il nome della specialità culinaria preferita), che ci piace perché è gradevole al nostro palato. O magari una doccia rinfrescante nella canicola estiva, anch'essa enormemente piacevole. Queste sensazioni «gratificanti» hanno una grande importanza nella vita di noi uomini, ma anche in quella di qualunque animale dotato di un sistema nervoso abbastanza sviluppato. Un altro esempio, questa volta diverso: la soddisfazione che proviamo quando vediamo compiere un'azione coraggiosa e altruistica o, meglio ancora, quando la compiamo noi: «Beh  sospiriamo contenti  questa sì che è una cosa buona! Bisognerebbe comportarsi sempre così!». L'apprezzamento del «bene» è tipico degli esseri dotati di ragione, i quali, riflettendo, si rendono conto di quanto potrebbe essere migliore questa vita bastarda se tutti fossimo capaci di comportamenti eccellenti. Un ultimo esempio: assisto a un tramonto fiammeggiante sul mare o ascolto la bella interpretazione per pianoforte di una polonaise di Chopin. E di nuovo sento sorgere in me quell'approvazione colma di piacere: «Che bello!».
Tuttavia, quest'ultimo è un caso diverso dagli altri due: non c'è dubbio che se non fosse per i miei sensi non potrei godere della «bellezza», ma in questo piacere interviene anche la ragione, perché non si tratta di una gratificazione puramente sensoriale. I piaceri della bellezza sono i meno «zoologici» di tutti. Tuttavia, ciò che provo davanti alla bellezza non somiglia neppure al rispetto morale o al plauso che riscuote in me un gesto virtuoso; potrei perfino preferire, per ragioni etiche, che questa o quella cosa non esistesse... anche se non per questo mi pare meno bella! Immaginiamo che mi trovi con un amico davanti alla grande piramide egizia di Cheope e che dica che mi pare davvero molto bella. «Bella? A che cosa ti riferisci? Debbo supporre che ti piacerebbe vivere dentro questa tomba oscura? O ti sembra un luogo 'gradevole' da fuori, solo perché lo guardi seduto sotto il sole cocente del deserto?» Gli rispondo che la sola idea di abitare in una piramide o di arrampicarmici sopra per prendere il sole mi risulta assolutamente sgradita. «E poi, non sai - continua malevolo l'amico - come fu costruita? Migliaia di schiavi trascinarono, sotto i colpi della frusta, enormi pietre per costruire la tomba sontuosa del tiranno che calpestava i loro diritti! Non sarà questo che ti sembra tanto bello? Vorresti che di nuovo si costruissero piramidi come questa, allo stesso prezzo?». Ovviamente no, anzi: preferirei perfino che la piramide non esistesse se ciò potesse risparmiare le sofferenze ingiuste provate da coloro che la costruirono. E naturalmente non nutro il benché minimo desiderio che si torni a intraprendere un'opera come questa, in quelle condizioni disumane. Tuttavia, non posso fare a meno di riconoscere che la grande piramide mi sembra bellissima, malgrado non ci veda niente di piacevole e non reputi moralmente «buono» che un giorno sia stata costruita. Non so che altro dire alle frecciate del mio amico, perché non sono capace di spiegare chiaramente che cosa siano per me quell'«armonia» e quella «bellezza» da cui traggo piacere nonostante tutto: è difficile capire perché la piramide mi «interessi» tanto.
Kant, di cui finora ho parafrasato a modo mio alcune asserzioni generali, dice che il diletto prodotto dalla bellezza è l'unico veramente disinteressato e libero. In effetti, le altre gratificazioni derivano dagli interessi necessari dei nostri sensi e dalla nostra ragione. Ciò che è «piacevole» ci attrae perché soddisfa le preoccupazioni relative alle funzioni primarie, come mangiare, bere, ripararsi, trovare comodità, gratificazione sessuale, eccetera. Ciò che è «buono» s'impone perché la nostra ragione non può far altro che accettare il fatto che la vita umana è più degna di essere vissuta quando facciamo ciò che dobbiamo fare e riconosciamo veramente gli altri come nostri simili e non come semplici strumenti da utilizzare. Ma l'ansia di bellezza non sembra rispondere a nessuna necessità concreta, né sensoriale né razionale. Sappiamo perché gli uomini primitivi fabbricarono ciotole d'argilla cotta per soddisfare più comodamente la fame e la sete. Possiamo immaginare che le utilizzassero anche per alimentare i propri figli e per dar da bere ai compagni assetati, visto che siamo necessariamente sociali. Ma perché le decorarono con un bordo di figure geometriche e di motivi floreali? Quella decorazione non serve a nulla, non svolge, apparentemente, funzione alcuna: nessuno scimpanzé avrebbe perso il suo tempo ad aggiungere una cosa tanto superflua su un oggetto di cui, per il resto, avrebbe potuto comprendere l'utilità. Tuttavia, quei motivi ornamentali rivelano che gli uomini non cercano soltanto di soddisfare le proprie necessità, ma che sono interessati anche alla bellezza delle cose o, almeno, che queste appaiano belle ai loro occhi. Di che tipo è quest'«interesse»? Senza indietreggiare davanti al paradosso, Kant dice trattarsi di un interesse disinteressato, il che, francamente, non ci aiuta molto a chiarirci le idee...
