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    Giovani e santità, un progetto di vita




    Contemplazione, comunione, missione

    Cesare Bissoli

    (NPG 2005-05-4)


    È con grande commozione che NPG, a pochi giorni dalla morte del Papa dei giovani e dall’elezione di un nuovo Pastore per la Chiesa, offre ai lettori un dossier dal titolo ambizioso ma soprattutto dai contenuti ricchi e significativi.
    “Consegne” ha il timbro di un’eredità, di un lascito, di un “testamento”. Di un ulteriore profondo legame di affetti e di sintonie tra Giovanni Paolo II e i giovani fino ai momenti finali della sua vita (“Vi ho cercato... adesso siete venuti da me”). E nello stesso tempo di un “messaggio” che chiede di essere accolto, reso vita e testimonianza.
    La “storia” di questo dossier è semplice.
    Siamo rimasti colpiti dall’evento che aveva avuto luogo a Loreto nel settembre 2004: l’incontro dei giovani di AC col papa per la beatificazione di alcuni loro membri, tra cui Alberto Marvelli (anche oratoriano ed ex-allievo salesiano). All’Angelus il Papa riassumeva in pochissime parole (ormai già scavate dalla sofferenza) il messaggio che esplicitava l’invito e il richiamo alla santità: richiamo che costituiva non solo l’essenza del Vangelo ma anche il fascino della proposta fatta a tutti (quanti giovani l’avevano sentita – nelle varie GMG, soprattutto di Roma – un programma affascinante e possibile). Abbiamo pensato che valesse la pena riprendere questo messaggio e riproporlo all’interno dell’insegnamento del papa e dello stesso cammino della chiesa (italiana). Provvidenzialmente l’autore ha consegnato questo studio a ridosso di pasqua, che si è rivelata anche settimana santa, passione e pasqua del papa stesso.
    Ci sono alcuni “messaggi” che risuonano e risuoneranno sempre con forza nel cuore dei giovani: “Aprite, spalancate la porta a Cristo”; “Prendete il largo”; “Non abbiate paura”; “È Gesù che cercate quando sognate la felicità...”. Non slogan ma programmi di vita. Pensiamo che anche il trinomio “contemplazione, comunione, missione” come contenuto vivo della santità abbia lo stesso fascino e la stessa forza provocatrice per i giovani e i loro educatori, per la pastorale giovanile. E che i giovani sapranno raccogliere.


    Giovanni Paolo II, domenica 5 settembre 2004, parlava così ai 300.000 giovani di Azione Cattolica radunati nella piana di Montorso (Loreto).

    Carissimi, vi invito a rinnovare il vostro sì e vi affido tre consegne.
    La prima è “contemplazione”: impegnatevi a camminare sulla strada della santità, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, unico Maestro e Salvatore di tutti.
    La seconda consegna è “comunione”: cercate di promuovere la spiritualità dell’unità con i Pastori della Chiesa, con tutti i fratelli di fede e con le altre aggregazioni ecclesiali. Siate fermento di dialogo con tutti gli uomini di buona volontà.
    La terza consegna è “missione”: portate da laici il fermento del Vangelo nelle case e nelle scuole, nei luoghi del lavoro e del tempo libero. Il Vangelo è parola di speranza e di salvezza per il mondo.
    La dolce Madonna di Loreto vi ottenga la fedeltà alla vostra vocazione, la generosità nell’adempimento del dovere quotidiano, l’entusiasmo nel dedicarvi alla missione che la Chiesa vi affida!

    Una proposta disperata o una profezia di futuro?

    È il discorso delle “tre consegne”, che sta entrando nella riflessione della pastorale giovanile (PG) in Italia. Lo testimonia la forte ripercussione nei gruppi di Azione Cattolica e di altri movimenti giovanili: ne stanno facendo il manifesto programmatico del loro cammino di fede e di formazione.
    È anche, lo crediamo fermamente, il messaggio-consegna-testamento del papa dei giovani ai giovani del papa e a tutti i giovani che lo hanno incontrato, lo hanno cercato, ne sono stati cercati, sono rimasti affascinati, interpellati. In una parola, lo hanno amato e ne sono stati riamati.
    “Vi ho cercato, adesso siete venuti da me...”.
    E dentro i contenuti emotivi legati al momento di vicinanza negli ultimi momenti di vita del papa, i giovani ancora una volta avvertono la ragione di fondo di questo legame e la verità della sua voce.
    Anche NPG con questo dossier intende riflettere sulle “tre consegne” (sull’ultima “consegna”), radunandole organicamente nel binomio “giovani e santità”, saldandole così con la consegna-madre risuonata nella magica notte di Tor Vergata, alla GMG di Roma 2000: “Giovani, non abbiate paura di essere i santi del nuovo millennio”. [1]
    Vi è la volontà di volare alto nella proposta di questo dossier, per tre ragioni:
    – perché crediamo che la parola di Cristo, fatta risuonare dal Papa, ha in sé la grazia intrinseca della verità e della potenza del Vangelo, del “non abbiate paura” del Maestro;
    – perché crediamo nei giovani, ci fidiamo di loro, giacché riteniamo, con Giovanni Paolo II (e i Vescovi italiani che a lui si richiamano) che “il Giubileo ci ha offerto una testimonianza di generosa disponibilità. Dobbiamo saper valorizzare quella risposta consolante, investendo quell’entusiasmo come un nuovo ‘talento’ (cf Mt 25,15), che il Signore ci ha messo nelle mani perché lo facciamo fruttificare” (NMI, 40);
    – perché crediamo che il mondo giovanile, rinnovando in certo modo la svolta dei primi tempi cristiani, può apportare ad un mondo in difficoltà un effettivo contributo di cambio nella speranza.
    Ci rendiamo conto di essere sui confini della retorica, ma lo è anche – e di più – quella del political correct che rattrappisce il futuro dei giovani tra Vasco Rossi, internet e qualche School of Economics di America.
    Parliamo di santità giovanile per ribellione, per convinzione, per fede.
    È una corsa verso l’ignoto? Ma proprio su questo, Cristoforo Colombo, Fleming e Madre Teresa fecero scommessa dando all’umanità l’America, la penicillina, un sorriso a morenti sul marciapiede.
    Data la vertigine della proposta, cerchiamo di fare una scalata attrezzata, appellandoci alla Parola di Dio della Bibbia, alla storia, alla vita, ad una pedagogia.

    Di qui la scansione del percorso, che:
    * parte dall’esperienza di Loreto come contesto vitale delle tre consegne: è la STORIA;
    * si addentra nella condizione giovanile, come possibilità di santità: è la VITA;
    * trova ispirazione e motivazione in una storia e in una vita che ha il profilo alto di una Rivelazione di Dio stesso: è la BIBBIA;
    * si fa esperienza visibile e concreta in giovani che hanno scommesso ed hanno vinto: è la TESTIMONIANZA;
    * propone una pedagogia di santità giovanile laicale: sono gli ITINERARI.

    Non pensiamo minimamente di avere ragione, o meglio di avere tutte le ragioni, e siamo convinti che Don Giussani (tanto per onorare un grande educatore dei giovani recentemente scomparso) saprebbe dirlo meglio. Non osiamo, con umiltà e fiducia, che “aprire” il discorso su giovani e santità: non è una proposta disperata, ma può essere una profezia di futuro.

    LA STORIA
    Tutto accadde in quei giorni
    La festa-pellegrinaggio di Loreto 2004

    Per comprendere le “tre consegne” di Giovanni Paolo II occorre fare i conti con una vicenda dai risvolti dolorosi, talora drammatici, ed insieme vitali.

    Un cammino di chiesa

    La comunità cristiana italiana, chiamata dallo stimolo riformatore del Vaticano II a rinnovare profondamente la sua identità, si è trovata subito percorsa dal fervore carismatico di nuovi movimenti, che della identità cristiana intendono essere le espressioni forti e vivaci, con il rischio di porsi come alternativi e diventare conflittuali. Pensiamo, senza darne una valutazione di merito e tanto meno indistinta, a Comunione e Liberazione (CL), ai Neocatecumenali, alle diverse espressioni carismatiche, ai Focolarini, e sullo sfondo, in situazione inevitabilmente differente, all’Azione Cattolica (AC), praticamente il movimento, o meglio associazione di massa, unica esistente fino al Concilio, e in verità giunta al Concilio in termini logori. [2]
    Il grande Convegno ecclesiale di Loreto dell’85 ne fu in certa misura il detonatore pubblico (e chi vi è stato si rese conto della profondità della frattura, per certi aspetti acutizzata dall’intervento dello stesso Giovanni Paolo II), [3] ma determinò il lento processo di maturazione verso la comunione, sicché non è senza senso che ancora a Loreto quasi vent’anni dopo, con la presenza ancora di Giovanni Paolo II, sia avvenuta la composizione delle tensioni, con necessaria ripercussione sul senso delle “tre consegne”.
    Ma qui occorre ricordare gli ulteriori passi compiuti, che arricchiscono la portata delle citate consegne. Non si tratta infatti soltanto della riconciliazione avvenuta tra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione, vi è ben più da considerare. Qui entra in gioco il terzo fattore che in questi vent’anni, proprio a partire da Loreto, su sollecitazione della “Nuova Evangelizzazione” di Giovani Paolo II, ha letteralmente scosso la chiesa in Italia: la missione, o con il linguaggio del documento che riassume il Convegno di Loreto dell’85, “la missionarietà”. [4]
    L’istanza missionaria corrisponde alla natura intima della Chiesa. La Chiesa anche italiana ha avvertito progressivamente questa urgenza di missione, urgente come il respiro, proprio perché il respiro mostra di venir meno. L’essere sempre più in pochi ha fatto comprendere che ciò era dovuto al fatto di essere sempre meno bravi. La minoranza sociologica, acquisita come fatto di scienza e di coscienza, ha aperto le finestre di un ecclesiocentrismo miope, di una pastorale di conservazione legata più ad una automatica socializzazione religiosa che non ad una fede cristiana. I vescovi italiani lo espressero nei nuovi Orientamenti pastorali per l’inizio del 2000: Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), chiamando in certo modo tutta Chiesa a mettersi in stato di catecumenato, di apprendistato cristiano, valido per catecumeni veri e propri, per ragazzi della prima comunione e cresima, per i bisognosi o desiderosi di ri-cominciamento, tra cui si situa oggi la maggior parte dei giovani (n. 59). Del tutto palese in questa direzione è l’ultimo documento della CEI: Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (2004), dove contemplazione, comunione e missione si fanno programma, e i movimenti e comunità sono richiamati a dare un contributo sinergico.
    Ma la missione, che pur fa da spinta decisiva al rinnovamento cristiano, non si sarebbe potuta realizzare autenticamente, cioè superando il rischio del proselitismo e della frammentazione, senza tener conto di una eredità che si era venuta costituendo e da non disperdere. [5] Tale era indubbiamente il fermento suscitato dai movimenti a patto che si realizzasse uno stile di collaborazione entro un profondo e sincero atteggiamento di comunione.
    È quanto interpretò assai bene il segretario generale della CEI, Mons G. Betori, mediando lo storico incontro tra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione al Convegno annuale di CL a Rimini (fine agosto 2004). Disse sostanzialmente quanto dicono gli Orientamenti Pastorali: la missione è vocazione della Chiesa, i movimenti hanno una intrinseca capacità missionaria da valorizzare come dono dello Spirito, è fondamentale uno stile di reciproca fiducia e comunione. A settembre dello stesso anno, nel centenario della propria istituzione, l’AC invitò CL a partecipare all’assemblea di Loreto, segno di una riconciliazione e accettazione del principio di comunione come garanzia di fedeltà all’evento cristiano.

