Perché la
pastorale giovanile
In una stagione come è quella che stiamo vivendo, non posso partire con le proposte se prima non cerco un minimo di accordo sul senso del tema che voglio studiare. Cosa è questa strana realtà che si chiama “pastorale giovanile”?
Molte volte, quando, a chi mi chiede cosa faccio nella mia vita professionale, rispondo che mi interesso di pastorale giovanile, sono guardato con due occhi stupiti... “che roba è la pastorale giovanile?”.
È facile dare una bella definizione di pastorale giovanile e poi dire: io parlo di questo argomento… se non ti piace, cerca altre fonti di studio.
Alla fine del paragrafo dirò qual è la mia convinzione e per quale ragione sostengo che a proposito di giovani, della loro educazione e della stessa educazione alla fede non si può stare a guardare. Ci arrivo con calma, un passo dopo l’altro.
1. Educazione + evangelizzazione
Tutti sono convinti dell’importanza dell’educazione e quasi tutti ne riconoscono la forza trasformatrice e, di conseguenza, la sua capacità di incidere efficacemente sulla radice di molti dei problemi denunciati.
La pastorale giovanile assomiglia molto alla educazione, ne assume compiti e prospettive. Ma non è solo educazione. Essa vuole annunciare che Gesù è il Signore e solo in lui possiamo essere pienamente nella vita e fondati nella speranza. Per questo non può accontentarsi mai di fare anche un ottimo servizio educativo, ma si interroga continuamente sul significato, l’urgenza e le ragioni dell’evangelizzazione.
Se la pastorale giovanile fosse solo un buon metodo educativo, non ci sarebbero tanti dubbi sulla sua importanza. Se però si mette di mezzo anche l’evangelizzazione, spunta subito la domanda che mette in crisi: perché mettersi ad annunciare che Gesù è il Signore… con tutti i problemi seri che abbiamo?
1.1. Una storia che dà da pensare
Per rispondere, voglio andare sul sicuro. È troppo inquietante l’interrogativo per risolverlo con qualche battuta o citando qualche bel documento.
Preferisco un’altra strada. Giro la domanda ai discepoli di Gesù, quelli della prima ora, quel gruppo di gente – che hanno persino accusato di un po’ di fanatismo, quasi avessero bevuto appena alzati (Atti 2, 13) – che ha riempito il mondo del Vangelo di Gesù, finendo i loro giorni di morte violenta a testimonianza delle loro convinzioni.
Quale preoccupazione Gesù ha consegnato ai suoi discepoli, quando li ha sollecitati a percorrere in lungo e in largo il mondo conosciuto, per annunciare la buona notizia del Vangelo e della prossimità del regno di Dio? Per rispondere, mi piace pensare alla storia di Pietro che guarisce lo zoppo alla porta Bella del Tempio. È narrata in Atti 3 e 4. La considero il riferimento obbligatorio per progettare l’evangelizzazione.
«Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta “Bella” a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi, vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: “Guarda verso di noi”. Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!”. E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l’elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto» (Atti 3,1-10).
Letto così, sembra il resoconto di un gesto prodigioso, che finisce tutto lì. E invece è importante continuare la lettura del documento. La riassumo.
Lo zoppo guarito dal racconto della storia di Gesù, grida tanto di gioia che lo fermano per schiamazzi nel recinto sacro del tempio. Quando i sommi sacerdoti vengono a sapere che c’è stato di mezzo Pietro, interrogano lui, per andare alla radice del disordine. Qui viene il bello. Pietro dice: «Sapete perché questo zoppo cammina dritto e sano? Perché tutti sappiano che non possiamo essere vivi se non in quel Gesù che voi avete crocifisso e ucciso e il Padre ha risuscitato da morte».
C’è un riferimento stretto tra la storia di Gesù, la guarigione fisica dello zoppo e la vita piena (anche contro la morte).
