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    Dimensione e modalità di un piano d'azione (cap. 2 di: Itinerari per l'educazione dei giovani alla fede)


    2. Dimensione e modalità di un piano d'azione

     

    Il secondo capitolo studia gli elementi generalmente valutati importanti per ogni programmazione educativa e pastorale, e suggerisce una loro concreta organizzazione.
    Al termine del capitolo il lettore:
    - conosce quali sono gli elementi di ogni buona programmazione e possiede una comprensione seria del loro contenuto specifico, per poter utilizzare correttamente formule come «obiettivo», «situazione», «metodo», «valutazione»;
    - è impegnato a cercare un'alternativa alle procedure deduttive e a quelle induttive, perché ne riconosce i limiti;
    - sa utilizzare, secondo un modello abbastanza ricorrente, le formule «ideario», «progetto», «programmazione»;
    - ha qualche idea più chiara (almeno dal punto di vista formale) circa la formula posta al centro del libro: itinerario.


    Il capitolo precedente ha precisato il quadro di riferimento teologico- pastorale della mia ricerca. La cosa era urgente e importante perché in un tempo di pluralismo non possiamo certamente dare per scontato il consenso generalizzato sugli orientamenti di fondo.
    Con queste indicazioni alle spalle, finalmente posso incominciare a parlare di progetti e di itinerari.
    Secondo la buona tradizione della logica, prima di tutto suggerisco una spiegazione dei termini coinvolti in ogni piano d'azione. Lo faccio a due livelli: prima parlo degli elementi comuni ad ogni progettazione (obiettivo, situazione, metodo, valutazione) e poi del modo con cui possono essere organizzati operativamente (ideario, progetto, programmazione). Dove è necessario, preciso le possibili alternative e indico la mia posizione. Analizzo poi il termine «itinerario», centrale di tutta la ricerca.

    1. GLI ELEMENTI DI OGNI PROGETTAZIONE PASTORALE

    Colui che cerca di fare un buon programma di intervento pastorale si sente investito da un'onda di interrogativi.
    Più o meno, potrebbero assomigliare a qualcuno dei seguenti:
    - Quale meta vogliamo raggiungere? Cosa cerchiamo? Per quale scopo ci impegniamo?
    - Qual è la situazione in cui stiamo operando? Verso quali orientamenti i giovani sono già attenti e sensibili? Basta assicurare e consolidare questi progetti spontanei oppure il loro bene e la loro maturazione richiedono qualche preoccupazione ulteriore?
    - Quali strumenti possediamo? Quali risorse sono nelle nostre mani? Quali altre potremmo riuscire ad assicurare, con un poco di fatica? A quali condizioni? Tutti gli strumenti che sono a nostra disposizione vanno bene? Oppure alcuni sono ormai superati o, peggio, possono risultare pericolosi? Quali persone possiamo considerare «alleate» nel nostro programma e con quali, invece, dobbiamo fare i conti in modo critico?
    - È possibile verificare se le mete sono state raggiunte? Come dovrebbe essere il «prodotto finito», per poter concludere che l'operazione è stata positiva?
    Non sempre gli operatori pastorali si pongono tutti gli interrogativi che ho ricordato. Forse qualcuno li avverte ancora a livello molto confuso e fa un po' di fatica a capire persino perché li ho elencati con una certa iniziale organizzazione.
    I suggerimenti degli esperti di scienze della didattica e della comunicazione hanno la funzione, davvero preziosa, di portare a livello riflesso e consapevole molte indicazioni che l'operatore diretto percepisce, senza riuscire a formalizzare. Se decidiamo di prendere sul serio le esigenze dell'educazione nell'ambito dell'educazione alla fede, dobbiamo metterci alla loro scuola anche in questo contesto.
    Essi ricordano gli elementi di una corretta programmazione: obiettivi, analisi della situazione, metodo e valutazione. Ogni buon programma di intervento in qualche modo li deve prevedere tutti.

