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    Carmine Di Sante

    (NPG 2005-05-53)

    La trama tematica della “Grande Storia”

    La bibbia, oltre a far dono di una particolare visione del mondo, ha prodotto uno straordinario apparato lessicale che ha influenzato e influenza ancora la tradizione ebraico-cristiana e lo stesso occidente. Al fondo di questo apparato lessicale – o architettura semantica – si ritrovano gli stessi nuclei del racconto fondatore (esodo, deserto, monte e terra promessa) e del racconto rifondatore (passione, risurrezione, Spirito Santo e missione o evangelizzazione) che, quali grandi simboli, hanno generato il lessico cristiano e continuamente lo rigenerano in forme e modalità sempre nuove, a seconda delle epoche storiche e dei cambiamenti culturali. È quanto vedremo in questa rubrica dedicata ai grandi temi o nuclei generatori del racconto fondatore e rifondatore.
    Parlando dei grandi temi o nuclei generatori, è necessario innanzitutto cogliere la loro dimensione di simbolo, assunto nell’accezione di Paul Ricoeur (cf soprattutto Il simbolo dà a pensare, Morcelliana, Brescia 2002) per il quale è un segno il cui significante rimanda ad un significato che a sua volta è un significante. Dire che “Israele è uscito dall’Egitto”, esprime certamente il movimento di uscita di un soggetto storico – Israele appunto – da un luogo ad un altro ma, per il racconto biblico, questo movimento è significante esso stesso di altri significati che nel movimento geografico si annunciano allusivamente e che possono essere vari: il passaggio dall’oppressione alla libertà, dalla disperazione alla speranza, dalla sofferenza alla guarigione, dalla solitudine alla comunione, dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia, dalla terra al cielo, ecc.
    La differenza irriducibile tra il simbolo e ogni altro segno linguistico consiste nel fatto che, a differenza del secondo, il primo è portatore di un di più di significato che la ragione non è in grado di determinare, fissandolo in una definizione. È come se, di fronte al simbolo, la ragione, si trovasse spodestata della sua sovranità e della sua pretesa di definire cosa una cosa è e non è, e si cogliesse destinataria di un dono di fronte al quale, da fondativa o argomentativa, fosse costretta, per così dirsi, a scoprirsi ascoltante o obbediente, ragione ermeneutica il cui pensare è pensare un senso che viene da altrove. Di qui il titolo del libretto di Ricoeur, Il simbolo dà a pensare, sia nel senso che è un dono fatto al pensiero e sia nel senso che il pensiero, di fronte al dono fattogli, è chiamato a pensarlo, cioè a tematizzarlo.
    Provenendo da un al di là della ragione, il simbolo non è esauribile dalla ragione, portatore per questo di un più di significato capace di generare sempre nuove parole, nuovi concetti e nuove immagini.