Ma restiamo ancora un poco in compagnia di Kant, che non è mai una compagnia del tutto cattiva. Secondo il filosofo, è bello ciò che, senza un concetto, piace a tutti. Le due caratteristiche (assenza di concetto e apprezzamento universale) sono importanti, in quanto dire che un fiore è «bello» e che una poesia è «bella» non è come dire che ci piacciono le lasagne: nel primo caso, consideriamo la bellezza interna al fiore e alla poesia e pensiamo che tutti, guardando attentamente, dovrebbero poterla vedere (e non solo noi, dal nostro personale e intrasferibile punto di vista!), mentre nel secondo ammettiamo, come si suol dire, che «i gusti sono gusti» e che i gusti non rappresentano una materia da dibattere (de gustibus non est disputandum), il che significa soltanto che non esiste alcuna prescrizione che ci obblighi a condividerli, perché, per il resto, sui gusti si discute moltissimo... probabilmente più che su qualunque altra cosa! Quando Kant dice che ciò che è bello piace a tutti, non intende dire che «di fatto» siamo tutti d'accordo nel considerare «belle» le stesse cose, bensì che chiamiamo «bello» solo ciò che riteniamo avere diritto e merito sufficiente in se stesso per essere considerato così da tutti quanti, mentre non esigiamo tanto quando ci riferiamo ad altri tipi di gusto: sarebbe falsamente modesto e ridicolo voler far credere che qualcosa sia «bello» solo per me, mentre sarebbe ammissibile, anche se profondamente sbagliato, considerare un aspetto originale e personalissimo del mio carattere la mia passione per le lasagne.
Non meno interessante è l'affermazione kantiana che la bellezza non ha concetto. Secondo l'uso che Kant fa di questo termine, il concetto è ciò che ci permette d'identificare qualcosa con certezza, offrendoci inoltre una regola pratica per realizzarne la costruzione e la valutazione. Ma anche se riusciamo a classificare concettualmente quella tal cosa come un'alba e quell'altra come una cattedrale, non abbiamo una regola, o un modello, determinante che stabilisca necessariamente quando l'una e l'altra meritano l'attributo della «bellezza». Solo la pedanteria e lo sterile accademismo credono di poter stilare delle norme secondo le quali alcune cose saranno obbligatoriamente belle e altre no. Kant si spinge anche oltre e opera una distinzione fra la bellezza propriamente «libera» e «vaga» e la bellezza «aderente» (anche se ci ha già detto che la gratificazione prodotta da qualunque tipo di bellezza è disinteressata e libera). Quella «aderente» è la bellezza delle cose di cui conosciamo lo scopo e delle quali possiamo definire approssimativamente la perfezione funzionale: per quanto il nostro apprezzamento estetico di un cavallo da corsa o di un antico palazzo sia «disinteressato», non potrà mai essere completamente slegato dal fatto che sappiamo «a cosa servono». Succede la stessa cosa con le opere d'arte basate sulla rappresentazione fedele della realtà e su sottili analisi morali e psicologiche, la cui bellezza è sempre legata all'interpretazione precisa di ciò che esiste e dovrebbe esistere. Invece, la bellezza «vaga» è quella dei fiori, delle conchiglie che troviamo sulla spiaggia, del gioco di luce e d'ombra di una sera d'estate, degli intricati arabeschi ornamentali dell'arte islamica, del disegno di una tappezzeria e di qualcosa che Kant non poté conoscere perché comparve nel mondo un secolo dopo la sua morte: la pittura astratta (Mondrian e Jackson Pollock... sono esempi che il vecchio filosofo avrebbe forse contemplato con stupito piacere). Secondo la Critica del Giudizio, tutti questi tipi di bellezza «senza senso» né «concetto» sono quelli che suscitano in noi il piacere più puramente e indubbiamente «estetico»... anche se Kant non usava questa parola come la si usa attualmente!
Tuttavia, possiamo davvero separare del tutto la bellezza dagli altri valori umani, utilitaristici e morali? In origine, come sempre succede con i termini encomiastici, queste forme di apprezzamento dovevano essere molto più mescolate di oggi, se l'etimologia non ci inganna. La parola che oggi ci suona immediatamente familiare – «bello», dal latino bellus – sembra essere un diminutivo di «buono» – bonus, bonulus – come anche, naturalmente, il termine spagnolo «bonito» che nella mia lingua conserva ancora il significato originario di abbastanza buono, superiore alla media, «grazioso», anche se non eccellente. Anche il greco kalos, per il quale, nel Cratilo (416b), Platone cerca, o immagina, un'etimologia che significa «attraente», è semanticamente legato alla voce «buono» – agathos – e talvolta forma nomi composti molto comuni come kalokagathos, una qualifica abituale dell'uomo esemplare, colui che ha raggiunto la perfezione sia dal punto di vista fisico che civile. Per inciso, informo il lettore che in greco moderno kalos significa «buono». Anche in cinese l'ideogramma di «bello» – mei, che rappresenta un grande agnello – è direttamente vincolato all'ideogramma di «buono» o «bene» (shan, che, se le mie informazioni sono giuste, rappresenta una madre con un bambino fra le braccia). Quanto all' «hermoso», che in spagnolo significa «bello», deriva dal latino formosus, vale a dire ciò che conserva adeguatamente la sua «forma» in modo armonioso e con le dovute proporzioni fra le parti. Remo Bodei, da cui traggo questi dati etimologici, afferma che l'apprezzamento dell'idea di «forma» deriva forse, nella sua prima accezione, dal contrasto fra l'orrore provocato dal disfacimento degli organismi corrosi dal tempo e dalla morte': amiamo ciò che è ben formato perché amiamo, in primo luogo, ciò che è vivo.