    1.1. Obiettivo

    L'obiettivo è l'insieme delle competenze che formano il punto di arrivo e l'orizzonte della progettazione.
    «Competenze» è una formula ancora generica. Viene usata spesso secondo accezioni differenti. In questo contesto la uso secondo il significato più immediato: «competenza» significa capacità di orientarsi nelle diverse situazioni. Si dice infatti che una persona è competente (in genere o in un ambito particolare) quando, attraverso la progressiva valorizzazione dell'autenticità personale, la graduale chiarificazione della complessa vicenda individuale e collettiva, l'acquisizione di significati e valori, è capace di una lettura corretta della realtà, sa reagire in modo equilibrato alle differenti stimolazioni, è pronta a decisioni e ad azioni coerenti.
    Tre elementi costruiscono la competenza, così intesa: conoscenze, atteggiamenti e comportamenti.
    Le conoscenze sono assicurate dalla progressiva assimilazione dei contenuti di una proposta: quell'insieme di informazioni da apprendere con paziente fatica per poter conoscere una realtà nella sua verità. Così, per esempio, conosco un personaggio della storia, se so quando è nato, dove è vissuto, cosa ha fatto e quali erano i suoi progetti, che cosa ha scatenato con le sue azioni.
    Gli atteggiamenti sono rappresentati da quelle strutturazioni del personale dinamismo psichico che orientano i comportamenti verso gli og getti proposti. La definizione sembra complessa; esprime però, con un linguaggio tecnico, una esperienza comune.
    Noi reagiamo alle provocazioni e ci comportiamo in un modo o in un altro, senza pensarci troppo. Si dice infatti che una persona ha reazioni «spontanee», per sottolineare che sono state costruite senza eccessiva fatica e in un battito di tempo. A monte però ci sono abitudini, positive o negative, acquisite a suon di esercizio e con notevole impegno. Basta pensare a come guida un'automobile chi è alle prime armi e come la guida un autista provetto.
    Le abitudini costituiscono un tessuto organizzativo della personalità (la strutturazione del personale dinamismo psichico, dicevo nella definizione), destinato a facilitare i comportamenti quotidiani. In questo contesto chiamo «atteggiamenti» le abitudini nella loro dimensione più riflessa e consapevole.
    La terza componente delle competenze è costituita dai «comportamenti».
    I comportamenti sono le concrete scelte operative, espresse nelle differenti situazioni dell'esistenza.
    Progettare un obiettivo significa determinare quali conoscenze vanno acquisite, a quali atteggiamenti si deve abilitare, quali comportamenti vanno assicurati.
    Bisogna inoltre decidere secondo quale tipo di rapporto vanno collegati conoscenze, atteggiamenti e comportamenti. L'esigenza è evidente: le competenze non sono mai una somma aritmetica delle tre componenti, ma una loro sintesi armonica, da predeterminare.
    Solo così la definizione degli obiettivi è espressa in modo corretto ed è possibile, di conseguenza, fare delle verifiche.
    Questa operazione può essere condotta con livelli diversi di concretezza e operatività.
    Generalmente gli esperti propongono tre livelli.
    Il primo livello è determinato dalla definizione dell'obiettivo generale, quello che forma la ragion d'essere del processo. Fornisce le grandi direzioni di marcia, anche se non è immediatamente operativo.
    Il secondo livello è dato dalle competenze concrete, che indicano il cammino operativo e le tappe progressive per raggiungere la meta finale.
    Il terzo livello propone una serie di obiettivi a carattere quasi comportamentale, che esprimono in modo verificabile le indicazioni dei primi due livelli.