    Il primo simbolo o nucleo generatore della bibbia è l’esodo che, come nessun altro, ha prodotto un campo semantico inesauribile e intrigato.
    Il termine di origine greca vuol dire via di uscita e, se ad un livello letterale indica il processo di liberazione con cui gli ebrei si sono sottratti all’oppressione del faraone e si sono conquistati la libertà dopo la lunga peregrinazione nel deserto, ad un livello più profondo esprime qualsiasi situazione dolorosa da cui si spera di uscire in vista di un futuro percepito come diverso dal presente e positivo. Di qui l’esodo come categoria simbolica per eccellenza che esprime la possibilità di infrangere le situazioni negative e che, per questo, è possibile riprendere e applicare a molteplici realtà che, irriducibili sul piano storico, sono tuttavia accomunate dalla percezione di un male da cui è possibile fuori-uscire. Così per Giosuè l’esodo o nuovo esodo è uscita dal deserto, per entrare finalmente nella terra di Canaan (cf Gs 3, 7-4,18); per il deutero-Isaia è uscita dall’esilio babilonese, al quale Dio metterà fine con prodigi ancora più grandi di quelli compiuti nella traversata del Mar Rosso (cf Is 43, 16ss); per Gesù è uscita da questo mondo al Padre al quale essere fedele fino in fondo con il dono della sua vita sulla croce (cf Gv 13, 1ss, anche se qui formalmente il termine esodo è assente, mentre è presente in Lc 9.31); per Paolo è uscita da comportamenti indegni che creano scandalo nella comunità e danno una cattiva testimonianza di Gesù (cf 1Cor 10ss); per la lettera agli Ebrei è uscita dal potere della morte dal quale ci ha liberati Gesù con la sua morte (cf Eb 3, 14ss); per la tradizione cristiana è uscita dalla colpa e dal peccato, intesi come allontanamento da Dio e tradimento della sua alleanza; per Dante, nella Divina Commedia, è uscita dall’inferno e dal purgatorio per salire in paradiso; per i puritani inglesi che agli inizi del 1600 lasciarono l’Europa e approdarono nel Massachussets è uscita dalla decadenza spirituale delle chiese cristiane europee dalle quali fuggivano per ritrovare altrove, con un nuovo inizio, la purezza delle origini; per gli schiavi neri deportati in America nel 1700 è uscita dall’interiorizzazione della schiavitù, attraverso la scoperta che il Dio dei padroni è contro i padroni e al fianco dei negri; per Marx e il marxismo è uscita dall’alienazione capitalistica che impedisce all’umano il suo pieno dispiegamento; per i sionisti è uscita dall’Europa antisemita che vomitava il suo veleno contro gli ebrei da ghettizzare e sterminare; per la scienza e la tecnologia è uscita dalle leggi della natura che lo limitano o lo inchiodano alla sofferenza; ecc. Per questa sua potenza simbolica, l’esodo è per questo il modello di tutte le rivoluzioni (cf W. Walzer, Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986) e senza di esso sarebbe incomprensibile buona parte della cultura occidentale.
    Ma la liberazione di cui parla il racconto fondatore è paradossale perché non è un’autoliberazione, che nasce al proprio interno, in forza di un progetto, ma un’eteroliberazione, nel senso che viene da un altro, per cui non ci si libera ma si è liberati. Per questo alla categoria della liberazione è da associare necessariamente quella dell’alterità, e il racconto dell’esodo più propriamente è il racconto di quest’alterità che irrompe nella storia di Israele facendole dono di una liberazione impensata e insperata. A questa alterità il racconto dell’esodo dà il nome non-nome di Jhvh, che vuol dire: “Io sono colui che ti sta sempre accanto”, e di lui viene messa in luce soprattutto la sua dimensione di irruzione o evento. I celebri capitoli 12-13 dell’Esodo, noti come istituzione della pasqua, sono la messa in luce di questa dimensione evenemenziale (ciò che appartiene all’ordine dell’evento) attraverso la ripresa e la risignificazione di antichi riti come quello del sangue dell’agnello che, asperso sugli stipiti delle case, si pensava avesse il potere di proteggere dalle forze del male. Rifacendosi a questo rito l’autore ne capovolge però il significato facendo dell’aspersione del sangue sugli stipiti il segno dell’irruzione di Dio nell’accampamento degli ebrei, del suo passaggio (è il significato popolare del termine pasqua) donatore di liberazione a chi viveva sotto l’oppressione: “È la pasqua del Signore! In quella notte io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d’Egitto, uomo o bestia. Così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle vostre case sarà il segno che voi siete dentro: io vedrò il sangue e passerò; non vi sarà per voi flagello di sterminio quando io colpirò il paese d’Egitto. Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne” (Es 11, 11-14).
    Se alterità che irrompe e, nell’irrompere, fa dono di una liberazione impensata e impensabile, il Dio biblico è allora un Dio di condiscendenza il cui tratto specifico, come lui stesso si definisce, è di “osservare la miseria” di chi geme, “udire il grido” di chi piange e “conoscere le sofferenze” di chi patisce (cf Es 3, 7ss).
    Questo tratto di condiscendenza sarà identificato, nella tradizione cristiana, con l’amore e porterà a parlare dell’esodo come il racconto dell’amore di Dio. Operazione linguistica legittima, ma a condizione che si conservi la coscienza che un Dio che non pensa a sé e si preoccupa di chi geme, piange e soffre è un Dio altro da ogni altro dio (si ricordi che il dio dei filosofi greci è un dio che non può pensare se non a se stesso e che per loro sarebbe stato impensabile un dio che ascolta il gemito di qualcuno!) e che l’amore di cui egli è portatore è altro dall’amore di eros o desiderio, in cui, per la filosofia greca, si cela l’essenza stessa dell’umano. Sovvertimento dell’amore di eros, l’amore dischiuso dal racconto fondatore è amore di alterità che liberamente si fa prossimità. Questo amore di alterità, altro dall’amore di desiderio, è chiamato nella bibbia, più coerentemente, agape, proprio per evitare indebiti fraintendimenti.
    Liberazione, alterità, evento, irruzione, rivelazione, amore, condiscendenza, libertà, agape: questi alcuni dei temi più importanti appartenenti al campo semantico del primo nucleo generatore del racconto fondatore, e che potrebbero essere ridetti col termine gratuità intesa come instaurazione, da parte di Dio, di una relazione di amore data gratis, per sua libera iniziativa e per la gioia dell’altro in quanto altro.


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