In sintesi: sembra che non ci siano dubbi sul fatto che, originariamente, l'idea del bello (sebbene non della Bellezza stessa), impostata in modo più intuitivo che riflessivo, fu legata alla nozione del buono (anche se non del Bene), vale a dire ciò che è meglio per la vita degli uomini. Sia il bello sia il buono e, naturalmente, il piacevole, le categorie che Kant distingue e che, fino a un certo punto, separa, derivano probabilmente da un nucleo comune incentrato sullo stesso obiettivo: rendere migliore la vita umana, cioè più collaborativa e solidale, più ricca di esperienze e di immaginazione, più comoda e squisita; in poche parole: meno docile rispetto all'oscurità divoratrice e insensibile della morte. Sintesi della sintesi: il bello condivide con il buono e il delizioso l'obiettivo che ci sia più vita e meno morte... per i mortali. Uno dei filosofi contemporanei che più e meglio ha insistito su questo punto di vista è George Santayana (un pensatore di origine spagnola, e dall'esistenza felicemente errabonda, che scrisse tutte le sue opere in inglese).
Per Santayana, i valori estetici non possono mai essere «separati» dal resto dei valori vitali dell'uomo, anche se, per certi aspetti, devono essere distinti dagli altri. Non sono «disinteressati» – il valore dimostra sempre un «interesse» appassionato per un aspetto positivo della vita –, ma esplorano e ampliano il possibile campo dei nostri interessi. Si tratta sempre di ingrandire l'angusta finitezza della vita per arginare il più possibile l'opprimente vastità della morte. Anzi, secondo Santayana, l'arte non ha mai mancato di una base e di un motivo pratico, né di una funzione intellettuale, sociale o religiosa. Nella sua opera principale su questo argomento, Il senso della bellezza, afferma che «nulla, tranne quanto di buono c'è nella vita, rientra nella struttura del bello. Ciò che ci affascina del comico, ciò che ci stimola del sublime e che ci commuove del patetico, è il barlume di qualcosa di buono; l'imperfezione ha valore solo come perfezione incipiente». In un altro dei suoi libri, Reason in Art, afferma chiaramente che «è pura barbarie credere che una cosa sia esteticamente bella, ma moralmente brutta, o moralmente bella, ma odiosa alla percezione. Le cose parzialmente belle o brutte possono essere state scelte obbligatoriamente sotto l'influsso di circostanze sfavorevoli, prima del sopraggiungere di qualcosa di peggio; ma se una cosa è brutta, proprio per questo non può essere completamente buona, e se una cosa è completamente buona deve per forza essere anche completamente bella». Santayana trasforma l'antica Grecia in una copia del paradiso e in un canone, per confutare così coloro che se ne allontanano per avvicinarsi agli aspetti barbari di ciò che chiamiamo «modernità» (del «brutto» nell'arte contemporanea dovremo indubbiamente parlare più avanti). «Fra i greci, l'idea di felicità era estetica e quella di bellezza era morale; e questo non perché i greci fossero confusi, ma perché erano civili» (The Mutability of Aesthetic Categories) .
Tuttavia, neppure i greci dell'epoca classica avevano un'idea chiara e uniforme della bellezza. Platone, il più illustre protagonista della nostra tradizione filosofica, opera una distinzione fra la bellezza propriamente detta – che effettivamente coincide con il buono e il vero – e il tipo di bellezza cui aspirano gli artisti. Quest'ultima non gli pare indispensabile, vista l'inautenticità e la pericolosità che comporta per un ordine politico ben concepito. Nella sua Repubblica, il dialogo in cui descrive quale dovrebbe essere il termine di paragone della polis, organizzata secondo la giustizia più retta, ci informa del fatto che, se nella sua città ideale arrivasse un poeta drammatico, sarebbe accompagnato cortesemente, ma con fermezza, alla frontiera e rimandato a casa senza indugi. In altri passaggi della stessa opera, ci lascia intendere che un simile trattamento sarebbe riservato anche ad altri artisti... incominciando da certi architetti di tendenze troppo «moderne» per la loro epoca. E ancora, una posizione che, oggigiorno, è la più scandalosa di tutte: nelle Leggi, Platone non solo preconizza la censura delle opere d'arte per motivi politici, ma detta persino delle norme abbastanza particolareggiate per applicarla nel modo più efficace. Non credo sia necessario ricordare che quando Platone parla di poeti e di artisti non si riferisce a gente mediocre e mossa unicamente da vili interessi commerciali – come coloro che, oggi, così spesso vengono aspramente criticati –, bensì a talenti geniali come Omero, Eschilo, Sofocle, Fidia, Policleto, eccetera, vale a dire, ai creatori di ciò che, alla luce dei secoli, ci appare come una specie di Età dell'Oro artistica dell'umanità.