    1.2. Situazione di partenza

    «Situazione di partenza» è una formula generica. Nell'ambito della programmazione viene usata per riferirsi agli elementi caratteristici del contesto in cui si opera.
    Situazione è l'insieme dei dati attraverso cui è possibile descrivere il complesso mondo dei «destinatari»: i loro tratti psicologici, il contesto sociale e culturale in cui vivono, il suo influsso a livello esistenziale, quello che essi esprimono a voce alta e quello che cercano attraverso la trama silenziosa dei loro gesti, le sfide che essi lanciano alle istituzioni educative.
    Di fatto sono possibili differenti letture del reale. Lo scienziato, catturato dallo spessore duro dei fatti, si limita ad una lettura empirica dell'esistente. Qualche altro tenta di traforare la corteccia di quello che riesce a manipolare, per raggiungere la soglia dei concatenamenti logici e intenzionali. Il poeta sottolinea quell'afflato che invece sfugge a chi è impigliato nella lotta per la sopravvivenza quotidiana. L'uomo sapiente cerca connessioni che lo riconducono al gioco della vita e del suo senso.
    Il credente contempla la realtà quotidiana con lo sguardo penetrante della sua esperienza vitale. E cerca la cifra del suo Dio, nelle pieghe della storia personale e collettiva.
    Qualche volta questi diversi approcci sono vissuti come livelli differenti di uno stesso sguardo complessivo. Sorge però facilmente una conflittualità di competenze: non riesce certo agevole decidere a chi affidare l'ultima parola. Altre volte, invece, sono esperiti come alternativi. In questo caso, tutto sembra pacifico. L'assenza di conflittualità è pagata però al prezzo caro di una maldestra approssimazione alla verità. Le cose sono complicate da un altro dato. Non solo sono possibili differenti livelli di lettura; bisogna anche fare i conti con il peso condizionante degli strumenti utilizzati, che non sono mai neutrali rispetto alle prospettive della fede.
    Viene spontaneo chiedersi: c'è diversità tra una lettura socioculturale della situazione e una lettura pastorale?
    In tutt'e due i casi, se il soggetto agente è un credente, la fede è coinvolta in fase ricognitiva, interpretativa e progettuale. Quando però l'azione è di tipo formalmente pastorale, la dimensione teologica risulta decisiva e qualificante.
    L'azione politica o educativa ha come orizzonte la trasformazione del tessuto collettivo, una diversa distribuzione del potere e delle risorse, la maturazione personale e la definizione di un sistema di identità. Tutto questo, evidentemente, ha a che fare con la salvezza di Dio e con il suo Regno; e non solo in un rapporto di segno a realtà. In primo piano sta però la specificità «profana» del gesto e dell'evento.
    L'azione pastorale investe, invece, in modo tematico, la specificità cristiana di queste cose e la decisione, consapevole e riflessa, di consegnare la propria vita al mistero santo di Dio.
    L'attenzione allo spessore profano della vita e al suo processo promozionale, personale e collettivo, non è certo strumentale rispetto a questo obiettivo; ma resta sempre dimensione di un tutto, più ampio e coinvolgente.
    La differenza tra una lettura pastorale e una lettura socioculturale si colloca perciò nella sostanza delle cose; e non solo nella intenzione dell'agente. Non è solo un dato di precomprensione o di empatia; ma attinge allo statuto epistemologico dell'atto: alla sua natura e alle procedure logiche in cui si svolge.
    Questa consapevolezza sottolinea la funzione speciale della teologia anche nel momento in cui si fa la lettura della situazione.
    La teologia non è lo spiegamento della fede; ma solo una sua formulazione culturale. Ha però un legame stretto e qualificante. Rappresenta, innegabilmente, anche nei limiti di ogni parola umana che tenta di dire l'indicibile, la «parola», qui e ora, della fede.
    In un programma pastorale lo studio della situazione richiede di conseguenza un approccio a carattere interdisciplinare, coerente con le procedure logiche ricordate nel capitolo precedente.

    1.3. Metodo

    Metodo è uno dei termini più frequentati. Qualche volta viene caricato di attese quasi magiche, come se bastasse un buon metodo per risolvere tutti i problemi. Altre volte è coperto di sospetto, per la paura che l'attenzione al metodo metta in secondo piano i «contenuti».
    Come tutte le parole troppo utilizzate, può diventare motivo di equivoci.
    In questo contesto do alla formula una connotazione molto precisa.
    Metodo è quella particolare selezione e organizzazione delle risorse disponibili e delle operazioni praticabili, che serve a creare le condizioni favorevoli per far raggiungere gli obiettivi nelle diverse situazioni di partenza.
    La definizione sottolinea due elementi qualificanti.
    Prima di tutto, è evidente che il metodo ha un preciso riferimento all'obiettivo: le risorse sono selezionate e organizzate con l'unica preoccupazione di creare le condizioni favorevoli al raggiungimento dell'obiettivo.
    Inoltre, l'operazione che qualifica un intervento come «metodo» è la capacità di selezionare e di organizzare le risorse disponibili. Il materiale da lavoro è costituito dalle «risorse» che l'istituzione possiede: strumenti, agenti, tradizioni, interventi possibili. Queste risorse vanno inventariate con attenzione. Vanno poi verificate in rapporto alla loro reale funzionalità rispetto all'obiettivo. Le risorse che risultano non funzionali, vanno accantonate coraggiosamente; quelle che invece lo sono, vanno montate in una nuova organizzazione logica. Possono essere integrate con le altre risorse che l'istituzione è in grado di progettare.