    Le “parole” del papa e l’evento Loreto

    Prima di passare alla considerazione delle parole del papa con le consegne, dobbiamo ricordarne una fin qui non apparsa: la contemplazione. Si impone per sé nella logica astratta delle cose, perché non si può fare missione e comunione senza riferimento al vangelo di Gesù Cristo. Ma nell’attuale congiuntura si trattava ben più di richiamare qualcosa cosa di ovvio, ma di riscoprire Uno che stava diventando progressivamente ignoto. Il grande Giubileo specie fra i giovani aveva messo debitamente in risalto la centralità di Cristo e del suo annuncio. Facendo la lettera-manifesto per l’entrata nel terzo Millennio, Giovanni Paolo II esprime un radicale invito a “ripartire da Cristo”, come “il volto da contemplare” (NMI, cc. II e III). Si giunge così veramente alle radici della missione e comunione della Chiesa, concretamente al punto di convergenza e di inserimento delle tante forze operanti nella Chiesa. È quanto riprendono i Vescovi italiani negli Orientamenti Pastorali, quando l’impegno missionario e lo stile di comunione viene in certo modo anticipato e fondato dalla necessità dello “sguardo fisso su Gesù, l’inviato del Padre” (c. 1) per giungere a tematizzare esplicitamente il valore e ruolo dei movimenti, dell’Azione Cattolica e del più vasto e condiviso ambito ecclesiale che è la parrocchia.
    Manca fin qui il cenno alla santità, ed è giusto richiamarne la presenza. Lo fa il Papa abbinando a Loreto la santità alla prima consegna, la contemplazione, ma resta vero che essa abbraccia per sua natura anche le altre due, anzi tutta la vita cristiana, in quanto la santità non è una componente tra le altre, ma la comprensione qualitativa e globale di ogni altra consegna. Infatti il Papa propone la santità con le parole ormai famose: “La santità è la misura alta della vita cristiana ordinaria: tutta la vita della comunità ecclesiale e delle famiglie cristiane deve portare in questa direzione” (NMI, 31).
    Se dunque la missione fa da obiettivo, e la comunione fa da stile e metodo, la contemplazione e l’ascolto della Parola fa da fondamento. La santità sarà “la misura alta” di questi impegni.
    Le tre qualità più quella di sintesi, o santità, erano pronte a proporsi come consegne efficaci in un contesto storico concreto. E ciò che avvenne appunto a Loreto 2004.
    Averne parlato qui sia pur assai rapidamente significa poter dare patria, radici, senso e consenso alla proposta del Papa. Le sue consegne scaturivano non da chissà quale idea peregrina, ma dalla logica delle cose, ossia dal discernimento di un profilo di Chiesa che stava emergendo e che proprio a Loreto si potè esprimere con un insieme di segni maturati dal processo detto sopra, segni che avevano in sé la grazia di dare storicità, concretezza, plausibilità, accoglienza gioiosa della proposta.
    Si può dire dunque che a Loreto 2004, nelle consegne del Papa confluiva qualcosa di sostanziale e di maturato, per poter crescere con la forza dello stato nascente. È ciò che ratifica Giovanni Paolo II, papa dei giovani, dei movimenti e della comunione, nella grande celebrazione dei 300.000 il 5 settembre. Ricordiamo i segni che fanno l’evento: Loreto, con la profonda rilevanza contemplativa data dal sì di Maria ed insieme come santuario nazionale dei cattolici italiani, fattore di comunione visibile nelle manifestazioni anche sociali e di solidarietà (ad esempio il pellegrinaggio dei malati); l’Azione Cattolica italiana, nel momento possiamo dire di una seconda rinascita, indicata dalla promulgazione dei nuovi Statuti; i Movimenti, segnatamente CL, presenti non soltanto come gesto di omaggio, ma per la costituzione di una rete di comunione e collaborazione di cristiani laici testimoni del Vangelo nella città dell’uomo; la beatificazione di tre membri dell’AC, due laici italiani, Alberto Marvelli di Rimini, Pina Suriano, siciliana, Pedro Tarrés i Claret, spagnolo, prete assistente di AC (ne faremo cenno più avanti: IV tappa: La testimonianza).
    Insomma, come è stata definita, Loreto 2004 fu “una festa-pellegrinaggio” che creava un contesto di alta tensione spirituale, con destinatari diretti anzitutto i giovani, la maggioranza dei presenti, a conclusione di un processo di riconciliazione e in vista del nuovo cammino missionario appena lanciato dalla Chiesa italiana. La venuta del Papa non faceva che dare autorevolezza forte a tutto ciò, destinando le sue brevi parole a programma ufficiale, il programma di santità all’alba del terzo millennio, tramite contemplazione, comunione e missione.
    In questo quadro la parola più forte l’ebbe a dire l’evento in se stesso. Le parole del Papa, brevi ma penetranti, ne furono l’interpretazione autentica, diventando la traccia obbligata per la proposta di santità giovanile.
    Nell’omelia, tre furono i nuclei di pensiero:
    – la centralità di Cristo come scelta esigente, che mette in croce, ma “la croce accettata per amore genera libertà”;
    – da essa scaturisce “attraverso l’evento della beatificazione” l’invito alla santità: “Il dono più grande che potete fare alla Chiesa e al mondo”;
    – santità che assume una gamma di connotati, una santità da laici con le virtù specifiche.
    All’Angelus invece il Papa fece le tre “consegne”: contemplazione, comunione, missione. In prima pagina ne abbiamo dato i contenuti e successivamente la loro genesi pastorale.
    Teniamole presenti come griglia di confronto e di proposta per le parti che seguono.
    Lasciando più avanti l’approfondimento biblico e lo sviluppo operativo, qui ci limitiamo ad evidenziare la mira alta delle parole del Papa, in continuità con la sua peculiare sensibilità carica di fiducia verso i giovani, dalla Lettera ai giovani del 1986, via via lungo le GMG, segnatamente quella di Roma 2000, e nei tanti incontri con i giovani, in Italia e all’estero.
    È tutto un filo rosso di esperienze, intrise di intelligenza e di amore, tra Papa e giovani, che dona consistenza al suo pressante invito alla santità.
    Di fatto la triplice “consegna” non poteva restare la cosa di un giorno, tanto più in quanto resa visibilmente stabile dai tre nuovi beati. Di fatto gli echi furono intensi.
    All’interno dell’AC, a livello diocesano e regionale, i vari gruppi su tale mandato stanno impostando il loro piano pastorale (cf www.azionecattolica.it), così i gruppi scout, ecc.
    Anche la grande Famiglia Salesiana, segnatamente il Movimento Giovanile Salesiano, ha ricevuto dal Rettor Maggiore la consegna della santità (Strenna 2004) (v. più avanti).
    La stessa CEI, per bocca del Presidente, card. C. Ruini, qualche settimana dopo, in Consiglio permanente, affermava che le tre consegne del Papa all’AC sono indicative di un cammino più ampio, che riguarda tutta la Chiesa in Italia e in particolare le varie espressioni del laicato cattolico.
    Di fronte alle dimensioni dei problemi che pongono oggi sia l’evangelizzazione e l’inculturazione della fede sia fenomeni come la globalizzazione, il terrorismo internazionale o, su un versante diverso ma forse ancora più gravido di conseguenze per il futuro, la manipolazione tecnologica del soggetto umano, è indispensabile avere l’intelligenza e il coraggio di “pensare in grande” e di “stare dentro” al divenire della storia, “avendo il Signore Gesù Cristo come saldissimo punto di riferimento e paradigma della nostra vita personale e di ogni rapporto sociale”.
    A questo punto celebrazioni e documenti presentano un compito che non riguarda solo determinati gruppi, ma l’intera chiesa italiana.
    Per questo anche NPG oggi ne parla, con la percezione di sentirsi coinvolta su un tema, quello della santità giovanile, che non le è mai stato estraneo, ma che ora vuol condividere in maniera rinnovata con la sensibilità che le deriva dalla esperienza e riflessione salesiana.
    L’abbiamo chiamata “storia”, questa prima tappa del nostro dossier, con un termine piuttosto largo rispetto ai dati circoscritti, ma con un potenziale certamente ampio se teniamo conto delle parole ancora di Giovanni Paolo II, al chiudersi della “storica” GMG di Tor Vergata, citando santa Caterina: “Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutto il mondo”. È stata in fondo la storia di Francesco, di Don Bosco, di A. Marvelli… Anche quella di Loreto 2004, oggi qualificata “estate dei movimenti”, è storia, perché ha i presupposti di poterlo diventare, in profondità, ampiezza e durata.
    Ma certamente questa “storia” rimanda ora necessariamente alla storia concreta del mondo giovanile.
    Ce la faranno questi giovani?
    Quali sono le loro possibilità di santità?

    LA VITA
    Questi giovani di oggi 2005 hanno possibilità di santità?

    Inutile illudersi sulla bontà delle parole se non giungono a destinazione, cioè se appaiono prive di rilevanza significativa, magari a causa della retorica di cui sono intrise. Una di queste parole potrebbe essere “santità”, ed insieme contemplazione, comunione, missione.
    Cosa possono voler dire? Come vengono recepite? Quali difetti oggettivi (carenza di spiegazione) e soggettivi (pregiudizi, stereotipi) possono impedirne la comprensione?
    Proviamo ad entrare nel mondo di questi giovani. A qualcuno di noi, amareggiato da qualche insuccesso, verrebbe da sbottare dicendo che essi non ti aprono nemmeno la porta quando bussi.
    Ma è proprio così? La fede non può avere motivi di verità efficace, se la sappiamo comunicare? Non vi sarà da scavare non solo nella miniera delle difficoltà e rifiuti, ma anche delle potenzialità positive, veicolate da attese e da consensi? Crediamo che entrambe le miniere vanno esplorate.

    Giovani oggi, luci, ombre

    Disponiamo di saggi numerosi e ben fatti a riguardo della condizione giovanile e del suo rapporto con la visione cristiana della vita (la santità è poi lo sviluppo di tale visione). [6]
    * Da essi si apprende già un primo criterio che aiuta ad inquadrare bene la questione che ci interessa. La proposta di santità è ultimamente una proposta di Vangelo offerto alla persona, dando per scontato che vi siano resistenze, inadempienze, carenze anche gravi. Gesù inizia l’avventura del Regno invitando alla conversione (cf Mc 1,15).
    E d’altra parte egli non si ferma davanti a tali imperfezioni, non dice: “Vi annuncio il Regno se vi convertite”, ma “Ve lo annuncio perché vi convertiate”. L’indicativo di grazia antecede sempre l’imperativo etico o la risposta impegnata.
    * Questo ci spinge ancora più avanti, e ci fa dire che se Gesù annuncia il Regno, nonostante storture di peccato e di rifiuto, è perché l’uomo ha bisogno di sentirsi parlare del Regno, di ciò che può essere contrario di quanto egli vive, ma che sarebbe bello poter possedere, perché l’annuncio di Gesù porta in sé una energia di liberazione, tanto che anche nelle situazioni più disperate si può parlare di una implicita attesa del Padre, come avviene per il giovane figlio del Vangelo. Possiamo dire che una proposta di santità porta ad essere una fine proposta di umanità, cioè di ascolto, rispetto ed amore della persona umana.
    * Sicché una buona analisi della condizione giovanile rispetto ad un programma qualificato di vita cristiana come quello della santità, coniugato nei motivi di contemplazione, comunione e missione, non può lasciarsi intimorire e scoraggiare dall’atteggiamento freddo del soggetto, ed ancora è compito dell’educatore (è il termine corretto per chi fa questo tipo di proposte) saper scavare nella miniera delle difficoltà il filone delle potenzialità, insomma arrivare a stendere un quadro non solo di rischi, ma anche di opportunità nelle situazioni e condizioni oggi influenti il mondo giovanile.
    È il percorso che indica Giovanni Paolo II a giovani nella GMG di Toronto 2002: “I giovani di oggi devono confrontarsi con una cultura che punta all’esaltazione dell’autonomia o al raggiungimento forzato di obiettivi sempre più autoaffermanti; eppure è necessario intravedere anche in questo tempo quei ‘segni evangelici’ che permettono di educare alla santità più che mai possibile e proponibile”.
    È il metodo del discernimento felicemente usato dai Vescovi italiani nei già citati Orientamenti pastorali, partendo da un titolo che fa come da postulato, tanto è garantito dalla fede: “Discernere l’oggi di Dio”. Vediamone brevemente l’analisi in quanto è efficace anche per il mondo dei giovani, che di fatto sono citati sovente (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, nn. 36-43).
    Tra le opportunità o potenzialità vengono ricordate:
    * Il desiderio di autenticità. “I giovani in particolare sono disposti a investire con generosità di energie, ove sentano che davvero quanto stanno facendo ha un senso”.
    * Vivo è anche il desiderio di prossimità, di socialità, di incontro, di solidarietà e di ricerca della pace. Per sanare le debolezze della pura emozione e del gusto soggettivo deve mettersi in atto l’accettazione dell’alterità e il riconoscimento della verità che ci precede e che avrà il volto di Gesù.
    * Potenziale interessante sta nella rinnovata ricerca di senso che porta con sé un anelito alla trascendenza tale da legittimare, anzi desiderare l’esperienza religiosa, in particolare cristiana.
    * Lo sviluppo della scienza e della tecnica, se da una parte espone al rischio della manipolazione e strumentalizzazione dei successi, dall’altra favorisce la valorizzazione del corpo e più latamente il desiderio di una spiritualità, o di un supplemento di interiorità.
    * Si sa infine del potenziale della comunicazione sociale, che ha un grande impatto nel mondo giovanile. Si ha a che fare né più né meno con una nuova cultura dell’uomo e della vita con cui fare i conti. Ma ciò non è per sé contro la comunicazione della fede, anzi può essere un formidabile facilitatore di essa, anzitutto nell’ordine della comunione, se si dispone di una adeguata competenza.
    * Si accenna infine all’accresciuta sensibilità ai temi della salvaguardia del creato, che può portare ad una comprensione di cosmo, di vita, di uomo meno funzionale, più responsabile e più attenta all’evento di creazione e all’esito futuro del mondo.
    Ma vi sono anche rischi e problemi a riguardo proprio della trasmissione della fede:
    * È ricordata la presenza in aumento di “persone che si dicono senza religione”. Nel mondo giovanile si assiste al crescente e preoccupante “analfabetismo religioso delle giovani generazioni, per tanti versi ben disposte e generose, ma spesso non adeguatamente formate all’essenziale dell’esperienza cristiana e ancor meno a una fede capace di farsi cultura e di avere un impatto nella storia” (n. 40).
    * Vi si connettono “una vera e propria eclissi del senso morale”; la caduta delle ideologie totalizzanti e delle grandi utopie di liberazione storica, che poterono affascinare un mondo giovanile degli anni 60-70, lascia spazio al grande orizzonte del nichilismo, vissuto nelle forme di relativismo, indifferenza senso del provvisorio, frammentazione del sapere e delle esperienze, perdita della memoria storica, e dunque della tradizione religiosa, appiattimento sul presente, cui si contrappongono, ma sempre nella linea dell’indebolimento antropologico e spirituale, la costruzione dei miti, del potere, come del successo (n. 43).
    In sintesi un vero e proprio smarrimento. “Oggi aumentano le informazioni e le conoscenze, ma con esse non aumentano affatto automaticamente l’unità della persona e la sapienza della vita, anzi si manifesta sempre più il rischio della scissione interiore tra razionalità, dimensione affettivo-emotiva e vita spirituale”.
    Ritorna opportuno, e proprio in direzione del nostro argomento, il monito che chiude questa diagnosi sull’oggi di Dio nelle nostre vicende: “Senza uno sguardo contemplativo diventa difficile interiorizzare gli eventi, la storia in cui viviamo, fino a discernervi un senso e a farla nostra” (n. 41).
    Un interessante tracciato di lettura sulle possibilità di santità dei giovani (adolescenti) di oggi – alla luce di quanto detto da Giovanni Paolo II alla GMG di Toronto sopra citata – può venire sintetizzato come segue, evidenziando le ambivalenze che emergono da alcuni maggiori fattori di cambio che investono la vita dell’uomo (giovane) nella postmodernità:
    * L’era dell’informazione, con il potere egemonico dei media, pare allontanare ancora di più il linguaggio della fede da quello giovanile, ma offre anche la possibilità di linguaggi nuovi per comunicare la voglia di santità, la bellezza della santità.
    * Il tempo di grande pluralismo (etnico, religioso, linguistico, comportamentale) può ingenerare, se non ostilità, qualunquismo (Pino Daniele in un’intervista diceva che “secondo me la musica è come Dio, tutti ce l’abbiamo dentro e non importa se si chiama Buddha o Gesù o Allah”) e d’altra parte può stimolare un’apertura maggiore alla accoglienza reciproca, a quella fraternità che è costitutivo della santità.
    * L’esaltazione dell’autonomia e del “secondo me”, che incoraggia a decidere da soli fino alla trasgressione, reca il rischio di non accogliere il progetto di Dio sulla propria vita, la propria vocazione, ma anche può maturare una appropriazione più personale e convinta della proposta cristiana.
    * La cultura pragmatica e della sicurezza della tecnica dà l’idea che si possa dimostrare tutto, provare tutto, documentare tutto, con il rischio di sottoporre anche l’ambito della fede e del mistero di Dio alla prova dell’esperienza (magari emotiva, più che razionale). E d’altra parte vi è la giusta istanza che la fede abbraccia la totalità della vita, anche il sentimento, e si traduce in fatti di vangelo.
    Si potrebbero aggiungere altri “dittici” che aiutano a riscoprire nella condizione giovanile vie di annuncio anche laddove appaiono strettoie che paiono vicoli ciechi, mai dimenticando, proprio alla luce del Vangelo, bene interpretato così da Madre Teresa, che “i tempi difficili possono rivelarsi i tempi più evangelici”.