Platone, anche lui a suo modo un artista, poiché i suoi dialoghi sono capolavori della letteratura universale il cui prestigio, da oltre venti secoli a questa parte, è sempre stato costante, non è stato certo il solo innamorato della bellezza ad aver fustigato o, almeno, sottovalutato gli esiti della bellezza artistica, probabilmente la prima cui pensiamo quando ci dicono che qualcuno è un «amante del bello» o che ha «buon gusto estetico». Anche Kant considera lo spettacolo della natura il prototipo della vera bellezza e guarda agli artisti con una certa diffidenza, concedendo loro di raggiungere al massimo, e solo sporadicamente, quella «bellezza aderente», o aggiunta, di rango nettamente inferiore. Rousseau detestava il teatro, che avrebbe voluto veder completamente estirpato dalla sua repubblica di Ginevra, e talvolta parve considerare tutte le arti come una forma di decadenza da cui i cittadini democraticamente «sani» avrebbero fatto bene ad allontanarsi. E un artista del romanzo eccezionale come Leone Tolstoj scrisse pagine virulente niente meno che contro Shakespeare (che, in verità, non piaceva nemmeno a Wittgenstein), perché lo considerava il rappresentante di un genere d'arte che corrompe la rettitudine morale e religiosa delle sue vittime. Perfino un esteta raffinato come Santayana disse, nella sua ultima opera, Dominations and Powers, che «un vero amante del bello non potrebbe mai entrare in un museo».
Ma cerchiamo di concentrarci sugli argomenti a sfavore dell'arte sostenuti da Platone e, precisamente, su quelli più importanti non solo in virtù dell'incomparabile eccezionalità del personaggio, ma anche perché, in un modo o nell'altro, Rousseau, Tolstoj e compagnia bella, compresi i nazisti che perseguitarono le opere d'arte «degenerate», i talebani che in Afghanistan vietano la musica e quasi tutto il cinema americano e coloro che esigono meno violenza e più moralità nei programmi televisivi, ripetono, consapevolmente o inconsapevolmente, buona parte dell'argomentazione platonica. Perché Platone voleva esiliare gli artisti dalla sua città ideale? Questa domanda funge da sottotitolo di un bel libro, Il fuoco e il sole, in cui la notevole scrittrice e pensatrice irlandese Iris Murdoch studia con penetrazione il «caso» platonico. Continuando il discorso, proseguiremo in parte con la sua analisi e, in alcuni casi, ne citeremo qualche frammento rilevante.
Incominciamo con il chiarire che Platone diffida degli artisti, e ci mette in guardia contro di essi, perché è convinto della loro forza, cioè della loro capacità di seduzione. Se l'arte non fosse che una banale perdita di tempo, è assai probabile che Platone non le avrebbe dedicato la benché minima attenzione. In che cosa risiede la «forza» degli artisti? Indubbiamente, nella loro abilità nel produrre piacere che, insieme al dolore, come si è già detto, è lo strumento per eccellenza della formazione sociale degli individui. Chi è padrone dei meccanismi del piacere, controlla anche gran parte, almeno, dell'educazione della cittadinanza: pertanto, conviene che questi terribili strumenti si trovino in buone mani. A questo riguardo, Platone non considera gli artisti adatti a essere degli educatori. I più pericolosi di tutti sono quelli che si occupano di descrivere sentimenti, passioni e destini umani, cioè i poeti epici e i drammaturghi (non c'è dubbio che oggi Platone includerebbe in questa categoria anche i romanzieri e gli artisti cinematografici), poiché nulla è più seducente, per gli esseri umani, della rappresentazione, per fittizia e bizzarra che sia, dei comportamenti dei loro simili. Qualunque individuo minimamente addestrato all'uso della ragione è in grado di scoprire gli errori e i tranelli di un'argomentazione teorica (se la maggioranza sembra incapace di farlo è semplicemente perché non presta attenzione ai ragionamenti), ma, al contrario, un buon artista può rendere «credibile» e perfino ammirevole qualunque tipo di vita anche agli occhi del più sofisticato degli spettatori... per non parlare dell'influenza che può esercitare sul volgo!