    1.4. Valutazione

    Valutazione è quell'operazione che serve a verificare se e fino a che punto gli obiettivi proposti sono stati raggiunti.
    Per fare questo, sono valutati contemporaneamente obiettivi e metodi: si verifica se gli obiettivi sono raggiungibili, per non chiedere sforzi inutili; e si verifica se il metodo è adeguato a far raggiungere gli obiettivi stessi (e cioè se risulta corretta, alla prova dei fatti, la selezione e organizzazione delle risorse, che è stata perseguita). La valutazione investe perciò tutta la struttura del progetto.
    Non possiamo però dimenticare che in ogni processo educativo e pastorale resta un margine molto ampio di imponderabilità. In causa ci sono realtà che sfuggono ad ogni misurazione esterna: la libertà dell'uomo e la presenza interpellante di Dio. Per questo, ogni valutazione è sempre un po' parziale e provvisoria.

    2. SEQUENZE PROGRAMMATICHE

    Questo è un paragrafo importante. Per aiutare il lettore a comprenderne il significato, parto con un esempio.
    Gli autori di «gialli» conoscono tutti gli ingredienti indispensabili per costruire una storia affascinante. Ciascuno poi realizza un suo montaggio ed imprime un suo ritmo. E così, con gli stessi ingredienti, nascono sequenze e storie diverse.
    Ho elencato gli elementi di ogni buon programma di azione, senza preoccuparmi di quale sia la sequenza ottimale con cui organizzarli.
    Ci vuol poco a costatare che la scelta non puo essere lasciata al caso. Le differenti sequenze coinvolgono grossi problemi procedurali, che aprono ad esiti assai diversi.
    Sulla collocazione di alcuni di questi elementi non ci sono problemi. Il metodo, di natura sua, è funzionale all'obiettivo. Esprime infatti una selezione e organizzazione delle risorse, per creare le condizioni favorevoli al raggiungimento dell'obiettivo. Il metodo perciò segue sempre l'obiettivo, almeno logicamente.
    La valutazione è l'operazione con cui si verifica metodo e obiettivi. La valutazione chiude quindi il ciclo programmatico.
    Le difficoltà spuntano invece circa il rapporto tra obiettivi e situazione. Per convincersene, basta ripensare alle contrapposizioni di questi anni tra modelli deduttivi e induttivi.
    In campo pastorale, il problema riguarda una vecchia e spinosa questione: il significato teologico delle situazioni quotidiane.
    Diventa perciò urgente interrogarsi su quale sequenza conviene assumere nella programmazione: prima la situazione e poi l'obiettivo, o viceversa?

    2.1. Superare il modello induttivo e quello deduttivo

    Il modello teologico tradizionale affidava alla situazione una funzione passiva, di «recezione», di «destinazione», di «banco di prova». La comprensione della salvezza e la descrizione delle azioni da porre per assicurarla, erano definite in assoluto, in fedeltà ad un progetto che ci viene da lontano. La situazione concreta non aveva peso sul progetto, non lo modificava in nulla. Le eventuali difficoltà operative erano superate attraverso adattamenti provvisori e parziali.
    Come reazione, in questi ultimi anni qualcuno ha tentato di capovolgere le posizioni. Alla situazione è stata affidata spesso una funzione decisiva, normativa anche rispetto al progetto.
    Il primo modello riprende le procedure deduttive, tipiche di molte realizzazioni educative del passato. L'obiettivo è descritto in modo sicuro, soprattutto dalle scienze che pretendono una funzione a carattere normativo. Resta aperto solo lo spazio del «come» fare per raggiungerlo. Se risulta che i destinatari sono temporaneamente incapaci di raggiungere questo obiettivo, si può giungere al compromesso temporaneo dell'adattamento.
    Nel secondo modello, a carattere induttivo, prevale l'esperienza personale a scapito dei contenuti oggettivi. La prassi educativa è generalmente preoccupata soprattutto di rispettare le domande spontanee dei giovani.