    Una pedagogia per la santità

    Il divario tra la condizione storica e l’invito alla santità ha fatto parlare Giovanni Paolo II, proprio nel momento in cui esplicitava tale invito, di una “pedagogia della santità” (NMI, 31). Più avanti ne sviluppiamo gli aspetti operativi.
    Qui vediamone l’incidenza nella relazione educativa con il mondo dei giovani.
    Già parlare così è cadere nel genericismo, trascurando la notevole differenza, agli effetti pastorali, di proporre la santità e le relative consegne, ad esempio, agli adolescenti tra 14 e 18 anni, e a giovani di età maggiore, a giovani della grande città e di piccoli centri, di ambienti a tradizione ancora cristiana e più secolarizzati. Almeno si tenga conto – ed è una delle principali condizioni per una proposta come la nostra – che i giovani non vanno pensati in batteria, ma come persona, uno ad uno.
    Non consta che Gesù nel Vangelo chiamasse a branchi i discepoli, ma sempre uno per uno, magari con l’indicazione di nome (cf Mc 1,16-20). A mio parere questa relazione tra santità e persona è uno degli elementi fondativi della pedagogia della santità, sia a livello teologico che pedagogico e pastorale. Lo richiama espressamente Giovani Paolo II nel momento in cui invita esplicitamente ad un cammino di santità: “È evidente che i percorsi della santità sono personali ed esigono una vera e propria pedagogia della santità che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone” (NMI, 31).
    Si può anzi, e si deve, dire di più: “I giovani vanno accolti perché giovani. Fiducia e stima per i giovani: scelta unilaterale”. È il modo efficace, quasi provocatorio, con cui D. Sigalini esprime dal punto di vista antropologico e teologico insieme (e noi aggiungeremmo biblico) il punto di vista di chi vuol fare ai giovani una proposta di santità.
    Il riferimento a Giovanni Paolo II è tanto doveroso quanto immediato. È tutta la relazione del Papa con i giovani che fa testo, negli scritti e negli incontri in ogni parte del mondo. Famoso è il già citato invito alla santità nella notte di Tor Vergata: “Giovani, non abbiate paura di essere i santi del nuovo millennio”. Ci limitiamo al suo messaggio alla nominata GMG a Toronto nel 2002: “Io vi dico questa sera: fate risplendere la luce di Cristo nella vostra vita! Non aspettate di avere più anni per avventurarvi sulla via della santità! La santità è sempre giovane, così come eterna è la giovinezza di Dio”.
    Commenta Sigalini: “Alla base c’è una radicale di fiducia nell’uomo, la cui fonte ultima è essenzialmente religiosa... Riguarda in particolare il giovane e si accende nell’incontro con lui: qualunque sia la sua situazione attuale; ci sono in lui risorse che, convenientemente risvegliate, possono far scattare l’energia per costruirsi. Bisogna allora valorizzare tutto ciò che di positivo il giovane porta come storia personale… Quello che da un punto di vista umano, è ‘buono’, etico, sociale e si trova nell’esperienza del giovane, è collegato misteriosamente ad una fede germinale… quello che i giovani possiedono e desiderano legittimamente viene riconosciuto, senza per questo cadere nel giovanilismo o abbassare le esigenze formative. Ne seguono l’apertura a tutti i giovani e l’accoglienza di tutto il giovane. Tutti possono fare un cammino. Si riconosce la presenza operante di Dio nella vita. Il processo di fede dunque, il più delle volte, comincia e in gran parte si svolge nei luoghi dove si sperimenta la vita, piuttosto che in quelli della ‘pratica religiosa’”. [7]
    Ci è caro raccogliere un pensiero solido, perché mille volte provato, di Don Bosco: “Mi basta che siate giovani perché io vi voglia bene”. L’hanno chiamato santo dei giovani, perché si è fatto santo dando ai giovani la spinta ad esserlo con lui e come lui.
    Addentrandoci ancora più dentro il discorso, facendo qui equivalere necessariamente proposta di santità come proposta di fede in Gesù Cristo, non essendo quella che la “misura alta”, intensa e stabile di questa, la pedagogia della santità abbina ed intreccia il rispetto del giovane e il rispetto del Vangelo, il primo come motivato dal secondo, e questo reso duttile e viabile da quello.
    Vengono ad aggiungersi dei preziosi indicatori di marcia che un esperto educatore, Severino Pagani, riassume così: [8]
    – che si tratti di annuncio del Vangelo, nella sua forma radicale, anche materialmente ripreso dal testo dei Vangeli, tale da superare “la religione ecclesiastica tradizionale (che) si configura sostanzialmente con una forma di irrilevanza e di noia”;
    – che tale annuncio sia portatore di una di progettualità capace di tenere conto di fattori largamente incidenti (sopra ne abbiamo accennato ad alcuni), quali l’adolescenza prolungata, l’appartenenza a mondi diversi, il disincanto del mondo (dei valori religiosi e civili), da cui scaturisce la paura del futuro, e dunque lo smarrimento sulla propria identità, sicché “il vangelo deve riuscire ad illuminare quell’asse imprescindibile che passa attraverso l’identità reale dei giovani e il loro futuro”;
    – che sia annuncio e progetto che dia spazio a forme di vita, di cui tre appaiono decisive: esperienze reali di fede, e non solo proclami e dottrina; relazioni significative e presenze perseveranti di adulti educatori e testimoni; comunità giovanili secondo il vangelo in cui si condivide la scelta di fede secondo le qualità di questa a misura giovanile.
    Santità, contemplazione, comunione, missione… da termini diventano semi, che finalmente trovano – alla luce della parabola evangelica – il terreno in cui attecchire e crescere, secondo il realismo di una crescita che è progressiva, ma soprattutto nella certezza che finalmente qualcosa del Regno di Dio cresce nel giovane.
    Vediamo aprirsi motivatamente le tre tappe successive del nostro percorso di santità: la Bibbia per l’autenticità del percorso, i testimoni per la sua credibilità, gli itinerari per la sua effettiva realizzazione.

    LA BIBBIA
    La santità alla sorgente

    Rientra nella pedagogia della santità affermare che il ricorso alla Scrittura non va inteso estrinsecamente, come una fonte autorevole di verità da applicare alla vita, ma come corrispondenza vitale tra l’uomo e il mistero di Dio, di certo reclamata dal giovane stesso, per quella sua “straordinaria disponibilità al vangelo”, cui approda con autorevole e stimolante sicurezza la lettura della condizione giovanile da parte di Giovanni Paolo II.
    Ricordiamo a questo proposito che nel Libro Sacro è la relazione Dio e uomo (popolo), per qualche aspetto, che fa da asse portante e categoria unificante il testo biblico, scritto proprio per mantenere memoria efficace e fare attualizzazione di tale relazione di alleanza, tanto più quanto l’argomento in gioco è importante.
    È stato osservato che il tema della santità, intesa come qualità piena della sequela di Gesù, proprio per la sua intrinseca grandezza divina e umana, stimola a parlare di un genetico, quasi innato, ricercarsi del giovane e di Cristo.
    Chiaramente, attestando l’incontro con il mistero di Dio, la Bibbia coinvolge necessariamente la persona che la legge, provocandola ad una risposta, che si fa entro un processo di maturazione talora faticoso, impegnativo, ma alla fine liberante. Ne faremo una traduzione concreta nella tappa ultima dedicata agli itinerari formativi.
    Intanto cerchiamo di evidenziare quelle qualità che caratterizzano l’invito alla santità, cercando di rilevare la doppia rilevanza teologica e antropologica dei testi, partendo dalla figura stessa del giovane alla luce della Rivelazione.

    La figura del giovane agli occhi di Dio [9]

    La Bibbia appartiene culturalmente ad un mondo patriarcalista, in cui la figura dell’adulto maschio ha una chiara dominanza, entro un contesto familiare (clan) piuttosto rigido, tale che se ad ogni membro era assicurato il diritto della vita e dignità, è anche vero che uno, tanto più se minore, non poteva esprimere la propria individualità se non al tempo socialmente fissato. Anche di Gesù si dice che iniziò la sua missione quando aveva circa trent’anni (Lc 3,23).
    Vuol dire che la Parola di Dio afferma il sacrificio (poco o tanto) della figura del minore? Affatto, con dei segnali viceversa che appaiono ancora più singolari quanto maggiore era ristretto il quadro sociale.
    Appaiono infatti diversi livelli di considerazione del giovane.
    * Già la sua nascita è vista come dono di Dio, segno provvidenziale della benedizione di Dio per il farsi della storia della salvezza. Figure come Isacco (cf Gen 18), Samuele (cf 1Sam 1) e lo stesso Gesù nel vangelo dell’infanzia di Luca, ne sono testimoni eloquenti. Mostrano di avere un valore intrinseco, per il fatto che essi ci sono all’interno del popolo di Dio.
    * Il minore viene poi considerato in quanto segno a suo modo della rottura che Dio fa di ogni privilegio legato all’età e al potere, facendo significativamente la scelta proprio del piccolo rispetto al grande per il compimento dei suoi piani. Tale è la scelta di Giacobbe rispetto a Esaù (cf Gen 25,23), di Giuseppe e Beniamino rispetto agli altri fratelli (cf Gen 37s), di Davide rispetto ad otto robusti fratelli (1 Sam 16), la figura del Messia come bambino (cf Is 7,10s), la accoglienza, protezione e benedizione di Gesù per i bambini (cf Mc 10, 13-16). I piccoli non si annullano nel diventare soltanto metafore di altri pensieri. Ma proprio nel loro essere giovani, immaturi vi è l’ostensione della potenza di Dio. Gesù addita i bambini come figure modello per entrare nel regno di Dio (cf Mc 10,15).
    * In terzo luogo, il minore è prezioso perché è garanzia di futuro e di speranza per il popolo di Dio. Il giovane Samuele rispetto ai figli di Eli (cf 1 Sam 3), il giovane Daniele che più dei malvagi anziani possiede “il dono dell’anzianità” per giudicare rettamente l’innocente Susanna (cf Dan 13,50), i giovani ebrei della diaspora che si vanno formando nelle scuole di Alessandria e ai quali viene destinato il libro della Sapienza, Gesù ragazzo ascoltato dagli scribi nel tempio (cf Lc 2,41-52), i giovani cui Giovanni manda la sua prima lettera dichiarandoli “giovani forti perché avete vinto il maligno e la parola di Dio dimora in voi” (1Gv 2, 12-14)…, ebbene tutto ciò ed altro ancora convalida l’intrinseco valore del mondo giovanile. Per questo nel mondo della Bibbia si insiste assai per una educazione accurata dei giovani esposti dalla sventatezza propria dell’età (cf Prov 13,24; Ef 6,1-4), ma anche, pur con tutto il rispetto per l’età anziana, si afferma che una gioventù virtuosa supera in sensatezza e valore i molti giorni di una vecchiaia disonorata (cf Sap 4,8ss). Rimane icona eloquente l’incontro di Gesù con il giovane ricco da lui visto con amore perché nella condizione di dare una risposta positiva alla sua proposta (cf Mt 19,16-22).
    Tutto ciò dice bene l’apprezzamento di Dio e di Cristo verso questa età.
    In sintesi si può dire che la rivelazione biblica, pur nella rigidità socioculturale del suo contesto, proprio per le eccezioni che introduce, afferma che non l’età biologica o la maturità umana rende l’uomo interlocutore di Dio, ma per il fatto che è persona umana, sia acerba o non acerba la sua età. Né giovanilismo, né adultismo, ma la persona umana con le sue qualità, risorse, limiti vale agli occhi di Dio. Anzi, chi è giudicato immaturo può essere nelle mani di Dio capace di opere, di cambi rilevanti, profetici. Gesù dodicenne ne è una testimonianza eccellente. Si dimostra motivata dunque l’affermazione centrale e tante volte ripetuta di Giovanni Paolo II che “un giovane vale perché è”, a cui si connettono rilevanti risonanze pedagogiche: il valore di segno che ha il giovane nel popolo di Dio, la sua appartenenza di diritto dentro il progetto di Dio con un proprio spazio che corrisponde alla sua vocazione, una propria individualità ed insieme organicità di inserimento, la cura educativa per cui il giovane possa essere ciò che è chiamato ad essere.
    I doni del Signore non conoscono età perché provengono da un Signore che ama ciascuno, con la preferenza semmai degli ultimi, dei poveri e dei piccoli. È fondamentale rifarsi l’occhio alla luce della Bibbia per interiorizzare a fondo quell’a-priori per cui Dio ama e vuole il giovane perché è un giovane su cui Dio ha delle grandi speranze. La proposta del Vangelo della santità ha qui il suo fondamento di garanzia e di originale impegno educativo.

    La santità

    È intesa dalla Bibbia non come un attributo fra gli altri (bontà, onnipotenza…), ma esprime la “misura alta”, la trascendenza di ogni attributo, ciò per cui Dio è Dio, sicché solo Dio è santo, anzi tre volte santo (cf Is 6,3). Il concetto di differenza di Dio dall’uomo, che il termine santità necessariamente comporta, tende a manifestarsi in tutte le religioni in un rigido rituale di separatezza cultuale, ma nella visione biblica assume sempre di più i connotati di perfezione morale in relazione all’uomo. Più precisamente Dio vuole essere santo, diverso, vuole cioè eccellere, per la sua apertura all’amore, secondo uno stile che i profeti e soprattutto Gesù rivelano appieno. Amore fatto di giustizia, di verità, di bontà, di perdono, soprattutto di misericordia.
    La santità di Dio è la perfezione di questo amore. Chiaramente l’uomo è chiamato a corrispondere: “Siate santi perché io sono santo” (cf Lev 11,44-45; 1 Pt 1,15). La santità dell’uomo sarà dunque una manifestazione e irradiazione della santità di Dio. “Sia santificato il tuo nome” (Mt 6,9) è invocazione in duplice direzione: sia che Dio faccia valere la sua santità, sia che essa sia riconosciuta dagli uomini, vivendola allo stesso modo.
    Giovanni Paolo II, nei nn. 30-31 di NMI, traduce questa realtà con la felice espressione di “misura alta della vita cristiana ordinaria”, vale a dire, impegnarsi a vivere la vita quotidiana secondo la perfezione dell’amore, amando sempre di più e sempre meglio alla scuola di Gesù.
    Ne ricava due tratti:
    – diventare santi non è un carisma speciale di qualche anima bella, né un hobby del credente, ma è semplicemente una vocazione di tutti e di ciascun cristiano, perché esiste “una vocazione universale alla santità” (LG c. VI). È la vocazione della Chiesa, in forza della sua “appartenenza” vitale al mistero della santità di Dio uno e Trino;
    – tale vocazione è possibile e doverosa per chi entra a contatto con la santità di Dio e ne viene intimamente contagiato: “Il Battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito”.
    Conseguenze di grandissimo rilievo che ogni operatore deve mettersi davanti:
    * “La santità è un dono di Dio che deve tradursi in un compito: animare dall’interno l’intera esistenza cristiana: Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4,3).
    * “La programmazione pastorale nel segno della santità è un scelta gravida di conseguenze”, non è un lusso per anime pie. Incalza il Papa: “Sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religiosità superficiale”.
    Da cui un’equazione folgorante di: “Vuoi ricevere il Battesimo? Significa al tempo stesso: Vuoi diventare santo?”.
    Possiamo dire che con il discorso sulla santità siamo arrivati a fare chiarezza radicale su ciò che è veramente il contenuto dell’annuncio cristiano, su ciò che va detto al mondo giovanile (e adulto) e realizzato da loro. Meno di questo, è manipolazione, fino al tradimento del Vangelo.
    Domanda: è questa la “misura alta della vita cristiana ordinaria” che fa parte della nostra educazione e pastorale giovanile? Come viene proposta in parole e fatti?