Ma perché gli artisti che drammatizzano la vita umana esercitano, in generale, un'influenza più pericolosa che benefica? Perché, secondo Platone, l'arte è solita accettare acriticamente le apparenze, invece di metterle in discussione: l'artista, sommamente attratto da quelle apparenze che affascinano anche il pubblico, non si dedica ad apprezzare e promuovere le verità razionali che a esse soggiacciono e le smentiscono, lasciando che di questo si occupino soltanto i filosofi... vale a dire, i veri educatori. Fantasticare su cose inverosimili è molto più «divertente» che studiare l'essenza immutabile della realtà, austera e rigorosa come la geometria. Cosa ancor più grave: poiché ciò che vogliono il poeta e il drammaturgo (ai giorni nostri, anche il romanziere, il regista cinematografico, ecc.) è innanzitutto piacere ai loro fruitori e provocare piacere nella maggioranza delle persone, essi si divertono a concentrarsi sulle biografie dei malvagi «perché l'uomo malvagio è sfaccettato, divertente ed estremo, mentre l'uomo buono è tranquillo e sempre identico». L'etica, rispetto all'estetica, ha tutto da perdere in materia di divertimento. Perché? Beh, perché sappiamo a priori come devono essere le persone a modo – il loro operato si fonda sui principi, vale a dire su norme che conosciamo ancor prima di conoscere loro – mentre i cattivi sono molteplici e sorprendenti nelle loro trasgressioni. Esistono solo pochi modi di comportarsi bene, mentre le maniere di comportarsi male sono innumerevoli; per questo l'etica – che non fa altro che ricordarci continuamente le cose fondamentali – è estremamente «noiosa», mentre l'estetica, che vuole essere innanzitutto novità e sorpresa, è moralmente sospetta. Come riassume Murdoch, «l'artista non può rappresentare ed encomiare il bene, ma solo ciò che è demoniaco, fantastico ed estremo, mentre la verità è tranquilla, sobria e contenuta; l'arte è sofisticheria, nel migliori dei casi una mimesi (imitazione) ironica la cui falsa 'veridicità' è un insidioso nemico della virtù».
Per Platone vige una contrapposizione netta fra l'arte e la conoscenza vera, vale a dire la filosofia. Nell'arte predomina, innanzitutto, la personalità stregonesca dell'artista, mentre la filosofia aspira alla realtà impersonale così com'è in se stessa, al di là degli slanci e dei capricci umani. Gli artisti, grazie alla loro capacità di seduzione, riescono a oggettivare in modo universale la propria soggettività, mentre la funzione del filosofo è quella di appropriarsi soggettivamente, tramite la conoscenza, dell'universalità oggettiva. La bellezza cui aspira il filosofo è la gioia originata in noi dalla realtà, quando riusciamo a comprenderla con precisione matematica dopo esserci purificati dai nostri desideri, e non il turbamento morboso che lusinga le nostre passioni. Platone non scarta, comunque, tutti i tipi di arte: si oppone soltanto a quella troppo individualistica e personale, l'arte dei grandi creatori. Invece, non ha nulla in contrario rispetto a ciò che oggi chiameremmo arte «popolare», gli artigianati tradizionali e la musica tonificante che risveglia le sane emozioni patriottiche e religiose, cioè le manifestazioni in cui l'elemento collettivo sovrasta quello individualmente sovversivo di alcune soggettività tendenti all'introspezione. In nome dell'armonia unanime della società, l'elemento disgregante di un certo tipo di arte deve essere censurato. Dovremo sottolineare il fatto che anche nel nostro secolo sono esistite ed esistono simili impostazioni, sebbene sempre al servizio di dottrine politiche assai poco auspicabili per i fautori della libertà personale?
Tuttavia, la pretesa di opporre la bellezza della finzione artistica alla bellezza della verità filosofica non è affatto inattaccabile. Sebbene Platone abbia avuto dei seguaci, Aristotele e molti altri filosofi altrettanto illustri la pensano in modo diverso, sostenendo che le opere dei grandi artisti non sono un ostacolo sulla via verso l'autentica conoscenza della realtà, ma piuttosto sono indispensabili per percorrerla nella maniera più corretta. Infatti, a modo loro, anche gli artisti esplorano nuove vie di comprensione di ciò che esiste. Non c'è dubbio che partano dal loro particolare modo di sentire e dai loro fantasmi interiori, ma possiamo forse escludere la soggettività dalla totale comprensione del reale, come se si trattasse semplicemente di un'inutile illusione? Perfino le opere d'arte che scommettono sul fantastico sviluppano la nostra percezione delle possibilità del reale, offrendo alternative alla realtà vigente.
Non è vero che gli artisti migliori pretendono solo di divertire e di lusingare le passioni meno nobili del pubblico: prima di tutto, aspirano ad aiutarlo a migliorare la sua conoscenza. Leonardo da Vinci disse che il compito della pittura e delle scultura era quella di giungere a saper vedere, a saper vedere meglio. E infatti non abbiamo scoperto nuove sfumature delle cose, delle forme e dei colori proprio grazie a Leonardo, a Michelangelo, a Velazquez e a Picasso? Forse che i poeti, i drammaturghi e i romanzieri non hanno decisivamente arricchito la comprensione della vita umana, di ciò che significa abitare come uomini nella complessità del mondo? Indubbiamente, la visione che ci viene offerta non è sempre placida e tranquillizzante, ma è proprio questo il suo merito maggiore. Gli artisti ci inquietano perché ci aprono gli occhi, non per il semplice gusto di confonderci. Come dice giustamente Iris Murdoch, «il buon artista ci aiuta a vedere che posto occupa la necessità nella vita umana, che cos'è ciò che si deve sopportare, che cosa si deve fare e che cosa disfare, nonché a purificare la nostra immaginazione per poter contemplare il mondo reale (in genere, velato da ansie e timori), compresi l'assurdo e il tremendo». E talvolta anche l'osceno, il contraddittorio e il sinistro, anche se ciò, normalmente, indispone i benintenzionati guardiani della pubblica decenza.