    2.2. Verso un modello ermeneutico

    Oggi sta crescendo una sensibilità diversa, molto più matura.
    Essa è legata a quella intensa riscoperta dell'Incarnazione su cui si è costruito il rinnovamento pastorale postconciliare.
    Per. l'Incarnazione riconosciamo in ogni evento e in ogni gesto di salvezza l'intreccio meraviglioso e misterioso tra potenza di Dio e povertà dell'uomo, tra fede e cultura, tra trascendenza e esperienza umana.
    La nostra povera umanità è il luogo in cui Dio ha deciso di farsi vicino, sperimentabile, incontrabile, per essere il Dio che salva. Nell'umanità dell'Uomo Gesù e di tutti gli uomini, la parola ineffabile di Dio si è fatta parola d'uomo, per essere parola per l'uomo.
    Non è facile distinguere tra contenuto trascendente e rivestimento culturale umano, perché la compenetrazione è profonda, come nell'Incarnazione, appunto. Sarebbe cosa grave però far passare come Parola definitiva di Dio le parole umane che la esprimono.
    L'ermeneutica è la scienza che studia questi processi. Nata in ambito profano, è stata utilizzata presto anche nella teologia.
    E così si è approdati a riconoscere che il confronto tra fede e cultura si sviluppa sempre secondo un modello circolare, intessuto di «dare» e «ricevere».
    La coscienza ermeneutica sollecita a considerare la «situazione» come un vero «luogo teologico», che dà «carne» storica all'unico progetto di salvezza.
    Lungo la storia, esso si è progressivamente incarnato in scelte, orientamenti, preoccupazioni, espressioni. Anche oggi dobbiamo riscriverlo, decifrando quello che è relativo, frutto della «situazione», da quello che invece è decisivo e normativo, perché legato alla intenzione salvifica di Dio in Gesù Cristo.
    In questa prospettiva, le situazioni continuano la grande esperienza dell'Incarnazione: fanno esistere la salvezza per l'oggi della nostra storia.
    Il modello ermeneutico propone un progetto capace di mettere a confronto i grandi obiettivi dell'esistenza cristiana (gli obiettivi di primo livello) e le situazioni giovanili e culturali attuali.
    Nel confronto nascono nuovi obiettivi (di secondo e di terzo livello), capaci di ripensare le esigenze di sempre, in dialogo con le sfide di oggi, in una proposta fedele a Dio e all'uomo, in un'unica radicale fedeltà.

    3. IDEARIO, PROGETTO, PROGRAMMAZIONE

    Finora ho utilizzato un unico termine, per di più un po' vago, per indicare il piano che l'operatore pastorale cerca di costruire prima di intervenire concretamente.
    L'ho fatto apposta, perché volevo mettere l'accento sugli elementi comuni. Obiettivo, situazione di partenza, metodo e valutazione valgono in ultima analisi per ogni tipo di progettazione.
    Ora, però, è necessario fare un passo avanti.
    Di solito, per indicare la qualità dei programmi d'intervento, vengono elencate tre modalità operative: ideario, progetto, programmazione.
    Qualche autore ne aggiunge una quarta: itinerario. Il termine è centrale nella mia ricerca. Preferisco perciò analizzarlo a parte, anche per mostrare i punti di contatto e le diversità rispetto soprattutto a «progetto».
    Lo so che ci sono operatori che usano queste formule indifferentemente, come se fossero dei sinonimi. Non condivido questo modo di fare. Non mi lascia perplesso un problema linguistico. Sollecito verso un uso più corretto per una precisa preoccupazione educativa: solo comprendendo bene la funzione specifica di ciascuna di esse e integrandola con quella degli altri, riusciamo a costruire un buon programma d'azione educativa e pastorale.

    3.1. Ideario

    «Ideario» non è parola del vocabolario corrente; è piuttosto un neologismo di origine spagnola. Anche se non usiamo il lemma, abbiamo però spesso in mente il suo contenuto. Ideario significa un insieme di idee, orientamenti, valori, riferimenti a carattere generale e globale, che sono utilizzati come «ispirazione» ultima di un'azione educativa e pastorale. Sul piano dell'ideario si collocano i criteri che qualificano nel pluralismo delle possibili opzioni e le intenzioni di fondo che spingono verso l'azione concreta.
    Il carattere generale e un po' astratto dell'ideario non comporta affatto una sua squalifica. Al contrario, proprio la collocazione dell'ideario tra i livelli di progettazione dice quanto sono importanti le «idee» di fondo per ogni prassi e come da una visione antropologica e teologica scaturisca una prassi tanto qualificata da differenziarsi radicalmente da quella che si ispira ad altre visioni.

    3.2. Progetto

    Progetto è un piano generale di interventi che concretizza una visione educativa e pastorale (l'ideario).
    Esso segna gli obiettivi operativi adeguati ai bisogni e alle esigenze delle differenti situazioni (personali, sociali, ambientali). Suggerisce linee concrete e mezzi per raggiungere questi obiettivi. Crea ruoli e funzioni per assicurare l'efficacia delle linee e il raggiungimento degli obiettivi.
    Il progetto considera di conseguenza con un'attenzione speciale le dimensioni ricordate sopra (obiettivo, situazione di partenza, metodo, verifica).
    Sceglie sempre, almeno di fatto, una sua sequenza in cui montare questi elementi. Esistono così dei progetti a carattere o deduttivo o induttivo o ermeneutico (per riprendere le tre modalità sottolineate sopra).