    I passi di concretezza

    Giovanni Paolo II a Loreto fa un’operazione importantissima. Invece di limitarsi a pensieri astratti sulla santità giovanile, indica ai giovani tre operazioni di santità: “contemplazione, comunione, missione”. E le spiega in maniera brevissima.
    * Nella prima tappa abbiamo colto la genesi storica di queste notificazioni, cioè la corrispondenza ai bisogni concreti della Chiesa italiana. Ora vediamone, sia pur concisamente, i contenuti teologico-spirituali alla luce della Bibbia. Nell’ultima tappa ne faremo una traduzione pastorale in itinerari.
    * Tre, anzi quattro sono gli elementi comuni soggiacenti a questi “fattori di santità”: lo stretto rapporto al Maestro Gesù, una esperienza di comunione e collaborazione ecclesiale, una decisa disseminazione del Vangelo come fermento di vita ed insieme come speranza delle persone.
    Il quarto elemento è la figura della Madonna di Loreto, per il suo sì dell’annunciazione, che la rende santa e la prima dei testimoni del Vangelo.
    * Notiamo che il Papa chiama le tre azioni con il nome di “consegne”.
    È un genere letterario conosciuto nella Bibbia. Celebre fra tutte è la consegna di Gesù, molte volte ripetuta, nei discorsi dell’Ultima Cena (di Giuda ai nemici, del Padre al mondo, di Gesù ai discepoli) (Gv 13-17). In precedenza, come suo tipo figurato, viene da ricordare il discorso-consegna di Giacobbe ai figli (Gen 49). Dopo Gesù, noto è il discorso-consegna di Paolo ai presbiteri di Efeso (At 20).
    Tipico di questo genere letterario è la solennità del momento, entro cui si racchiudono veramente le cose essenziali che Dio (Gesù) vuole comunicare. Sono infatti le consegne proprie di chi (Giacobbe, Gesù, Paolo) sta per partire nel lungo viaggio verso l’eternità. Il che viene a dare alle “consegne” una risonanza speciale, vincolante come un testamento. Ed infatti i tre brani biblici sono chiamati rispettivamente testamento di Giacobbe, testamento del Signore, testamento di Paolo.
    In tali discorsi di consegna, si nota un accento proprio dell’ambiente militare. Sono come parole d’ordine, punti fermi, da mantenere a tutti i costi, perché le situazioni di vita possono essere difficili, e nemici pericolosi possono affacciarsi. Così appare in Gesù e in Paolo.
    È anche lo stile scelto da Giovanni Paolo II, che parlando ai giovani non li annoia con lunghi e dotti ammaestramenti, ma li investe con brevi, intense indicazioni di condotta, appunto come una “consegna” di fronte alle difficoltà della vita. Un po’ tutti i messaggi delle GMG, segnatamente a Roma 2000, sono così. In fondo è il tipo di comunicazione proprio di chi si sta per congedarsi e lascia il suo pensiero. Cosa che di fatto avveniva dopo la grande notte di veglia e la eucaristia conclusiva della GMG, quando il Papa ripartiva per il Vaticano. Oggi queste consegne assumono un sapore anche più intenso, quasi come testamento personale ai giovani, del Papa appena deceduto.

    La contemplazione

    Giovanni Paolo II la intende come il punto di riferimento o il timone nel cammino della santità, e lo traduce con “lo sguardo fisso su Gesù, unico Maestro e Salvatore”. Facendone una consegna ai giovani vuol dire che essa corrisponde a bisogni e risorse che sono in loro.
    Il richiamo alla contemplazione si connette al fatto – l’abbiamo accennato –, che Gesù nella società di oggi rischia di essere perso di vista, travisato, superficializzato, edulcorato, segnatamente fra i giovani. Sono dimenticate le radici della fede cristiana: l’incontro con Dio in Gesù Cristo. Ma è anche vero che per dei giovani attuali, è vincente non una teoria su Gesù, ma la percezione anche estetica ed affettiva del suo volto (“lo sguardo fisso su Gesù”) nella duplice qualità di figura storica (maestro) e celeste (signore).
    Nella Bibbia il motivo dello sguardo fisso su Gesù compare espressamente, e quindi fa da fonte alla consegna pontificia (come pure negli orientamenti pastorali della CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, c.1). Conoscerne il contesto è illuminante. Si trova in Eb 3,1. Agli ebrei diventati cristiani, l’autore richiama la necessità di “fissar bene lo sguardo su Gesù”, qualificato come “l’apostolo e il sommo sacerdote della fede”, uno sguardo che è insieme visione biografica e comprensione intelligente, ricca di significato (katanoeo), seguendo Cristo lungo tutto il suo percorso di vita, dalla sua venuta nel mondo, fino alla grande prova della croce e all’entrata vittoriosa nel santuario celeste, artefice di una nuova alleanza (Eb 6-10).
    È notorio che nella Bibbia non si può vedere Dio, bensì ascoltarlo. E lo “sguardo fisso” su Gesù prolunga tale senso: medito ciò che ascolto. Vi sono altri momenti della storia biblica in cui appaiono dei colpi d’occhio che rimarcano questo intenso esercizio contemplativo.
    Uno nell’AT è lo sguardo cui Dio chiama Abramo e gli altri patriarchi a considerare le stelle del cielo quale segno della fecondità della promessa (Gen 15,5); un altro celebre colpo d’occhio è quello che Dio offre a Mosè sul monte Nebo verso la terra promessa (Deut 34); nel NT colpisce lo sguardo di Giovanni quando davanti al Verbo fatto carne esclama estasiato: “Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14); infine ricordiamo lo sguardo drammatico sul Crocifisso: “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37); visione che porta il centurione romano a riconoscere: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc 15,39).
    “Fissare lo sguardo” su Gesù comporta il seguire Gesù, il mettere i passi sui suoi passi, il dovere nostro di introdurre con coraggio parole vere, parole diverse, nel lattiginoso, nebbioso linguaggio del sacro rivolto ai giovani: cristiano è colui che segue Gesù, ne condivide il destino, condividendone prima lo stile di vita, la sua amicizia, il suo impegno, in sintesi la sua santità, secondo le parole stesse di Paolo: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21).
    Concretamente vi rientrano la pratica del Vangelo, l’esercizio di ascolto della Parola, dunque il ritorno alla sorgente della Scrittura. Vi rientra anche l’approfondimento della fede lungo la riflessione teologica e spirituale della Chiesa su Gesù Cristo, facendosi anche capaci di reggere un confronto fra Gesù e la cultura di oggi, i sistemi di significato. Il Papa ne fa una scansione di grande impatto operativo (itinerari) quando propone lo sguardo sul volto del Figlio, volto dolente, volto del Risorto (NMI, c. 2) (v. più avanti nella parte degli “Itinerari”). Si incontrano su questo piano l’esperienza della preghiera, la pratica del silenzio e della interiorità.
    Introdurre alla sequela, di Gesù e a ciò che questa significa, diventa la pietra angolare del percorso della santità giovanile, un Gesù colto nelle tante espressioni con cui Gesù si manifesta all’uomo.
    Anzitutto nella sua pratica dell’amore verso il Padre e verso i discepoli. L’amore fa sintesi del molteplice, del contrario, del difficile.
    Può essere utile, anche perché è un dato concreto, ritenere che in questo richiamo alla contemplazione vi sta dentro una esperienza privilegiata di Giovanni Paolo II.
    Di lui è stato detto che è “un uomo che prega, che guarda gli altri con lo sguardo della preghiera. Veramente, si percepisce che la sua orazione lo aiuta a vedere le persone e gli avvenimenti grandi e piccoli con gli occhi di Dio. Proprio perché ama Cristo, perché ama la Croce, il Papa legge la sua vita con lo sguardo del contemplativo, e capisce ciò che possiamo intuire dei piani divini”.

    La comunione

    È un “operatore di santità” con cui Giovanni Paolo II ad un primo livello, di ordine storico, come abbiamo visto, intende ratificare la “stretta di mano” di riconciliazione e collaborazione fra Azione Cattolica e Comunione e Liberazione, e più ampiamente fra i movimenti stessi. Globalmente e totalmente per comunione intende l’unità tra Pastori, fedeli delle parrocchie, aggregazioni ecclesiali, anzi spinge lo sguardo oltre le frontiere proponendo un “dialogo con tutti gli uomini di buona volontà”.
    Il Papa ha ulteriormente sviluppato il suo pensiero sulla comunione in NMI, con il titolo “Testimoni dell’amore” offrendo i tratti di una “spiritualità di comunione” come via alla santità.
    Essa sgorga dalla contemplazione del mistero di amore di Dio e dilaga fra tutti i discepoli di Gesù costituendo la Chiesa come mistero di comunione nell’amore (koinonia) (nn. 42-43).
    Dalla Bibbia fluisce un profilo di comunione di notevole ricchezza, diventando contenuto obbligato degli itinerari di santità. Richiamiamo i tre livelli di comunione che stano fra loro come cerchi concentrici ed interagenti.
    – Vi è la comunione profonda, trascendente, base esemplare e causativa di ogni altra comunione, che è quella del Cristo con il Padre e lo Spirito Santo, di cui Giovanni è soprattutto il testimone, segnatamente nei discorsi della Cena (Gv 13-17).
    – Vi è la comunione mistica, tanto invisibile quanto reale, della Trinità, tramite il Cristo, con i cristiani, che ne formano addirittura il corpo in misura armonica e bene articolata. Qui eccelle la testimonianza di Paolo, con la sua icona della Chiesa come corpo di Cristo (Rom 12,4-5; 1Cor 12,12s; Ef 4,4-6), ma anche la voce di Giovanni con la icona della vite e dei tralci (Gv 15) ed ancora con la solenne e commossa dossologia di “aver visto, contemplato, toccato il Verbo della vita” (1Gv 1,1.4).
    – Vi è la comunione operativa e visibile dei cristiani vista sgorgare in maniera indissolubile dalla comunione mistica con il Cristo, con il Padre e con lo Spirito: è una comunione pratica fatta di fraternità, di solidarietà, di perdono e riconciliazione, di esperienze di vita comune, dalla Eucaristia, alla preghiera, all’ascolto della Parola apostolica.
    Atti degli Apostoli, a partire dal celebre sommario di 2,42-48, ne è testimonianza storica palpabile, ma anche Paolo scrivendo alle sue comunità fa della comunione il sigillo della presenza di Dio, criterio di verifica (v. lettere ai Corinti). Prima ancora Gesù nel Discorso della Montagna svolge le profonde conseguenze di amore degli uni con gli altri, come fratelli e sorelle, in nome dell’unica paternità di Dio, insistendo in particolare con la pratica del perdono e della riconciliazione (cf Mt 5-7; 18).
    La ricaduta nella prassi, peraltro ben rimarcata a livello biblico, viene da Giovanni Paolo II esemplificata in maniera incisiva e assai concreta.
    “Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come ‘uno che mi appartiene’, per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e propria amicizia.
    Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un ‘dono per me’, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto.
    Spiritualità della comunione è infine saper ‘fare spazio’ al fratello, portando ‘i pesi gli uni degli altri’ (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza e gelosie.
    Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che le sue vie di espressione e di crescita” (NMI, n. 43).
    Non crediamo che questo ordine di idee appaia incomprensibile ai giovani di oggi, pur nelle sue dense motivazioni teologiche e nelle sue pratiche esplicazioni, perché al centro non sta una dottrina, né una norma impersonale, ma il volto dell’altro come “dono per me”. È il mistero della Chiesa, così apparentemente lontano e disertato, che va ricuperato come decisivo fattore di santità. La linea della comunione, e non quella organizzazione, ha in sé la chance di una migliore accoglienza.
    Decisivo sarà risituare tutto nella condizione di ciascun giovane, nella mediazione di linguaggi ed esperienze loro più consonanti.

    La missione

    “Gesù pensa alla comunità in funzione della missione, e non viceversa”, affermano i Vescovi italiani nella Nota, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 8.
    Si può pensare che una certa tensione fra aggregazioni ecclesiali è anche dovuta al ripiegamento autoreferenziale di ogni gruppo, in quanto il proprio carisma e valore non viene considerato per ciò che può servire alla causa comune del Vangelo nella Chiesa, ma per ciò che può dare alla propria identità.
    Giovanni Paolo II nelle “consegne” di Loreto arriva in certo modo al nocciolo della questione, alla prova del nove, proponendo la missionarietà come “operatore di santità”. È nella logica della vocazione universale alla santità propria della Chiesa, richiamata in NMI, saldare insieme contemplazione e comunione con la missione.
    Afferma il Papa nello stesso documento: “Nutrirci della Parola – che è sintesi delle due prime consegne – per essere ‘servi della Parola’ nell’impegno dell’evangelizzazione: questa è sicuramente una priorità per la Chiesa all’inizio del nuovo millennio”.
    E dopo aver accennato al tramonto della “società cristiana” – ma senza farne la ragione fondamentale della missione, bensì un segno dei tempi – mette in risalto i motivi sostanziali e le forme genuine di questa:
    – “Riaccendere in noi lo slancio delle origini, lasciandoci pervadere dalla predicazione apostolica seguita alla Pentecoste”.
    – Questa missionarietà non sarà delegata a specialisti, ma dovrà coinvolgere la responsabilità di tutti i membri della Chiesa.
    – “Occorre un nuovo slancio apostolico che sia vissuto quale impegno quotidiano della comunità e dei gruppi cristiani”.
    – Il Papa poi tramite l’esigenza dell’inculturazione pensa ad un annuncio evangelico per cui abbia a manifestarsi “la bellezza del volto pluriforme della Chiesa”, come è apparsa nel Grande Giubileo (n. 40)
    La Bibbia sulla missione, ossia sull’annuncio della Parola di Dio al mondo, costruisce interamente se stessa. Avendo presenti possibili itinerari giovanili, riportiamo alcuni nuclei tematici più eminenti.
    – È interessante notare che i Vescovi italiani, volendo affermare il valore della contemplazione radicale di Gesù per il rinnovamento profondo della vita cristiana, intitolano il capitolo di apertura del loro documento: “Lo sguardo fisso su Gesù, l’inviato del Padre”, unendo perciò la considerazione della persona di Gesù con la sua identità dinamica di inviato, cioè di missionario, del Padre. E commentano: “Solo seguendo l’itinerario della missione dell’Inviato – dal seno del Padre fino alla glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento e l’umiliazione del Messia –, sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello del Servo, di cui essa stessa è serva” (Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, n. 10). È un criterio di missione che spinge lo sguardo dalle cose da fare, ad un modo di essere, scolpito sull’esistenza storica di Gesù.
    – Gli Atti degli apostoli riferiscono ampiamente come la missione-fa-la Chiesa-che-fa-la missione. Studiarne le coordinate storiche e soprattutto il dinamismo teologico-pastorale è disporre del migliore laboratorio missionario.
    – Proprio di Paolo, con il suo ardente “Guai a me se non predicassi il vangelo!” (1Cor 9,16), testificato in maniera stupefacente lungo tutta la sua vita, è riportare l’attenzione sulla sua persona di missionario, personalizzando oltremodo il servizio, come Gesù e in Gesù, il che vuol dire accettare un totale e personale coinvolgimento ed insieme una prospettiva universale di annuncio, affermando di “essere debitore” del Vangelo a coloro cui lo andava annunciando (cf Rom 1,14).
    L’incidenza pastorale viene dal Papa esplicitata nelle consegne di Loreto, mettendo a fuoco alcuni aspetti ben coinvolgenti:
    – “Portate da laici il fermento del Vangelo nelle case e nelle scuole, nei luoghi del lavoro e del tempo libero”. Si sottolinea la missione come un “fermento di Vangelo”, non discorsi accademici, astratti; di tale fermento sono portatori i laici cristiani come tali, in quel quotidiano giovanile dove ha luogo il cammino di santità: “famiglia, scuola, lavoro, tempo libero”. Si apre l’impegno educativo di spiegare a dei giovani come si riesce ad essere “fermento evangelico” negli ambienti di vita. Il richiamo della testimonianza nella tappa successiva è di grande aiuto.
    – Il Papa invita a ricordare che “il Vangelo è parola di speranza e di salvezza per il mondo”. In NMI (n. 40) specifica che si tratta sempre di una “proposta di Cristo”, non di una imposizione. “Proposer la foi”: i Vescovi francesi ne hanno fatto la parola-chiave per l’annuncio del Vangelo in un mondo altamente secolarizzato come è la Francia (e l’Europa) oggi.
    Vuol dire tre cose:
    * il Vangelo va presentato, dice il Papa, “con fiducia”, per il suo valore intrinseco di Parola di Dio e non anzitutto in forza di una progettualità elaborata a puntino. E questo è un passaggio non sempre facile a contatto con il mondo giovanile: fidarsi della Parola che si porta, non scandalizzandosi né scoraggiandosi degli insuccessi;
    * in secondo luogo qualsiasi comunicazione del Vangelo è autentica quando, come già fu di Gesù, si mostra “parola di speranza e di salvezza, non un insieme di dottrine, ma un’esperienza di liberazione”;
    * in terzo luogo il Vangelo deve poter arrivare a tutti nella loro condizione di vita: agli adulti, alle famiglie, senza mai nascondersi le esigenze più radicali del messaggio evangelico, ma venendo incontro alle esigenze di ciascuno quanto a sensibilità e linguaggio, secondo l’esempio di Paolo, il quale affermava: “Mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22) (NMI, 40).
    “Nel raccomandare tutto questo, penso in particolare alla pastorale giovanile. Proprio per quanto riguarda i giovani..., il Giubileo ci ha offerto una testimonianza di generosa disponibilità. Dobbiamo saper valorizzare quella risposta consolante, investendo quell’entusiasmo come un nuovo ‘talento’ (cf Mt 25,15) che il Signore ci ha messo nelle mani perché lo facciamo fruttificare” (NMI, 40).