Rispetto a quello che conosciamo della prassi di Gesù per la vita, Pietro aggiunge qualcosa di nuovo e di inedito. Non solo guarisce come ha fatto tante volte Gesù, ma racconta anche la storia di Gesù. Al gesto, per la cui realizzazione Gesù spesso ha chiesto la fede in lui e nella potenza del Padre, Pietro aggiunge il racconto della sua fede appassionata nel Crocifisso risorto. Dice, con forza, che solo in questa fede, impegnata a confessarlo ormai come il vivente, è possibile avere pienamente e definitivamente la vita. Il racconto della storia di Gesù nella confessione di fede dei suoi discepoli, l’entusiasmo e la fede che suscita in coloro cui è rivolto, danno la pienezza della vita. C’è un intreccio profondo tra guarigione e confessione che Gesù è il Signore. La guarigione risolve i problemi fisici. La confessione di fede nel Risorto supera le barriere della morte fisica e assicura una pienezza impensabile di vita, nonostante la morte.
I due momenti non sono però slegati. Si richiamano invece reciprocamente. Il gesto che ha ridato vita alle gambe rattrappite dello zoppo, dà forza e serietà alla proposta di Gesù; la decisione che dà pienamente la vita, offerta come dono misterioso e accolta nella fede, va oltre la guarigione: riguarda un gioco di libertà e di amore, un sì ad un mistero di vicinanza. Senza questa decisione di fede nel Signore Gesù non c’è vita piena; nonostante l’eventuale guarigione dalla malattia o la liberazione dall’oppressione resteremo prigionieri della morte, presto o tardi.
Per questo, i discepoli di Gesù si mettono in giro per il mondo a parlare di Gesù e della sua resurrezione. Non lo fanno solo con belle parole. Parlano con i fatti, ma poi moltiplicano le parole che ripetono il racconto della storia di Gesù.
La guarigione dello zoppo e tutti gli altri gesti miracolosi che i discepoli compiono, esprimono, in modo simbolico, che la storia di Gesù, raccontata nella loro fede appassionata, è vera e autentica: non parla solo di vita, ma ne anticipa i segni nel piccolo e nel quotidiano. Quello che conta veramente, quello che il racconto della storia produce più intensamente e misteriosamente (la realtà rispetto al suo segno) è proprio la vittoria della vita sulla morte.
1.2. Evangelizziamo per la vita e la speranza
Il confronto con l’esperienza di Pietro, raccontata dagli Atti, ha sollecitato oggi molte comunità ecclesiali a ricostruire la ragione dell’evangelizzazione e delle altre attività pastorali che l’accompagnano, attorno alla “vita” e alla “speranza”, per realizzare, nelle situazioni e istituzioni concrete in cui viviamo, quella pienezza di vita e quel consolidamento sicuro della speranza che è la grande e definitiva ragione della stessa esistenza di Gesù, come lui stesso ha dichiarato tante volte e senza mezzi termini (Gv. 10, 1-18).
Ci troviamo bombardati da mille continue proposte. Esse riguardano sempre il senso della vita. Persino le cose e i prodotti che sono destinati a risolvere solo problemi strumentali (un fazzoletto per soffiarsi il naso, uno shampoo per lavarsi i capelli, un’automobile per accorciare le distanze…), sono offerti nella prospettiva del senso e della qualità della vita. Si arriva persino ad affermare che senza “queste” cose ne scapita il diritto all’esistenza e al riconoscimento da parte degli altri.
Nello stesso tempo, però, un accordo tacito ridimensiona la forza d’urto di una proposta così invadente: possiamo difenderci… “cambiando canale”, come facciamo quando siamo seduti in poltrona davanti ad una TV accesa. Ciascuno ha il diritto di dire quello che vuole, tanto sa di dire cose che non contano, su cui il consenso è tutto dalla parte dell’interlocutore.
Queste due constatazioni mettono in crisi chi vuole annunciare Gesù il Signore.
Da una parte, infatti, solo quando la proposta offerta nell’evangelizzazione attraversa la ricerca e produzione di senso (e quindi il mondo della soggettività), le viene riconosciuto il diritto all’ascolto. Ci si muove in una logica che va dal significativo alla verifica della verità. Questo cambio di prospettiva mette in crisi la gente che, come capita a molti di noi, è abituata a procedere nella direzione opposta: dalla verità alla sua significatività.
Dall’altra parte, la decisione sta tutta nella soggettività dell’interlocutore. Possiamo dire quello che vogliamo, tanto la scelta di prenderci sul serio o di “cambiare canale” è tutta nelle mani di chi ci ascolta.
Ad una situazione come questa, dobbiamo reagire. La rassegnazione è svuotamento della forza dell’evangelizzazione.