Forse il pensatore che affrontò le tesi platoniche con maggior decisione (anche se, in effetti, circa ventiquattro secoli dopo!), fu l'eclettico Friedrich Schiller, insigne poeta, autore drammatico e storico. Nelle sue Lettere sull'educazione estetica dell'umanità, questo discepolo poco ortodosso di Kant rivendica, con romantico ardore, l'importanza che riveste coltivare la sensibilità estetica per ottenere veri cittadini capaci di vivere e di partecipare in una società moderna non autoritaria. In fin dei conti, per Schiller, «la più perfetta di tutte le opere d'arte è la fondazione di una vera libertà politica»s, un progetto, questo, che non avrebbe certo riscosso l'approvazione di Platone, se non dopo una sequela infinita di riserve e sfumature... nella fortunata eventualità che fosse mai riuscito a ottenerla! Per Schiller, la formazione estetica completa in maniera decisiva la preparazione morale e intellettuale del cittadino, preparandolo alla decisione libera e autonoma, come creatura dotata non solo di ragione, ma anche di sensi fisici non meno nobili di quella. L'arte non ci indica, certamente, quel che dobbiamo fare – altrimenti sarebbe solo una succursale plastica o narrativa della morale –, ma ci scuote e ci purifica, tonificandoci, affinché siamo ciò che vogliamo diventare. Schiller prende il toro per le corna e risponde energicamente a Platone: «Bisogna dare ragione a coloro che dicono che il bello e lo stato in cui il bello mette lo spirito sono del tutto indifferenti alla conoscenza e alla convinzione morale. Hanno ragione, infatti: la bellezza non produce in assoluto un risultato particolare, né realizza alcuno scopo, né intellettuale né morale; non ci rivela una verità, non ci aiuta a compiere un dovere, né, in una parola, è capace di confermare il carattere e di illuminare l'intelletto. La cultura estetica, dunque, lascia nella più completa indeterminazione il valore e la dignità dell'individuo, perché questi possono dipendere solo da lui; l'unico risultato della cultura estetica è mettere l'uomo, per natura, nella condizione di fare da solo ciò che vuole, restituendogli completamente la libertà di essere quel che deve essere». La funzione della bellezza, sia che provenga dall'ammirazione della natura sia che derivi dalla creazione artistica (soprattutto quest'ultima), è puramente emancipatrice: serve a rivelare all'uomo quanto sia aperta, e perfino terribile, la sua libertà.
La grande originalità di Schiller è quella di aver messo in relazione la vocazione artistica con una dimensione dell'attività umana che normalmente viene considerata banale e di rango inferiore: il gioco. Solo alcuni presocratici come Era-dito (si veda il quinto capitolo) osarono paragonare il presunto «ordine» dell'universo ai risultati di un gioco infantile, anche se in questo caso i «bambini» impegnati a giocare sarebbero gli dèi o il caso. L'attività ludica non ha altro scopo, non si propone altro modello né ottiene altro vantaggio che il suo stesso compimento, esattamente come la cosa più complessa di tutte, ciò che chiamiamo «cosmo». Certamente, Platone diffidava di questa metafora pericolosamente anarchica. Schiller vi ritorna, collocando la differenza specifica dell'umanità proprio nella capacità di giocare: «L'uomo gioca unicamente quando è uomo nel senso pieno della parola ed è pienamente uomo unicamente quando gioca». I cuccioli degli animali superiori e i bambini molto piccoli, più che «giocare» nel vero senso del termine, si allenano, divertendosi, a compiere quei gesti e quei movimenti fisici che poi dovranno compiere per svolgere le funzioni della vita adulta. Il vero «gioco» comincia quando si costituisce un mondo simbolico autosufficiente e autoreferenziale in cui ha luogo un'attività che si dota da sola delle proprie strutture e delle proprie regole. Quel mondo ha a che fare, ovviamente, con quello della vita quotidiana, che in certo modo imita e riflette, ma si scrolla di dosso le sue norme ed elude le pressioni mortifere della necessità. Secondo Schiller, è nell'ambito del gioco che si muove l'artista: egli gioca con la bellezza della realtà e trasforma in realtà principale proprio la bellezza, come fosse un tesoro che scopre e, al tempo stesso, forgia la nostra libertà. Il gioco dell'arte ci rende padroni di un mondo nostro, rivelandoci così un destino sociale e personale insieme, un mondo al di là delle coercizioni della natura e della legge, un mondo in cui dovremo decidere, senza colpe né discolpe, ciò che vogliamo essere.