    LA TESTIMONIANZA
    “Dai loro frutti li riconoscerete” (Mt 7,16)

    Un amico giornalista del Corriere della Sera, L. Accatoli, ha scritto un libro dal titolo assai espressivo: “Cerco fatti di Vangelo” (SEI, Torino 1995), che si può anche tradurre “cerco il vangelo dei fatti”. Vi è indubbiamente oggi una fame di fatti che dimostrino nella vita di una persona il valore delle cose che dice. Ci si fida poco dei manifesti, finché non sia la stessa vita a diventare manifesto. E questo quanto più con la bocca si dicono valori alti, si fanno promesse di felicità e di salvezza. La caduta delle grandi narrazioni, di cui oggi si parla, si accompagna alla caduta delle grandi ideologie, il marxismo prima di ogni altro, e il sospetto invade ogni ambito dove si propongono valori e verità definitive. Oggi si dice che il mondo dei giovani è scettico sul futuro inteso come progetto per la realizzazione di sé secondo ideali alti. Ciò non è tanto perché non lo si voglia tale, ma perché vi è la sfiducia ingenerata dagli adulti con le loro incoerenze e tradimenti. “Generazioni senza padri”, vuol dire certamente anche generazioni senza persone credibili, testimoni validi.
    Si può pensare al rischio cui è esposto il cristianesimo. È il caso di coscienza dei discepoli di Cristo, dall’inizio della avventura del vangelo nel mondo fino ad oggi.
    Paolo VI ebbe a raccontare che un giorno venne in udienza un diplomatico del Vietnam. Parlarono delle relazioni della Chiesa con il Sudest asiatico nella storia. Si raccontarono i benefici della missione come fattore di umanità e di valori culturali… Dopo un momento di pausa, il diplomatico straniero disse: “Se voi ci manderete un San Francesco Saverio ci convertiremo tutti”. Paolo VI coniò quella frase diventata icona dell’evangelizzazione per ogni tempo e in particolare oggi: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (EN, 41).
    Ci si è chiesti la ragione dello straordinario ascendente di Giovanni Paolo II sul mondo giovanile, e non solo. L’esperienza della Giornate Mondiali è impressionante. Non si può contestare tale aggettivo. Ho fatto Roma 2000 dal di dentro, come organizzatore. Ci siamo chiesti il perché. È troppo poco rifarsi al carisma mediatico del papa. Ci deve essere una sintonia segreta tra i giovani di tutto il mondo e questo prete anziano: vive ciò che dice, e ciò che dice va verso la vita dei ragazzi, non li liscia, dice intera la verità del vangelo, ma nel segno di un profondo rispetto (non li accusa mai!), di una grande stima, e di una solida fiducia nelle loro risorse. Per lui non si tratta di giovani che saranno uomini, ma di uomini che sono giovani, con le risorse della giovinezza, affatto inferiori a quelle degli adulti anche socialmente diversamente impiegate e purtroppo trascurate. Questo grande Vecchio che appare biologicamente e professionalmente agli antipodi della loro vita è colui che meglio di ogni altro sa accendere la speranza dandone le ragioni, le sfide e l’impegno. Proprio a questi giovani egli propone di essere “i santi del nuovo millennio”.
    Il raduno di Loreto 2004, da cui si sono alzate le “consegne” per il cammino di santità, è la controfirma ultima del significato e insieme del valore di quanto stiamo dicendo. Ma questo discorso rimanda a radici e sviluppi ulteriori, in modo da configurare una pedagogia della testimonianza come via nuova, ma così antica, del cammino di santità.

    Il peso dei testimoni

    Il valore teologico intrinseco della testimonianza per la comunicazione della fede non è altro che il prolungamento di quanto sta alle fonti, nella Bibbia stessa, la quale, in quanto primo sacramento della Parola, diventa fondamento genuino e indicazione pregnante per i tempi successivi.
    Nella Bibbia la testimonianza viene indicata non al posto della Parola di Dio, ma come sua eco verace: ne garantisce la verità, anzi ne favorisce la comprensione come un secondo linguaggio, il linguaggio dei fatti, ne costituisce il maggior anello di prolungamento e continuità. Chiaramente la testimonianza è per sua natura legata a delle persone. Esse si pongono di fronte agli eventi di rivelazione come in un dibattito processuale. È l’immagine appropriata che mette a fuoco la situazione esistenziale globale entro cui si pone la testimonianza, per cui hanno ragion d’essere i testimoni e i compiti che loro spettano.
    A due livelli, uno interiore ed uno verso l’esterno

    I due livelli

    La situazione di base è l’alleanza di Dio con il popolo.
    È una relazione così profonda, tale da costituire l’identità del popolo, ed insieme è così singolare in quanto vede Dio compromettersi in prima persona con un giuramento di fedeltà di essere Dio del popolo, il padre e madre che lo porta alla terra promessa, alla salvezza. La relazione porta con sé i doni di Dio e la risposta del popolo nell’osservanza della Legge. Ebbene di tale relazione intima quanto un legame nuziale (Osea) saranno testimoni sia Dio che il popolo, in quanto entrambi provano in prima persona ciò che si affermano reciprocamente, sono inoppugnabili firmatari della relazione. In eventuali casi di inadempienza l’uno potrà accusare l’altro in nome di ciò che ha visto, vissuto, sperimentato.
    Questo è il primo livello della testimonianza, quella che riguarda la relazione con Dio: essa è sostenuta e verificata dalla prova della vita, dalla coscienza personale, in sintesi dai frutti che si producono Dovrebbe essere sempre ricordato che la prima testimonianza del cristiano sta dentro di lui, è di lui a se stesso, la sua coscienza, i suoi atti rispetto al patto concordato.
    Appare nella teologia dell’alleanza (Esodo, Deuteronomio, Gios 24,22), ma anche nell’appello che Gesù fa alle opere, sia a quelle che Lui stesso compie in relazione alla missione (cf Gv, 7, 36), sia a quelle nostre in relazione al Regno di Dio (cf Mt 7,15-20; Gc 3,12). Vuol dire che il cammino di santità, la pratica delle tre “consegne” va sorretta, animata e verificata dalla testimonianza della propria vita, prima che quella degli altri. Paolo nelle sue lettere invita a tener conto del testimonio della coscienza (cf Rom 2,15).
    Ma vi è un secondo livello di testimonianza, il più diffuso e conosciuto, in certo modo garanzia del primo livello (infatti è facile scambiare coscienza con autogiustificazione come il fariseo che esibiva le sue opere come testimonianza della sua rettitudine, e non come pura grazia: cf Lc 18,9-14). È la testimonianza di terzi, chiamata in gioco appellandosi alla solennità del diritto processuale, dove uno ed ancora più due testimoni decidono fra i contendenti, o in termini più generali la testimonianza di altri garantisce la verità di colui di cui si parla. Si tratta evidentemente non soltanto di una deposizione fatta di parole, ma dove le parole poggiano sul convincimento profondo e la credibilità dei testimoni: essi vivono in prima persona ciò di cui attestano.
    Nell’AT ricordiamo i profeti (cf Is 5,1-7). Nel NT abbiamo la molteplice testimonianza che fanno a Gesù il Padre, il Battista, le Scritture (cf Gv 5, 31-40; 8,13-20). Soprattutto, in maggior pertinenza al nostro tema, vanno valutate due forme di testimonianza fra loro intrecciate:
    – Testimonianza del martirio, del dono della vita. È la testimonianza propria di Gesù, esaltato soprattutto nell’Apocalisse, come il “testimone fedele” (Ap 1,5), in quanto fa offerta della sua stessa vita, il suo martirio (cf 1Gv 5,6-9). Al suo seguito i martiri saranno i testimoni per eccellenza (così in Ap 6,9; 12,17; 20,4). Formano già nell’AT la “grande nube di testimoni”, descritti con un realismo da brividi dalla lettera agli Ebrei (cf c. 11).
    – Vi è poi la testimonianza apostolica, di quanti cioè Cristo invia a continuare l’annuncio del Vangelo riproducendo i segni della vita di Gesù, con le parole e le opere, fino al dono se necessario della vita. È quanto Gesù comanda nel suo congedo dalla terra: “Sarete miei testimoni fino agli estremi confini della terra” (At, 1,8).
    Il Discorso missionario di Matteo (c. 10), gli Atti degli Apostoli specie nei cc.1-6, la missione di Paolo sono fulcri vitali di una comprensione biblica della missione su cui impostare un genuino itinerario di santità.
    Si riterranno come dati centrali: il Vangelo si diffonde per annuncio e per testimonianza, per testimonianza dell’annuncio; la testimonianza è fatta da persona a persona o a persone; suppone che il testimone non parli per sentito dire, ma mostri di aver visto, sentito, aver fatto esperienza delle cose di cui testimonia (cf At,1,22; 26,15-18), sia lui stesso, la sua coscienza, testimone a se stesso prima di esserlo di altri; è una testimonianza che si esprime con la vita per cui la coinvolge tutta fino a darla intera, anche in maniera cruenta; i frutti di vangelo autenticano una verace testimonianza di esso: la testimonianza per forza di cose non solo vuole la purezza della coerenza, ma anche il coraggio e l’entusiasmo di realizzarla (parresia).
    Gesù Cristo è il primo testimone, gli apostoli e di discepoli lo continuano.
    La santità è un cammino di testimonianze incrociate: ricevute e date. È venire a sapere, documentarsi, entrare dentro il mondo dei testimoni, camminare insieme, siano di ieri e di oggi, defunti ed ancora viventi, anzitutto riconosciuti dalla Chiesa, ma anche garantiti dalle opere che fanno, siano persone di adulti e se è possibile giovani contemporanei. Non è senza senso che Giovanni Paolo II nello storico incontro di Loreto abbia beatificato tre cristiani, e due di questi sono giovani. Ma prima di giungere a loro, sottolineiamo il percorso di idee che Giovanni Paolo II fa fare al cammino di santità cui chiama la Chiesa nell’avvio al nuovo millennio. In NMI, che abbiamo riconosciuto come il manifesto della santità per il terzo millennio, il Papa chiarisce che “questo ideale di perfezione non va equivocato come se implicasse una sorta di vita straordinaria, praticabile solo da alcuni ‘geni’ della santità. Le vie della santità sono molteplici e adatte alla vocazione di ciascuno”. E aggiunge: “Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, i questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni più ordinarie della vita” (n. 31).