La reazione, però, non può che percorrere le stesse logiche che fanno nascere il problema. Giocata su altre frontiere, non scalfisce per nulla la crisi e le sue ragioni.
Di qui l’esigenza: ricollocare l’evangelizzazione sul piano del senso e restituire ad essa tutta la sua forza provocatoria.
Senso è ragione e fondamento della nostra concreta esistenza, capace di interpretare i singoli avvenimenti e ricondurli ad unità. La sua ricerca è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, ed è tensione verso qualcuno o qualcosa che offra le buone ragioni di ogni decisione e scelte importanti.
Nella ricerca di senso, la persona si mostra disposta a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull’esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita. Nell’avventura del senso, cercato sperato sperimentato, ci fidiamo tanto dell’imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.
2. Una pastorale giovanile per la vita e la speranza
Siamo arrivati ad una prima conclusione. Essa riguarda l’evangelizzazione e, di conseguenza, interessa molto la pastorale giovanile che fa della evangelizzazione una sua componente fondamentale.
Questa è la conclusione: l’evangelizzazione si misura con la ricerca di senso, di vita e di speranza, che attraversa l’esistenza di ogni persona. Quando non riesce a dialogare con queste attese, fa una brutta fine: assomiglia ad un programma televisivo che annoia solamente e contro cui reagiamo cambiando canale o spegnendo l’ascolto.
Questa prima considerazione ne spalanca subito una seconda, di grande importanza.
L’evangelizzazione e, di conseguenza, la pastorale giovanile si interessano decisamente di un problema che è comune a tutte le persone, perché il senso della vita e la speranza sono un affare inquietante per ogni uomo.
La “preoccupazione” della comunità ecclesiale è quindi la stessa che inquieta ogni persona. Su questo drammatico problema la compagnia con tutti è vera e sincera. Essa rifiuta e contesta solo chi invece fa del sopruso, della violenza, dell’ingiustizia… della morte la ragione e il senso della sua presenza (Mc. 9, 38-48). Ha però un dono originale e tutto speciale da offrire: il “nome” di Gesù, unico e definitivo fondamento di salvezza, come dichiara Pietro davanti ai sommi sacerdoti (Atti 4).
2.1. Quale servizio alla vita
Qualcuno si chiede: sono così speciali i giovani da richiedere una pastorale nella loro concreta situazione?
Se pensiamo solo alle tradizioni e alle risorse pastorali di cui dispone la comunità ecclesiale, forse possiamo rispondere dicendo che non sono proprio diversi da tutti gli altri. Se però entriamo, con amore lucido e disponibile, nel loro mondo, possiamo facilmente scoprire quanto attraversa la loro esistenza e come tutto questo sia tanto originale e inedito da esigere progetti e interventi davvero speciali.
Non è difficile infatti raccogliere le sfide che il nostro tempo lancia a chi ama la vita e la vuole piena e abbondante per tutti.
Viviamo, infatti, in una situazione in cui questa vita è in stato di emergenza.
Per molti diventa impresa impossibile vivere una vita, così come il Dio della storia l’ha progettata per gli uomini e le donne che chiama figli suoi.
Molti hanno superato l’emergenza sulla possibilità della vita. Ma si trovano alla ricerca, disperata o rassegnata, di una qualità che la renda vivibile.
Su tutti preme l’ombra della morte: quella quotidiana, che ci accompagna come un nemico invisibile e pervasivo, e quella violenta e conclusiva, che sembra bruciare ogni progetto. Non sappiamo più bene dove radicare la nostra speranza.
Sul problema della vita, del suo senso e di quell’insuperabile minaccia alla vita che è la morte, la fede cristiana è chiamata a misurarsi. Continuare l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli significa, in concreto, annunciare il Vangelo dentro questi problemi, con la preoccupazione che questo annuncio risuoni veramente come «bella notizia».
Due sono di conseguenza i compiti di un progetto di pastorale giovanile, impegnato per la vita e la speranza.
Da una parte, esso si preoccupa perché cresca in ogni giovane la ricerca di ragioni per vivere e per sperare. Impariamo a vivere a braccia alzate, nella trepida ricerca di due braccia robuste, capaci di afferrare la nostra fame di vita e di felicità. La comunità ecclesiale incoraggia e sollecita questo atteggiamento esistenziale. Lo sostiene con i giovani che lo stanno spontaneamente sperimentando; lo scatena in quelli che hanno rimosso ogni confronto con la morte, da buoni figli di questa nostra cultura, e non si pongono più alcun problema di senso.