Precedentemente ci siamo riferiti, in più punti, agli artisti, soprattutto ai più grandi, chiamandoli creatori. È un termine che non si è soliti applicare agli scienziati e agli sportivi, per illustri che siano. Perché questa differenza di trattamento? In che senso diciamo che un artista è «creatore»? Naturalmente, non un creatore come supponiamo sia Dio, perché nemmeno l'artista più grande può creare la sua opera dal nulla. Gli artisti utilizzano sempre materiali già esistenti (i colori, il marmo, una lingua, le note musicali...) e si appoggiano, più o meno, a ciò che è stato fatto dai loro predecessori, anche se poi lo rifiutano e cercano altre strade. Ma un po' «divini» lo sono veramente, perché la loro opera non può essere spiegata senza di loro - senza la loro vocazione e la loro personalità -, vale a dire che se non fossero esistiti, ciò che hanno fatto non ci sarebbe mai stato. Mi spiego: se Colombo non fosse arrivato, nel 1492, nel continente americano, prima o poi qualcun altro avrebbe fatto quel viaggio dall'Europa, come già in epoche remote avevano fatto i vichinghi. Se Alexander Fleming non avesse scoperto la penicillina, un altro scienziato avrebbe certamente scoperto le proprietà terapeutiche del fungo miracoloso. Il record dei cento metri piani è già stato superato molte volte e certamente, prima o poi, accadrà di nuovo. Lo scopritore, lo scienziato e il campione sportivo sono i primi ad arrivare dove nessuno era mai arrivato... ma in campi già esistenti che già da prima erano aperti alla curiosità e alla capacità di chiunque. Invece, se Mozart e Cervantes fossero morti nella culla, nessuno avrebbe composto Il flauto magico né raccontato la storia di Don Chisciotte. Non ci sarebbero mancati musiche e romanzi, questo no, ma non avremmo avuto quella musica e quel romanzo. Possiamo immaginare il telefono senza Graham Bell e la teoria della relatività senza Einstein, ma non Las Meninas senza Velázquez. Definiamo «creatore» colui che fabbrica qualcosa che senza di lui non ci sarebbe mai stato, che reca nel mondo qualcosa, non importa se grande o piccolo, che senza di lui non sarebbe mai esistito esattamente in quel modo e solo in quel modo. Le opere d'arte non sono la realizzazione delle possibilità, o delle qualità, di qualche cosa che esisteva precedentemente, bensì scaturiscono dalla personalità stessa degli artisti che le portano a compimento. Assomigliano a loro ma, pur riflettendo il modo di essere di chi le ha fatte, rispecchiano anche la realtà del mondo di cui diventano parte. L'artista non è il primo a scoprire o a raggiungere qualcosa, è piuttosto l'unico che poteva «crearlo» in maniera insostituibile...
Ma deve essere sempre «bella», nel senso di «piacevole», cioè il contrario di «brutta», l'opera d'arte realizzata dall'artista? Deve basarsi esplicitamente sull'armonia e sull'equilibrio fra le parti, sulla perfezione dell'insieme, o può anche accogliere elementi dissonanti e perfino deformi? La santissima trinità platonica è costituita dal Bene, dalla Verità e dalla Bellezza, e appartiene a un ordine ideale che trascende questo mondo; ma la triade infernale che sembra, invece, presiedere i nostri conflitti terreni è formata dal Male, dalla Falsità e dalla Bruttezza. È dovere dell'artista aspirare unicamente a mostrarsi devoto alla prima trinità o il suo compito comporta anche rendersi conto e darci conto della seconda? Facciamo l'esempio di Giorgione, uno dei pittori più eccelsi del Rinascimento italiano. In molti casi riprodusse la bellezza di figure umane piene di grazia, ma dipinse anche il ritratto spietatamente fedele di una vecchia sdentata e decrepita che, in giovinezza, doveva essere stata bella, come ci lascia indovinare la scritta presente nel quadro, Col tempo: esso non rappresenta la bellezza, bensì ciò che ne fa il tempo. L'anziana così rappresentata non è «bella» da nessun punto di vista, né il passaggio devastante degli anni che l'ha ridotta in così triste stato fisico ha niente di bello e di armonioso. AIlora, diremo che Giorgione è venuto meno al suo impegno artistico con la «bellezza», dipingendo qualcosa che ci fa quasi senso e che può ben suscitare oscuri timori, se ci mettiamo a riflettere? Io oserei dire che il quadro è artisticamente «bello» e perfino infinitamente più bello di tante banali riproduzioni di paesaggi sdolcinati e di qualsiasi Miss Universo nel fiore degli anni. Perché?
Forse perché ciò che, nell'arte, può essere chiamato «bellezza» – se ammettiamo che la pretesa dell'arte sia produrre bellezza a tutti i costi – ha spesso poco a che fare con la gradevolezza e con la serenità puramente ornamentale. Il poeta Rainer Maria Rilke pensava che la bellezza fosse «quel grado del terribile che riusciamo a sopportare». L'attrazione che proviamo per l'arte non ci giunge sempre come una carezza, ma più spesso come un'unghiata. Alain, un pensatore contemporaneo che ha scritto molto sul procedimento artistico, dice che «il bello non piace né dispiace, richiama l'attenzione». Il principale effetto estetico è fermare l'attenzione distratta che scivola sulla superficie delle cose, delle forme, dei sentimenti e dei suoni senza prestar loro altra considerazione che quella d'abitudine. Secondo questo criterio, è veramente bello tutto ciò che non si possa fare a meno di notare. Più che cercare la nostra compiacenza e il nostro consenso, l'arte reclama la nostra attenzione. Ma stare attenti può essere il contrario di lasciarsi invadere da ciò che dia gratificazione immediata, come fare un bel bagno caldo dopo una lunga e faticosa giornata. Piuttosto il contrario, se diamo retta a un altro pensatore contemporaneo, Theodor W. Adorno, che nella sua Estetica sostiene che «la riuscita estetica potrebbe essere definita come la capacità di produrre un certo tipo di brividi, quasi che la pelle d'oca fosse la prima immagine estetica». Ci turba ciò che non ci permette di rimanere a distanza, ciò che ci afferra, ci trattiene e ci scuote: l'evidenza della realtà, illuminante e atroce, che forse, prima, non avevamo mai avvertito nella sua purezza e nudità implacabili. Paradosso della bellezza, che talvolta può essere sperimentata come beatitudine e, talaltra, come un brivido...