    La schiera dei santi

    Qui si dispiega l’immensa schiera dei santi nella storia. Non sono reperti archeologici come i Bronzi di Riace. Formano la cattedrale viva della Chiesa. È stato detto che il duomo di Milano, popolato di statue di santi in ogni angolo, e analogamente i tanti santi scolpiti o dipinti nelle nostre chiese, fanno da specchio dei santi che camminano per le strade di Milano e delle altre città. Gli uomini e donne di oggi non lo ricordano più e si limitano al lato estetico o semplicemente curioso.
    E invece sono veramente la citata “nube di testimoni” che sostengono il cammino di fede dei cristiani. La Chiesa li raduna nelle litanie dei santi e li convoca ogni volta che Dio con la sua grazia raggiunge i discepoli, per farli cristiani come nel battesimo, per ordinarli preti e vescovi, per consacrarli nella vita religiosa. Nella GMG di Roma, nella grande notte di Tor Vergata avvenne un segno stupendo e forse poco recepito. Nell’assemblea ecclesiale ivi convocata, una volta arrivato il Santo Padre, per il portale della santità, entrarono i santi del cielo raffigurati in grandi stendardi. Erano i santi romani preceduti da Maria, e poi Pietro e Paolo, Lorenzo, Tarcisio, Sebastiano, Filippo Neri, Francesca Romana, Gaspare del Bufalo…, mentre risuonava appassionata l’invocazione. Allora finalmente il Papa potè dire: “Ora ci siamo tutti. Possiamo cominciare”.
    La Chiesa ricorda i suoi santi – e ciò ha una sua rilevanza anche pedagogica – distinguendo come primi i martiri. È rimasta famosa la giornata dei martiri nel Grande Giubileo che il Papa celebrò al Colosseo, dopo aver invitato a rinnovare il martirologio includendo i martiri dei nostri tempi. L’eco di quella commovente giornata sta nelle righe che in NMI Giovanni Paolo II dedica alla terza consegna, quella della missionarietà, che egli auspica “fiduciosa, intraprendente, creativa”, appunto ricordando “l’esempio fulgido dei tanti testimoni della fede”, i martiri anzitutto.
    In essi, scrive il Papa, “la Chiesa ha trovato un seme di vita: Sanguis martyrum–semen Christianorum: questa celebre legge enunciata da Tertulliano si è dimostrata sempre vera alla prova della storia. Non sarà così per il secolo, per il millennio che stiamo iniziando? Eravamo forse troppo abituati a pensare ai martiri in termini un po’ lontani, quasi si trattasse di un categoria del passato… La memoria giubilare ci ha aperto uno scenario sorprendente, mostrandoci il nostro tempo particolarmente ricco di testimoni, che in un modo o nell’altro, hanno saputo vivere il Vangelo in situazioni di ostilità e persecuzione, spesso fino dare la prova suprema del sangue… Con il loro esempio ci hanno additato e quasi spianato la strada del futuro. A noi non resta che metterci, con la grazia di Dio, sulle loro orme” (n. 41).
    Aggiungiamo: a noi educatori spetta realizzare itinerari dotati di informazioni, ma anche di visite e contatti, soprattutto di approfondimento del senso che ha dare la vita per una persona che si ama, e scoprire che noi siamo proprio queste persone amate, per le quali Cristo – e i suoi martiri – si sono immolati. La figura di Massimiliano Kolbe martire di Auschwitz, per chi visita quel luogo infernale, mantiene sempre un forte impatto. Così è per Annalena Tonelli in Somalia, per Suor Dorothy in Amazzonia, per Nicola Calipari in Iraq. Così è per i tanti eroi venuti alla luce nel martirologio del sec. XX. [10]
    Vi è poi la immensa schiera dei santi non strettamente martirizzati con il sangue, ma certamente con l’impegno della vita. Molti possono essere lontani dal mondo giovanile. Altri no.
    In ogni caso molto dipende dal modo di presentarli. Realisticamente, tantissimi santi adulti e del passato paiono dire ben poco ai giovani di oggi. Anche perché sono vittime di una presentazione della santità che non parla, non colpisce, non seduce né inquieta.
    Ricordiamo almeno tra “i santi coinvolgenti” S. Francesco e S. Chiara per la trasparenza della vita che ancora affascina, in particolare nei segni lasciati ad Assisi; Don Bosco e Don Orione per l’attenzione e l’amore prestato ai giovani, in particolare in situazione di difficoltà ed emarginazione; altri santi o servi di Dio di singoli istituzioni (congregazioni religiose, associazioni…) possono essere significativi per i giovani che le frequentano. Figure moderne interessanti il mondo giovanile possono essere Teresa del Bambino Gesù, Charles de Foucauld, presto beatificato, Piergiorgio Frassati, Madre Teresa, ma anche Domenico Savio, Laura Vicuña…, oltre le figure dei martiri citati in precedenza.
    Entro quale prospettiva leggerli e proporli? Contro il disagio di dover parlare dei santi ai giovani per paura della retorica e della irrealtà, R. Tonelli, dopo aver indicato come centrale la prospettiva dell’Incarnazione di Gesù, invita a considerarli come “nostri compagni di viaggio che ci rendono Dio più vicino, perché nella loro umanità brillano più intensamente i segni dell’umanità piena di Gesù”. Si tratterà perciò di accostarli non come figure chiuse in se stesse, ma come persone vive che riflettono l’unico Santo, e dunque secondo una varietà di aspetti, di cui il perno centrale è saperli vedere per quanto di Gesù sanno dire per quello che hanno saputo vivere. “In questo modo non si intromettono tra noi e Cristo, ma stimolano e intercedono perché ciascuno colga la misura, lo stile di santità cui Dio lo chiama”. [11]
    Quanto al metodo di presentazione, riteniamo che la via più efficace sia il laboratorio: per sé ogni santo è un “laboratorio”, ossia non è un fiore spontaneo in un giardino, ma piuttosto un cantiere di costruzione secondo un progetto con delle motivazioni, esperienze anche drammatiche. Ecco, poter approfondire la figura del santo, vederne prossimità e lontananza con il contesto culturale giovanile attuale, lasciarsi coinvolgere in un confronto e mirare ad una personale appropriazione, tutto questo forma il procedimento laboratoriale: il “santo in laboratorio” e noi “nel laboratorio del santo”.

    I giovani santi

    Resta vero che l’incontro con giovani che siano santi, grazie anche al riconoscimento della Chiesa (questo oltre ad essere criterio di buon discernimento può riuscire, tra i giovani, fattore di una migliore persuasione), ha in sé la grazia quanto meno di un avvicinamento migliore. A Loreto 2004 nell’invito alla santità e relative “consegne” il Papa, come abbiamo detto all’inizio, ha proposto tre figure di santi (qui il termine include anche la parola beati): Pedro Tarrés i Claret (1905-1959), medico e prete di Barcellona, impegnato nella Azione Cattolica, Pina Suriano (1915-1950), di Partinico (Sicilia), le cui aspirazioni e gli atti religiosi propri della sua vita, erano motivati proprio dall’essere un membro dell’Azione Cattolica. Ciò spiega, tra l’altro, come abbia potuto, con gli anni, diventare un’esperta della vita e del messaggio di Gesù, della missione della Chiesa e della vocazione degli uomini alla santità.
    Ci soffermiamo di più su Alberto Marvelli (1918-1946). Giovanni Paolo II nell’omelia di beatificazione lo focalizzò così: “Alberto Marvelli, giovane forte, libero, generoso figlio della Chiesa di Rimini e dell’Azione Cattolica, ha concepito tutta la sua breve vita di appena 28 anni come un dono d’amore a Gesù per il bene dei fratelli. ‘Gesù mi ha avvolto con la sua grazia’ scriveva nel suo diario; ‘non vedo più che Lui, non penso più che a Lui’. Alberto aveva fatto dell’Eucaristia quotidiana il centro della sua vita. Nella preghiera cercava ispirazione anche per l’impegno politico, convinto della necessità di vivere pienamente da figli di Dio nella storia, per fare di questa una storia della salvezza”.
    È una sintesi centrata, ma assai concisa. Avendo avuto la fortuna di studiarne la vita, ho avvertito la sensazione di trovarmi di fronte ad una persona giovane che può diventare veramente punto di riferimento per educatori e giovani stessi, costituire “un laboratorio”, entro cui conoscere e riflettere sul cammino di santità che Alberto ha percorso. [12]
    Si possono riportare a quattro i connotati più significativi e a noi prossimi in vista di una proposta giovanile: la passione per Dio, la passione per i giovani, la passione per i poveri, la passione della laicità cristiana.

    * La passione per Dio.
    Leggendo il suo Diario e i commenti dei suoi biografi, si vede indubbiamente in lui qualcosa di raro rispetto alla situazione comune, una sintesi singolare di umanità e di grazia, un cristianesimo nobile, nel migliore senso della parola, in cui si vede una elevatezza dei sentimenti unita alla capacità di essere umile e di servire squisitamente i poveri, una energia del tratto unita alla delicatezza nelle maniere, una purezza di ideali e di costumi, una coraggiosa tenacia di perseguirli, una totalità del dono di sé. Quando si leggono tali pensieri nel suo Diario, ci viene dato di vedere non tanto, o soltanto, Dio dal punto di vista di Alberto, ma di vedere – verrebbe da dire – Alberto dal punto di vista di Dio, che in lui irradiava sprazzi del suo mistero di amore e che Alberto sentiva ed accoglieva con un infinito desiderio di corrispondenza: “Dio è grande, infinitamente grande, infinitamente buono” (a quindici anni, in apertura di Diario, ottobre 1933). “Gesù mi ha avvolto con la sua luce, mi ha circondato, non vedo più che Lui, non penso che a Lui, tutto il mondo sparisce, si resta solo con Lui” (a vent’anni, febbraio 1938). Nell’ambito di questa esperienza che potremmo chiamare mistica nel senso paolino (Paolo non diceva: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”: Gal 2,20?) si congiunge, come effetto e causa insieme, la sua straordinaria e soprattutto fedele dedizione alla preghiera, all’adorazione eucaristica, alla recita del Rosario, ma anche la sua capacità di silenzio e di voler sostare nel silenzio come per fare periodicamente la conversione.
    Un primo importante riscontro applicativo è espresso da un uomo credibile, G. La Pira, a proposito di Alberto: “Mettere sul candelabro questa lampada risponde alle esigenze più pressanti della Chiesa oggi, perché il problema delle nuove generazioni è, oggi, fondamentalmente, quello della loro vita interiore”.
    Qui la santità come misura alta della vita cristiana, contrassegnata da un concreto programma di vita spirituale, traspare nitidamente. Diventa una sfida per noi educatori anzitutto, incoraggiati dalla creatività e costanza di questo giovane, convinti di incontrare in ogni giovane un segno della presenza di Dio o una invocazione della sua venuta.

    * La passione per i giovani.
    Alla passione con Dio si accompagna la passione per i giovani, evidentemente nella lunghezza d’onda della passione stessa di Dio: perché siano salvati, liberi dal male ed amici di Gesù, come lui diceva. La contemplazione tende irresistibilmente all’azione. È l’essenza di quell’apostolato che Alberto visse come intrinseca e irrinunciabile vocazione che ha unificato la sua vita. Vi sono diversi momenti, forme e motivazioni, che viste insieme formano, pur non avendola così chiamata, la sua pedagogia della santità. Alla scuola dell’Oratorio potè bene provare per sé quanto poi egli prolungherà verso gli altri, cioè quella frase di Don Bosco: “Non basta amare i giovani, occorre che si rendano conto di essere amati”. Di qui le mille attenzioni di cura e di ingegnosità organizzativa, nel simbolo della bicicletta, che sta in piedi solo se si muove, e che dona come il tocco fisico del mio interesse per te, tutto mosso dallo stile dell’assistenza, ossia di una presenza che fa crescere attraverso una relazione personalizzata fatta di amicizia, di aiuto, di incoraggiamento, senza lasciare spazio – per stare al concreto – all’ozio della spiaggia. Si può aggiungere a questo punto il richiamo che proviene dal suo impegno, fino alla lotta, per una sessualità casta, portata avanti però non in termini sessuofobi, ma in vista di una piena trasparenza dell’anima attraverso il corpo, ultimamente per “vedere Dio” secondo la beatitudine di Gesù per i “puri di cuore” (Mt 5,8), imparando ad amare la donna della sua vita, Marilena, che pure non ricambiò, con intensità di affetto pari al suo pudore.
    Notiamo un ultimo particolare di Alberto “educatore”: ha operato non nelle classiche strutture formative (collegio, scuola, nemmeno in una sua famiglia che non ebbe), ma per via di associazione libera, quella oratoriana e poi dell’azione cattolica, in maniera quindi più informale, più fragile, più esigente in chi la pratica, ma per questo più convincente specie nell’età dell’adolescenza, e quindi capace di verificare il valore di una persona che esercita tale servizio. Non ultima eredità di Alberto infatti è di riprendere a considerare seriamente le offerte dell’Azione Cattolica per i ragazzi (ACR) e i giovani, rispetto ad ogni altra pur rispettabile organizzazione educativa.

    * La passione per i poveri.
    Un terzo tratto della sua eredità è la passione per i poveri, giovani e non, riprova biblica dell’amore per Dio, ma anche fondamentale fattore di una integrale proposta educativa per i giovani, ed insieme passo privilegiato ed obbligato verso la conquista di quella laicità cristiana che di Alberto è stato un lineamento originale e moderno. Circa la misura senza misura della sua dedizione di cuore, di intelligenza e di mani ai poveri, è piena la sua esistenza, da bambino alla scuola dei genitori, e poi in proprio, dalla vita oratoriana ai difficili momenti dello sfollamento per la guerra e della successiva ricostruzione. La San Vincenzo rimane per certo la sua appartenenza più intima tra le sue appartenenze. Affermava il vescovo Bianchieri: “Per lui andare ai poveri era come andare all’Eucaristia”.
    La coniugazione di questo impegno di carità in certo modo distraente ed estroverso con la vita interiore fu da lui vissuta come il duplice movimento del cuore, di sistole e di diastole, amando Dio negli uomini e amando gli uomini in Dio, secondo lo stile, noi diremmo, di Madre Tersa, ma che è stato anche di La Pira e dei santi della carità, tra cui S. Vincenzo de’ Paoli, Don Bosco…
    Qui ci permettiamo di fare almeno un cenno sul valore sicuramente educante che sta nell’impegno verso i poveri, tramite le mille forme di volontariato. Ma qui va bene compreso ciò che si chiede perché non diventi puro gesto di elemosina. Nella carità di Alberto si fa sempre più evidente un’apertura sociale, in particolare lungo le varie vicende della guerra, dai bombardamenti, alla disfatta, alla ricostruzione, mettendo in atto una carità organica, anzi politica, vivendo a questo scopo, cioè per finalità apostolica, lo dice espressamente lui stesso, anche la militanza nella Democrazia Cristiana delle nuove origini, animata allora da ideali alti di servizio.
    Purtroppo si è come inaridita questa apertura al sociale e al politico nelle giovani generazioni, esposte alla piattezza della produzione consumista, od anche deviate su spiritualismi intimistici di certi movimenti, non certo dell’AC.

    * Nel quotidiano.
    Questo connubio di fede ed azione, Marvelli l’ha vissuto nella concretezza del quotidiano, “in maniche di camicia”, verrebbe da dire, e come effettivamente viene rappresentato da certi dipinti in suo onore, titolato dai suoi biografi con un “Ingegnere manovale della carità”; “Operaio di Cristo”; “Costruttore della città di Dio”; “Una vita di corsa al servizio degli altri”. È stata ampiamente sottolineata la laicità di questo cristiano, vero laico dell’AC, in cui questa si ritrova sostanzialmente. Corrisponde a quanto affermava Peguy: “Costruiamo lo spirituale nelle tende da campo del temporale”. Una spiritualità dell’incarnazione.
    Non sarebbe difficile riscontrare in Alberto la pratica delle” tre consegne”: contemplazione, comunione, missione, in vista della santità.
    Notiamo, in prospettiva educativa, che collegare Alberto con i giovani di oggi non significa solo ricevere da lui insegnamenti da applicare a questi, ma sforzarsi di leggere lui tramite i giovani di oggi, vedere il potenziale che, sollecitato dalle loro domande ed esperienze, Alberto sa sprigionare per i giovani, invitati da lui – ed è una prima lezione – non a copiarlo, ma a reinventarlo camminando nella stessa direzione, scrivendo il proprio Diario dell’anima con la sua sincerità e decisione.
    È un’attualizzazione alta, per chi vi si accinge, ma anche assai contemporanea, valida per i giovani, ma altrettanto ed ancora di più per chi opera con i giovani, per gli educatori. Come annota S. Zavoli, testimone perspicace del nostro tempo, in Marvelli la “trascendenza verso l’alto si è coniugata con una trascendenza verso il basso”, verso la città dell’uomo, dandoci quella santità nell’umano che non fa sconto né per Dio né per l’uomo, ma onora entrambi perché li vede così singolarmente uniti grazie alla capacità di amare ogni persona, i giovani e i poveri in particolare, verrebbe da dire i giovani poveri e i poveri giovani con la concretezza e la purezza di Gesù, a sua volta colto nella grandezza inesauribile del mistero di Dio.