Dall’altra, la comunità ecclesiale ripensa al Vangelo per restituirgli la forza di salvezza «dentro» e «per» la vita quotidiana.
Il primo compito è abbastanza facile. Viviamo infatti in una stagione culturale in cui è forte la consapevolezza dei tanti problemi che attraversano l’esistenza, anche se sono diversi i modi in cui si esprime questa drammatica emergenza.
Il secondo è molto più impegnativo. Una lunga tradizione teologica e pastorale sembra stranamente spingere in direzioni diverse. Diventa urgente, per realizzare correttamente i compiti della pastorale giovanile, riscoprire l’esperienza di Gesù e dei suoi discepoli. L’annuncio non è mai un vuoto gioco di parole, verificato sui parametri della congruenza formale tra soggetto e predicato. I fatti sono la prima e più eloquente parola. Le parole della verità interpretano i fatti.
La comunità ecclesiale annuncia Gesù di Nazareth con forza e con coraggio, facendo camminare gli zoppi e restituendo la vista ai ciechi. Essa fa un annuncio, che è di senso e di speranza contro la morte. Le parole che dice sono la vita che torna nelle gambe rattrappite del povero paralitico e negli occhi spenti del cieco dalla nascita. Essa ricorda che Gesù è il Signore e non c’è altro nome in cui essere pieni di vita, restituendo la possibilità di essere nella vita a tutti coloro che ne sono stati deprivati.
Lo fa con tanta competenza e serietà, perché si riconosce «serva» di esigenze impegnative come sono quelle della vita, da essere sollecitata a rendere concreto e differenziato il suo servizio. Per questo chiama per nome le diverse situazioni di morte contro cui intende lottare e cerca uno stile di presenza, diversificato in rapporto a queste concrete situazioni.
Per questo “evangelizza”: dice forte, a fatti e a parole, che possiamo essere nella vita e restare radicati nella speranza solo se accettiamo di consegnare la nostra esistenza al mistero di Dio nel progetto di Gesù e c'impegniamo a vivere la nostra stessa esistenza e a costruire strutture di servizio nella logica di questo stesso progetto. Certo, la potenza di Dio in Gesù è all’opera molto più radicalmente ed efficacemente del livello di consapevolezza riflessa che possediamo e non è prigioniera nei confini ecclesiali. L’amore alla vita spinge la comunità ecclesiale ad allargare progressivamente questa consapevolezza, perché chi riconosce il mistero in cui è avvolto e vive può operare per la vita sua e degli altri in modo più autentico e più efficace. Evangelizza non per fare dei proseliti ma per offrire la ragione e l’esperienza più forte del dono di vita di cui è segno e inizio.
2.2. Una specie di definizione
Chi cerca una definizione da ripetere per fare un poco di ordine, adesso la può finalmente trovare... soprattutto se riesce ad organizzare, in modo personale, i frammenti che ho messo sul tavolo.
Per me, pastorale giovanile è l’insieme delle azioni che la comunità ecclesiale fa, sotto la guida potente dello Spirito di Gesù, per dare pienezza di vita e speranza a tutti i giovani. La loro domanda di vita e il loro desiderio di speranza sono la “carne concreta e quotidiana” (quasi continuando l’esperienza di Gesù, Dio con noi nella grazia della sua umanità) in cui la comunità ecclesiale pensa progetta agisce, annuncia e celebra, costruisce e fa sperimentare l’amore di Dio per tutti e la sua passione per la vita di tutti. Si pone continuamente una domanda su cui concentra risorse e fatiche: quali sono i problemi su cui misurare oggi l’annuncio del Vangelo, per gridare, con la stessa forza di Pietro, «Gesù Cristo, e nessun altro, può darci la salvezza: infatti non esiste altro uomo al mondo al quale Dio abbia dato il potere di salvarci» (Atti 4,12)?
La pastorale è una sola: il servizio alla vita in Gesù, il Signore della vita, l’unico nome in cui possiamo avere vita. Essa si diversifica nelle differenti realizzazioni pastorali, perché si incarna in situazioni diverse e concrete. Diventa pastorale giovanile quando il servizio alla vita in Gesù si realizza nel mondo dei giovani.