Il percorso dell'arte moderna, soprattutto di quella più contemporanea, ci opprime con suoni e forme distorti, ci mette davanti alla mostruosità, ci avvicina alle lacerazioni di spiriti disperati. Tuttavia, anche attraverso di essa, possiamo avvertire il commovente turbamento della bellezza e, talvolta, dopo un'inquietudine profonda, riusciamo a intravedere certe forme di serenità. Tradimento della bellezza? Forse proprio il contrario: l'intenzione di non offrirla troppo a buon mercato, troppo facile e accessibile, vale a dire, ingannevole. Il romanziere Stendhal disse, con una frase memorabile, che la bellezza è una promessa di felicità. Ma mantenere viva l'aspirazione all'armonia che racchiude questa promessa ci costringe a comprometterci fino in fondo con il male, la menzogna e la negazione della bellezza che impregnano la realtà non ancora riconciliata in cui viviamo. Nella denuncia di ciò che manca, s'intravede, in controluce, la possibilità futura di ciò che potrebbe essere la pienezza. Senza alcun dubbio, il pericolo insito in questo percorso è cadere nel sensazionalismo puro e semplice, o in forme di rappresentazione estetica talmente astruse da richiedere l'ausilio di dissertazioni teoriche per digerire ciò che risulta arbitrario dal punto di vista sensoriale ed emotivo, nonché provocare una contrapposizione radicale fra i prodotti artistici popolari – che il mercato s'incarica di rendere sempre più volgari – e la cosiddetta «grande arte», sempre più riservata a un'élite che può essere formata da veri esperti, ma anche da semplici pedanti.
È reversibile questo percorso? Possiamo auspicare, senza per questo rinunciare a ciò che sappiamo, il ritorno nostalgico a un'armonia perduta, che forse non è mai stata come l'immaginiamo oggi nella nostra inquietudine? Forse ha ragione Giorgione: anche per la bellezza, come per ciascuno di noi, come per tutto ciò che esiste, il tempo passa e si rifiuta di fermarsi e di tornare indietro. Il tempo... ma che cos'è il tempo? Potrebbe ben essere questo il quesito con cui terminare questo viaggio teorico attraverso le domande della vita.

Spunti di riflessione...

Quali sono i due strumenti fondamentali che condizionano socialmente gli esseri umani? Abbiamo forse una biografia diversa da quella tracciata dai nostri piaceri e dai nostri dolori? In che cosa consiste il «piacere», a parte la sensazione fisica? Oltre agli evidenti piaceri che derivano dalle sensazioni e dalla soddisfazione delle necessità fisiche, esistono anche i piaceri della ragione? Possiamo dire che è piacevole non solo ciò che è comodo e utile, ma anche ciò che è «buono»? Che tipo di piacere produce la bellezza e in che cosa si differenzia dagli altri piaceri menzionati? La bellezza è piacevole perché è «utile» e «buona»? Perché Kant disse che l'apprezzamento della bellezza è un «interesse disinteressato»? Qual è la differenza kantiana fra la bellezza «vaga e libera» e la bellezza «aderente»? I valori estetici sono sempre stati radicalmente separati dagli altri valori della vita? Come imposta Santayana la relazione fra il bello e il buono? È possibile apprezzare la bellezza e, nel contempo, diffidare di quella prodotta dagli artisti o disprezzarla? Ci sono casi di grandi artisti che non hanno fiducia nelle opere d'arte? Perché Platone voleva esiliare i poeti e gli altri artisti dalla sua città ideale? Direbbe mai, Platone, che un «buon» artista equivale un artista «buono»? Qual è la differenza platonica fra la funzione educativa dell'artista e quella del filosofo? Quale fu la risposta di Schiller alle tesi platoniche? In che cosa s'assomigliano arte e gioco? L'educazione artistica può favorire la preparazione del cittadino alla libertà politica? Perché chiamiamo «creatori» gli artisti e non gli scienziati? L'artista deve sempre ricercare la bellezza o deve anche rappresentare, a volte, la bruttezza e perfino il male? È esteticamente «brutto» e «cattivo» rappresentare il «brutto» e il «cattivo»? Perché l'arte moderna e quella contemporanea sembrano aver abbandonato il concetto tradizionale di bellezza? In che senso la bellezza può essere una promessa di felicità? In che modo la bellezza ci «trattiene» e che tipo di «brivido» produce?

(da: Le domande della vita, Laterza 2001, pp. 187-206)