    GLI ITINERARI
    Per una pedagogia di santità giovanile laicale

    Una conversione necessaria: (ri)torniamo a credere nella santità giovanile

    Giovanni Paolo II invita a “scommettere” su una vera e propria sfida: proporre ai giovani di oggi la santità cristiana ha senso e può trovare accoglienza, per la ragione sostanziale:
    – che il Dio di Gesù Cristo è Padre di questo ragazzo e di questa ragazza, magari con piercing ed ombelico al vento;
    – che le apparenze del rifiuto e dell’indifferenza ingannano;
    – che le stesse inevitabili delusioni sono il sale del percorso;
    – che di fatto esistono ragazzi/e che vivono la loro relazione con Gesù Cristo e, in Lui, con la vita, nella misura alta della santità;
    – che, forse o senza forse, Dio vuole che cambiamo i nostri moduli e modelli di santità giovanile, perché sono troppo stretti rispetto al suo amore per i giovani e alla capacità dei giovani di corrispondervi.
    Mi sento di poter dire che la santità riuscita o meno dei giovani diventa specchio della nostra santità di adulti, riuscita o meno, e prima ancora criterio di giudizio della nostra proposta educativa. È stato detto che quando nasce un bambino, Dio non lo vuole mai meno di San Francesco o di Santa Chiara. La mediocrità è colpa nostra, non fatalità inevitabile.
    Nella Chiesa si fa santo chi fa dei santi.
    Abbiamo il coraggio di aprire questa nuova frontiera!

    Una pedagogia della santità tradotta in pratica

    “È però anche evidente – annota Giovanni Paolo II nel suo invito alla santità – che i percorsi della santità sono personali, ed esigono una vera e propria pedagogia della santità, che sia capace di adattarsi ai ritmi delle singole persone. Essa dovrà integrare le ricchezze della proposta rivolta a tutti con le forme tradizionali di aiuto personale e di gruppo, e con forme più recenti offerte nelle associazioni e nei movimenti riconosciuti dalla Chiesa” (NMI, n. 31).
    Si vorrà notare nelle parole del Papa alcuni fattori di fondo che aiutano ad evitare equivoci:
    – Si richiede pedagogia, ossia un processo educativo finalizzato allo scopo, non affidandosi a forme carismatiche, emozionali, ma combinando l’ispirazione dello Spirito con le risorse dell’intelligenza e della volontà. Senza educazione non vi è santificazione, anche se la santificazione non è un mero prodotto della educazione. Palese ed incoraggiante è la testimonianza di Domenico Savio all’oratorio di Torino e di Alberto Marvelli all’oratorio di Rimini.
    – La pedagogia si configura come capacità di adattarsi ai ritmi delle singole persone.
    Appaiono in primo piano due connotati:
    * il cammino di santità si apre a ciascuno in misura irripetibile, non esiste una clonazione di santi, in quanto è il profilo di Cristo realizzato incorporato nel volto del singolo. Se il singolo è diverso, anche la santità sarà diversa. Si può pensare che questo adeguamento ad ogni singola persona intende accreditare la santità giovanile;
    * questo processo di adattamento richiede all’educatore di non costruire calchi in serie, ma di ritagliare il vestito sulla misura di ognuno, come diceva Don Bosco a Domenico Savio. Necessariamente il cammino di santità richiede agli educatori di non limitarsi di dire cose giuste ogni tanto, ma di farsi accompagnatori di ogni ragazzo, uno ad uno. La direzione spirituale, guadagnatasi con l’amicizia ed esercitata con saggezza, è imprescindibile compito.
    – Il Papa parla di “forme tradizionali”, ossia di quei tratti classici della proposta di santità che è data dalla famiglia, dalla comunità parrocchiale, dai gruppi formativi, ma riconosce “forme più recenti” proprie di gruppi e movimenti riconosciuti dalla Chiesa. In primis l’Azione Cattolica.
    Vi è chiaramente l’invito, che è anche monito, di non trascurare la grazia formativa insita a tali aggregazioni, non in nome di se stesse, ma per il fatto che mirano di sua natura a proposte di santità tramite un percorso elaborato, dove è assicurato l’opportuno nutrimento, l’attenzione al singolo, un clima di fervore cristiano, la cura dell’accompagnamento. Pensiamo a movimenti giovanili come la GIFRA (Gioventù Francescana), il MGS (Movimento Giovanile Salesiano), il movimento Pro Sanctitate, CL (Comunione e Liberazione) (come lo ha inteso Don Giussani!), ecc.

    Una metodologia della santità

    La componente pedagogica si traduce in una metodologia della santità che non possiamo toccare, se non per ricordare le seguenti componenti che riteniamo essenziali per la condizione giovanile.
    * Tematizzare l’argomento, farne proposta esplicita, dove vi sia un minimo sufficiente di attenzione ed adesione, quindi progettare i percorsi di santità, insegnare come si fa…
    I giovani possono essere santi, il cristianesimo a loro va proposto né più né meno a livello di santità (“Vuoi ricevere il Battesimo?” significa al tempo stesso: “Vuoi diventare santo?” NMI, 31). Più sotto, è un’occasione sprecata, come del resto appare nel dialogo con il giovane ricco. Costui ha forse rifiutato perché appariva una proposta impossibile? Non crediamo che sia l’unica risposta. Piuttosto emerge la necessità di maturare una scelta di libertà pari al valore alto proposto. Il comando della santità non è una corvée di Dio sull’uomo, ma l’offerta di una dignità che, per essere profondamente umana, liberatrice, va oltre le risorse dell’uomo.
    Vi rientra in concreto l’impegno – per dirla con antiche parole sempre valide – a vivere in grazia di Dio, senza peccato grave, ad incontrare Gesù Cristo (è il cuore e la gioia della santità!) nella Parola, nei sacramenti, segnatamente Eucaristia e Penitenza, e nella carità verso il prossimo più bisognoso. Comporta apprendere la “misura alta della santità” a riguardo della affettività (e sessualità), nell’ambiente di studio e di tempo libero, in relazione alle visioni di vita che invadono la fantasia e il cuore del giovane, in misura seducente, apparentemente più facili, ma pericolosamente alternative. Non si diventa santi senza una qualche misura di eroismo.
    * Amare profondamente ogni giovane, per cui egli avverta di essere stimato ed accolto da un educatore di cui egli ha stima e si fida per la trasparenza, la cordialità, la serenità e la pazienza dei rapporti, che sono poi i segnali della santità che l’educatore vive in se stesso per proporli poi ai suoi giovani amici.
    * Lasciar spazio alla libertà dello Spirito che muove il giovane per sentieri che noi non conosciamo (la vocazione), ed anche rispettare la libertà di maturazione del giovane, evitando ogni forma di fretta, di intransigenza e di plagio. Ciò che il Signore propone non ha scadenze immediate di tempo e di opere, ma semmai stimola maturazione per un sì che sia scelta personale. È nell’incontro di due sì, di Gesù al ragazzo e del ragazzo a Gesù, nel contesto di adulti che hanno detto sì al medesimo Signore, che si sprigiona la scintilla della santità e ne mantiene il fuoco.
    Questi fattori qui disaggregati hanno bisogno di venire elaborati in un progetto, consapevoli che “porre la santità a fondamento della programmazione pastorale non è qualcosa di scarsamente operativo, ed è certamente una scelta gravida di conseguenze”, secondo le parole di Giovanni Paolo II (NMI, 31).
    Diversi sono i modelli proposti, con accenti diversi. Anche NPG se ne è interessata di frequente. Esemplare è la proposta di R. Tonelli, diversamente articolata e illustrata, e di cui è sintesi eccellente il suo libro, Per la vita e la speranza. Un progetto di pastorale giovanile, LAS, Roma 1996. Alla base vi sta la grande eredità educativa di Don Bosco, fatta propria lungo la storia dalla Famiglia salesiana, che Giovanni Paolo II ha rilanciato recentemente così: “Salesiani del terzo millennio! Siate appassionati maestri e guide, santi e formatori di santi, come lo fu S. Giovanni Bosco”. L’invito è stato ripreso in termini nuovi dai Salesiani e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. I tratti essenziali, secondo l’attuale Rettor Maggiore, Don Pascual Chávez, da comprendere nel quadro organico della spiritualità giovanile salesiana, sono: il riconoscimento della presenza di Dio nel quotidiano, nel senso che – grazie al mistero dell’Incarnazione – non vi è bisogno di staccarsi dalla vita ordinaria per cercare il Signore; un atteggiamento di speranza, che fa assumere la vita come un dono, ne sviluppa i suoi aspetti migliori e la vive con gioia; una forte e personale amicizia con il Signore Risorto a cui si conforma la vita; un senso sempre più responsabile e coraggioso di appartenenza alla Chiesa; un impegno concreto ed operoso di bene, secondo le proprie responsabilità sociali e i bisogni materiali e spirituali degli altri, mirando ad un progetto di vita (vocazione); un posto privilegiato alla presenza materna di Maria. [13]
    Noi qui ci interessiamo più direttamente delle tre “consegne” (contemplazione, comunione, missione), in quanto rimangono vettori fondamentali per la santità giovanile oggi.
    La contemplazione propone l’itinerario del volto; la comunione l’itinerario del cuore; la missione l’itinerario degli occhi, delle mani e dei piedi.

    La contemplazione o l’itinerario del volto

    I Vescovi canadesi del Quebec in un documento su giovani e fede affermano che è necessario fare due importanti passaggi: il primo è dal fiume alla sorgente, cioè dall’acqua derivata delle tante informazioni ed esperienze di fede e di vita, inevitabilmente complesse, confuse e non di rado deformate, all’acqua pura del Vangelo; in secondo luogo, occorre fare il passaggio dai corsi ai percorsi, ossia dalle nozioni da trasmettere ad un effettivo cammino da fare insieme con Cristo (e gli educatori).
    Vi è un nuovo mondo simbolico, quello del Vangelo, da riscoprire e ricostruire nell’anima giovanile.
    Oggi molto citata è la cosiddetta icona della samaritana al pozzo, dove la donna e Cristo si chiedono reciprocamente da bere e si danno effettivamente l’acqua che ciascuno sa dare all’altro: la samaritana apre la brocca del cuore che cerca la verità e la pace; il Cristo offre l’acqua viva del suo amore intriso di delicatezza, rispetto, verità, liberazione (Gv 4). Od anche entrano nella prospettiva di un accostamento biblico in chiave di santità altri due incontri di Gesù con elementi giovanili. Ad Andrea e Giovanni che chiedono a Cristo: “Rabbì, dove abiti?, Gesù disse loro: Venite e vedrete. Andarono dunque dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano le quattro circa del pomeriggio” (Gv 1,38-39). Anche al giovane ricco Gesù aprì un vero e proprio cammino di santità con uno sguardo di profonda stima ed amicizia. Ma diverso fu l’esito dell’incontro: “Il giovane, udito questo, se ne andò triste, poiché aveva molte ricchezze” (Mt 19,16-22).
    Penso che dobbiamo assumere con coraggio la decisione di dare ai giovani una reale opportunità di contemplazione, grazie ad esperienze anche forti, per poi diventare fattore di coscienza e stile di vita. Abbiamo forse paura di mettere i giovani nella condizione di un silenzio attivo. Eppure ne sono capaci, quanto meno desiderosi, certamente bisognosi, a patto che l’esperienza sia motivata e ben condotta. A Camaldoli, a Bose, a Taizé, a Loreto, in diversi campi estivi, nella GMG si manifesta bene questa componente “monastica” della vita cristiana. Il rumore permanente è devastante per avvertire la presenza di Dio così silenziosa e discreta.
    Giovanni Paolo II ne determina globalmente il contenuto nella prima consegna, e cioè “tenendo fisso lo sguardo su Gesù, unico Maestro e Salvatore di tutti”. Nella tappa biblica (v. sopra) ne abbiamo delineato i contenuti. Qui riportiamo tre operazioni.

    * Ritrovare il volto di Cristo.
    Significa compiere una esperienza ben definita e che richiede un certo tempo e un certo metodo: chi è Gesù, cosa ha detto, cosa ha fatto, cosa ha rivelato, quale è il suo “mistero”, come si incontra, come egli struttura la nostra vita… In certo modo bisogna mettere tra parentesi quello che già si sa (?) di Dio, della Chiesa, della fede, della vita..., per imparare ad apprenderlo dall’esperienza stessa di Gesù.
    Il Papa nella NMI parla di un “volto da contemplare”, e lo fa da perno della navigazione nel III millennio. In questo modo precisa con forza che si tratta di un “volto”, non di una dottrina: è un tu, non un oggetto, una cosa, è un essere libero ed intelligente. Il volto è quella dimensione dell’altro che aiuta a capire me stesso, e che – secondo la profonda intuizione di Lévinas – mi rende in certo modo responsabile di lui, una volta che fissandolo in certo modo me lo sono appropriato, fatto intimo, come Gesù ebbe a fare – con non buona fortuna – con il giovane ricco.
    Il Papa scandisce questo itinerario contemplativo in tre momenti: “volto del Figlio” nella sua esistenza storica di volto chiaro, sereno ed accogliente; “volto dolente” nel suo dramma di volto sfigurato eppur carico di perdono; “volto del Risorto” nella gloria di volto luminoso, carico di speranza e di gioia (NMI, 24-28).

    * Apprendere ad ascoltare la Parola di Dio.
    La contemplazione del volto di Cristo non avviene in una sorta di silenzio muto, esposto alla sonnolenza ma, come fu nella sua vita, in un dialogo con Lui. Purtroppo ci manca l’alfabeto adeguato per questo discorso. Qui entra in gioco un fattore essenziale della contemplazione: l’ascolto della Parola di Dio. Giovanni Paolo II, seguito dai vescovi italiani, si esprime così: “Non c’è dubbio che questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della Parola di Dio”. E aggiunge: “In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che ci interpella, orienta e plasma l’esistenza” (NMI, 39; Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 49).
    Si apre un capitolo piuttosto inedito della PG a livello dei giovani (adolescenti e ragazzi). Come renderli capaci di incontrare e gustare la Parola di Dio? Il che vuol dire, come renderli protagonisti della storia sacra che Dio vuol realizzare, come in un cantiere, nella loro storia quotidiana? Ciò entra a costituire quel mondo simbolico, essenzialmente biblico, proprio del cristiano, purtroppo lasciato deperire e sostituito da simboliche puramente laiche e intramondane.

    * Vivere momenti stabiliti di adorazione del Signore.
    Sentendo parlare Daniel Ange, il monaco francese fondatore della scuola di preghiera Jeunesse lumière, ai giovani radunati in S. Giovanni in Laterano poco prima di Pasqua, erano percepibili almeno tre dati: la reale possibilità di esperienze di adorazione eucaristica da parte dei giovani; la loro disponibilità sorprendente di parteciparvi; e ovviamente la forte incidenza nella maturazione della loro fede.
    Personalmente ricordo l’esperienza settimanale dell’adorazione dei giovani in S. Agnese in Piazza Navona e in altre cappelle di Roma. La componente educativa che deve entrare in gioco dovrebbe badare a percorsi creativi, dove al fascino del linguaggio dei segni, della parola e del silenzio si impara a collegare strettamente il mistero di Cristo con la vita quotidiana personale, come pure con le vicende del nostro tempo. Alla scuola del Vangelo il “Gesù intimo” (di Marta e Maria, dei discepoli dopo la loro missione: cf Lc 10,38-42; Mc 6, 30-32) rimanda sempre al “Gesù pubblico” (cf Mc 6,33-34), e il “Gesù del cenacolo” deve potersi manifestare come “Gesù della piazza” (cf At 2).

    La comunione o l’itinerario del cuore

    Descrivendo la Chiesa, frère Roger di Taizé scriveva in una delle sue lettere ai giovani: “Cristo è comunione. Non è venuto sulla terra per creare una religione in più, ma per offrire a tutti una comunione in lui. I suoi discepoli sono chiamati ad essere umili fermenti di fiducia e di pace nell’umanità. In quest’unica comunione che è la Chiesa, Dio offre ogni cosa per andare alle sorgenti: il Vangelo, l’Eucaristia, la pace del perdono… E la santità di Cristo non è più irraggiungibile, è presente, si fa nostra”.
    È indubbiamente un nodo tormentoso il rapporto tra giovani occidentali e chiesa. Una recente indagine fra i giovani spagnoli rivelava che la relazione con la Chiesa è a livelli bassissimi, come se questa non avesse più alcuna affidabilità, fosse quasi del tutto screditata ai loro occhi. Esagerazioni? Sì, ma purtroppo anche convinzioni radicate. Alla luce anche della consegna di Loreto sul motivo della comunione, sopra visto, vediamo un triplice percorso da elaborare.

    * Evangelizzare la Chiesa.
    Non basta che la Chiesa evangelizzi, ma mentre dice il Vangelo, deve anche mostrare come si colloca in esso, cioè secondo quel profilo di discepola e sposa, non di padrona, con cui la vedono Gesù, Paolo e tutto il NT. La vedono e la vogliono. È scorretta quella iniziazione anche intensa all’amicizia con Cristo che prescinda e sottovaluti il sacramento che è la Chiesa. È forse uno dei lati drammatici della fioritura catecumenale di oggi. In Francia, dove ogni anno qualche migliaio di adulti prende il battesimo nella notte di Pasqua, un problema delicato è quello dell’inserimento nella comunità locale non di rado inadeguata a questi neofiti. È stato giustamente detto non di attendersi una Chiesa secondo le proprie attese, ma di realizzarla per quanto è possibile secondo il dono ricevuto.
    Un percorso catechistico deve potersi muovere in modo di apprendere la Chiesa nel momento preciso in cui si apprende Gesù e viceversa. La Bibbia, come abbiamo notato, dona i parametri giusti. Sempre stando nel solco della “nuova simbolica” cristiana da ricostituire oggi, ricordiamo l’icona dell’“unico corpo con una sola testa e tante membra” fra loro interagenti e solidali, come pure quella della profonda “unità tra vite e tralci”. È chiaro quanto sia determinante mostrare ed incontrare genuine persone di Chiesa dello stampo di Papa Giovanni, di Marvelli ed altri.

    * Vivere la comunione.
    È lo sbocco necessario del sapere credente: quello dell’esperienza. Così è per la qualità ecclesiale della fede, che non può che essere esperienza di comunione, in quanto in tanti riceviamo lo stesso mistero di amore di Dio. Vi rientrano i sacramenti della Chiesa, anzitutto e principalmente l’Eucaristia.
    L’anno eucaristico indetto dal Papa per il 2005-2006, nei termini con cui viene proposto, dovrebbe portare a rivedere radicalmente la celebrazione delle nostre Eucaristie, segnatamente con i giovani, che non sono contrari alla Messa, ma alle “Messe incolori e insapori”, cui capita di assistere.

    * Essere persone di comunione.
    L’ottica di lettura del Papa quando diede questa consegna era legata alla situazione di disagio intraecclesiale a causa delle tensioni dei movimenti. Per questo dice: “Cercate di promuovere la spiritualità dell’unità con i Pastori della Chiesa, con tutti i fratelli di fede e con le altre aggregazioni ecclesiali. Siate fermento di dialogo con tutti gli uomini di buona volontà”.
    Sopra ne abbiamo fatto l’esegesi. Qui esplicitiamone l’itinerario per qualche aspetto.
    – Vuol dire vivere la proposta cristiana come fraternità, in fraternità, alla scuola, ad esempio, dei Piccoli Fratelli e Sorelle di Charles de Foucauld.
    – Vuol dire mettersi a servizio della propria comunità, del Vescovo, come del proprio parroco, con quella franchezza di parola pari alla volontà di stare alla stanga dei fatti. Ho presente l’impegno per la evangelizzazione e catechesi di tanti giovani. A Roma si va superando in molte comunità il perimetro parrocchiale per lavorare insieme a livello zonale o di prefettura.
    – Vuol dire rompere quel clichè per cui un giovane se è “normale” non appartiene ad un gruppo, ad un movimento strutturato, perché se vi appartiene non sarebbe più capace di essere persona “normale”. Pensiamo al grande impoverimento dei nostri ragazzi ed adolescenti per il fatto che ignorino (siano lasciati ignorare) l’Azione Cattolica, con le tantissime sue risorse formative ed affatto noiose. Analogamente per altre aggregazioni, con lo sforzo semmai di non “ideologizzare” i giovani appartenenti, ma come dice il Papa e si sta realizzando oggi in Italia, aiutandoli a restare aperti al dialogo dentro e fuori della Chiesa, “con tutti gli uomini di buona volontà”.

    La missione o l’itinerario degli occhi, delle mani e dei piedi

    Abbiamo segnalato sopra la centralità e il significato biblico e pastorale di questa terza consegna di Giovanni Paolo II. La traduzione in esercizio concreto è forse tra le più innovative nel mondo dei giovani, in quanto evoca un impegno esplicito e visibile della propria scelta di fede. Si sa come un innato sentimento di ritrosia su questo punto ed insieme l’incombente omologazione verso il basso dell’opinione giovanile, rallentino l’assunzione di responsabilità. Ricordiamo anche qui tre percorsi da svolgere.

    * Evangelizzare la missione.
    Vuol dire configurare un cammino di fede, tanto radicato nella contemplazione e nella reciproca comunione ecclesiale, quanto aperto ad essere vissuto in pubblico e condivisibile con altri. È indispensabile superare il rischio dell’intimismo della fede che un certo modo di comprendere santità, contemplazione e comunione portano con sé, specie in aggregazioni strutturate. Sempre occorre far risaltare l’identità cristiana come vocazione missionaria, come questa sia intrinseca al diventare cristiani nel Battesimo, sicché possiamo prolungare così l’equivalenza suggestiva proposta da Giovanni Paolo II: “Chiedere a un catecumeno: Vuoi ricevere il Battesimo? significa al tempo stesso chiedergli (non solo: Vuoi diventare santo?, ma): Vuoi diventare missionario (proprio per diventare santo)?”.
    Qui si innesta il duplice obiettivo assai pratico: cosa significa ed importi essere testimoni della propria fede; cosa significhi e come rendersi capaci di “rendere conto della speranza che è in noi” (1Pt 3,15). Dobbiamo ammetterlo: sono aspetti rimasti ai margini della proposta cristiana.
    Viceversa è sorprendete quanto consolante la capacità di giovani di testimoniare. Lo si viene a sapere quando, superando il loro grazioso pudore, si esprimono. Lo si ode nel momento delle testimonianze in qualche incontro. Nella nominata assemblea di adorazione a S. Giovanni in Laterano colpirono tre testimonianze: una coppia di fidanzati, Chiara e Eugenio sul senso ed importanza dell’amore di coppia cui si stanno preparando; Raffaella sull’importanza della preghiera nella propria vita dissestata dalla droga e dalla New Age; Manuela sulla scelta di consacrarsi a Dio pur nel rifiuto dei suoi. Ma quanti e quanti esempi si potrebbero portare!
    È di vitale importanza far circolare e far conoscere soprattutto agli adolescenti e ai giovani queste testimonianze. Sappiamo tutti per esperienza, quanto possano aiutarci a dar quel colpo d’ala alla vita cristiana, liberandola dai lacci di una mediocrità insignificante e lanciandola nel mare aperto della vita dello Spirito. Qui è chiamata in ballo la nostra fantasia, la nostra creatività e la
    nostra capacità di saper coinvolgere in questa avventura i giovani: libretti, depliant, recital, canzoni, videocassette…, ma soprattutto persone dal vivo. Tutto può essere utile a questo scopo. Non abbiamo che l’imbarazzo della scelta.

    * Praticare la missione giovanile.
    È un passo avanti rispetto al precedente. Giovanni Paolo II nella sua terza “consegna” lo concretizza così: “Portate da laici il fermento del Vangelo nelle case e nelle scuole, nei luoghi del lavoro e del tempo libero”. È un vero e proprio apprendistato. Concretamente a Roma, ed in altre città, si sta organizzando e praticando una “scuola per missionari”, che significa aiutare dei giovani ad entrare in contatto per una proposta religiosa (di dialogo, di preghiera…) con giovani del quartiere, incontrati a scuola, nei pub, nei campi sportivi e palestre... L’esperienza ha preso un respiro più vasto sulla spiaggia romagnola nell’estate scorsa con il gruppo di Chiara Amirante. Piccoli, difficili, forse labili segnali, ma che danno un senso nuovo alla fede di chi li propone più ancora di quanti lo ricevono.
    Vi sarebbe certamente un’area da coltivare, che rimane così inevasa dalla comunità cristiana: la scuola, il posto dove i giovani ci sono tutti, o quasi, proprio quei giovani che non sono più nella comunità, o quasi. L’insignificanza e irrilevanza della pastorale scolastica merita di diventare un caso di coscienza!

    * Il volontariato giovanile come cammino di santità missionaria.
    Ancora nella terza consegna, per superare il limite di una chiusura intraecclesiastica, il Papa afferma che il Vangelo è parola di speranza e di salvezza per il mondo. Ritrovo un percorso missionario proprio nella scelta del volontariato in quanto è oggi via operativa perché il Vangelo sia “parola di speranza e salvezza per il mondo”. Infatti anche se il volontariato non ha per sé finalità missionaria, il giovane cristiano che lo pratica da cristiano fa certamente passare quell’esperienza di amore gratuito che è il segno più sicuro della venuta del Regno di Dio. Si sa come la carità genuina abbia una potenza di domanda e risposta di ineguagliato valore, proprio nell’ambito della fede. Del resto è stata l’arma vincente di Gesù, è qualità più alta che conserviamo di Lui e che lo rende credibile, e fa credibile e affidabile il volto di Dio anche in situazioni angosciose.
    Giovanni Paolo II a Torino nel 1988 in occasione del Centenario della morte di Don Bosco ebbe a dire ai giovani là riuniti: “Non potete dirvi cristiani se non decidete di mettere parte della vostra vita a fare del volontariato a servizio degli altri”.
    È bello sapere che tanti giovani sono disponibili all’esperienza.
    Uno strumento educativo al volontariato per i giovani è il servizio pubblico che, nella Chiesa, vede la Caritas diocesana, in collaborazione con gli Uffici di pastorale giovanile e oratori, farsi strumento di coordinamento e di gestione, con un’attenzione preferenziale al servizio verso le fasce più deboli della popolazione.
    Vi sono poi movimenti come S. Egidio, il VIS, ecc. che ne fanno ragione di vita. Ma purtroppo gli adolescenti vi sono coinvolti in scarsa misura. Bisognerebbe pensare qualcosa per loro. Rimane poi intero il compito di educare a vivere da cristiani nelle tante forme di volontariato, con o senza etichetta specifica. [14]

    Conclusione

    Ritorno di cuore a quella notte da cui è partito il cammino dei Santi del nuovo millennio e sono decollate le grandi “consegne”. Intendo, quelle poche battute nella fantastica notte di Tor Vergata, che rimarranno nella storia della santità giovanile.
    “Cari amici, vedo in voi le sentinelle del mattino (cf Is 21,11-12) in quest’alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunanze oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri. I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la speranza cristiana, si sono rivelati veri e propri inferni. Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo non vi presterete a essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete a un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti. Cari giovani del secolo che inizia, dicendo ‘sì’ a Cristo, voi direte ‘sì’ ad ogni vostro più nobile ideale. Io prego perché egli regni nei vostri cuori e nell’umanità del nuovo secolo e millennio. Non abbiate paura di affidarvi a Lui. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione”.


    NOTE

    [1] Mi è gradito osservare che nella Famiglia Salesiana, il Rettor Maggiore, Don Pascual Chávez Villaneueva, ha lanciato la santità come la meta e il motore dell’educazione dei giovani alla scuola di Don Bosco (v. più avanti nella parte degli “Itinerari”).
    [2] Cf Favale A., Movimenti ecclesiali contemporanei, LAS, Roma 1991.
    [3] Acerbi A., La Chiesa italiana durante Giovanni Paolo II, in Il Regno, n. 10, 352- 364.
    [4] Cf CEI, La Chiesa in Italia dopo Loreto, Roma 1985.
    [5] Non va dimenticata la grande assemblea dei movimenti nella Pentecoste del 1999 a Roma, in Piazza S. Pietro.
    [6] Ricordiamo che NPG presenta regolarmente studi aggiornati sia di analisi che di interpretazione della condizione giovanile. Anche varie rubriche – da altri punti di vista, meno formalmente sociologici – (Giovani oggi; L’arcipelago della precarietà; Adolescenti oggi, Ragazzi & ragazze) aggiornano le analisi.
    [7] Domenico Sigalini, Animatore: dalla parte delle ragioni della vita, Elledici, Leumann (Torino), 2004, 9-13.
    [8] Giovani d’oggi e disponibilità al vangelo. Paradossi per una nuova possibilità educativa, in “La Rivista del Clero Italiano” 86 (2005) 1, 6-23.
    [9] Cf Bissoli C., Bibbia ed educazione, LAS, Roma 1981, 252-265.
    [10] Cf Riccardi A., Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento, Mondatori, Milano 2000.
    [11] Cf Santi, in “Dizionario di Pastorale Giovanile”, Elledici, Leumann (Torino) 1989, 851. Nel Dizionario sono presentati, con cenni di riflessione pedagogica, Agostino, Alfonso, A.M. Claret, B. Capitanio, Basilio, C. Borromeo, F. Neri, F. di Sales, G. Bosco, G. Crisostomo, GB de la Salle, Girolamo, Gregorio Magno, M.D. Mazzarello, Vincenzo de’ Paoli. Chiaramente il discorso dei santi come testimoni di santità per i giovani va reimpostato in misura pedagogicamente più realistica, ma non per questo in maniera meno stringente ed insieme capace di fascino.
    [12] Cf Bissoli C., Alberto Marvelli, evangelizzatore dei giovani, in N. Valentini-Di Ceglie R., Alberto Marvelli, Fedeltà a Dio e fedeltà alla storia. Attualità carismatica e pedagogica, Messaggero, Padova 2004, 186-202.
    [13] Cf la Strenna annuale del Rettor Maggiore: “Riproponiamo a tutti i giovani con convinzione la gioia e l’impegno della santità come ’misura alta di vita cristiana ordinaria’” (cf NMI 31), Roma 2004. V. anche Atti del Consiglio Generale della Congregazione Salesiana, n. 379, 2002, 20-25.
    [14] La CEI ha censito quegli organismi socio-assistenziali che sono collegati all’istituzione ecclesiastica: sono quasi 11.000 servizi tra residenziali, diurni e domiciliari, riferiti ad anziani, famiglie, giovani e minori, tossicodipendenti. I volontari sono 211900. Cf M. Politi, Il ritorno di Dio. Viaggio tra i cattolici in Italia, Mondadori, Milano 2004.
    Citiamo come utile riferimento informativo, il dossier del Pontificio Consiglio per i Laici, Associazioni internazionali per i fedeli. Repertorio, LEV, Roma 2004.


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