    3.3. Programmazione

    La distribuzione in termini dí personale, tempi, luoghi, degli elementi definiti in un progetto, e la determinazione realistica delle operazioni da compiere, fanno la «programmazione».
    Essa si riferisce alla organizzazione concreta e a medio termine delle condizioni e dei tempi necessari alla realizzazione in situazione del progetto. Richiede la distribuzione nel tempo, ordinata e precisa, degli interventi, delle responsabilità, delle risorse materiali e personali.
    Per questa sua dimensione di concretezza e di operatività, la programmazione vive di tempi brevi e va realizzata sempre a livello locale. Solo nel tempo breve e nel confronto delle situazioni quotidiane è possibile infatti decidere, in termini pertinenti, le strategie operative ultime.
    La programmazione procede in una logica di grande realismo. Si interroga coraggiosamente sul dover-essere, ma si misura con eguale coraggio con le risorse concrete a disposizione: per questo muove nella logica del possibile, qui e ora.

    4. ITINERARIO

    Il termine «itinerario» è utilizzato in contesti e con accezioni diverse.
    Se ne parla spesso nei trattati di vita spirituale e ritorna anche nella organizzazione delle attività liturgiche e sacramentali, per ricordare che anche nel mondo dello spirito ci sono mete, cammini, tappe. Qualche volta lo si usa come un sinonimo di «metodo».
    Nel mio libro non solo introduco il termine «itinerario» tra le modalità operative dei programmi d'intervento educativo; ma lo preferisco a «progetto» e ne faccio la formula centrale della mia ricerca.
    Devo, per forza, giustificare la scelta.

    4.1. Una definizione di itinerario

    Il «Dizionario enciclopedico» della lingua italiana definisce l'itinerario: «il percorso che si segue o si intende seguire in un viaggio o in una spedizione o simili, comprendente per lo più un certo numero di tappe».
    In questa prospettiva si muove anche la mia proposta. Per itinerario intendo una sequenza, ordinata e successiva, di tappe che, almeno in via di ipotesi, è in grado di assicurare il raggiungimento della meta predeterminata.
    A prima vista, la definizione introduce poche novità rispetto a quanto ho già annotato a proposito di progetto.
    Qui si parla di meta come punto di tensione globale di tutto il processo. È evidente che, in questo caso, meta è sinonimo di obiettivo di primo livello. Le tappe esprimono la traduzione in mete intermedie e progressive dell'obiettivo di secondo livello. Anche se la definizione non lo ricorda formalmente, l'itinerario prevede una precisa selezione e organizzazione delle risorse, e quindi un metodo.
    Le novità qualificanti sono soprattutto due.
    La prima è implicita. Nella mia ipotesi «tappa» indica un nome collettivo: l'insieme di obiettivi, contenuti, metodi, mezzi, agenti, tempi di verifica. Nell'itinerario gli elementi della progettazione sono organizzati con una preoccupazione unitaria, per affermare più intensamente che si tratta davvero di «dimensioni» di un unico approccio educativo.
    La seconda è espressa dalla formula «sequenza». Comporta l'idea di movimento, di gradualità progressiva. Itinerario è come la sintesi dinamicizzata del progetto. Nell'itinerario le esigenze educative sono montate in sequenze progressive, con la preoccupazione di imprimere dinamicità al processo: gli obiettivi diventano movimenti progressivi, il metodo si trasforma in un gioco di interventi, con un ordine logico che spesso coincide con quello cronologico.

    4.2. Perché preferisco itinerario a progetto

    L'itinerario assume tutti gli elementi del progetto; li riscrive però in una prospettiva più dinamica.
    È una sfumatura, ma di quelle importanti.
    La progressività e la dinamicità sono le caratteristiche della crescita umana. Rappresentano anche qualità centrali dell'esistenza credente. Essa è infatti una decisione progressiva e crescente per Gesù Cristo, che nasce come esito dell'incontro con lui.
    Per questa consapevolezza preferisco le logiche dell'itinerario a quelle del progetto, soprattutto sul piano operativo.

    4.3. Unità e differenziazione negli itinerari

    Educatori e operatori pastorali, interessati ad elaborare itinerari, si chiedono spesso: molti e diversi itinerari o un unico itinerario globale?
    Certamente l'interrogativo non può ottenere risposte troppo sicure.
    È evidente, infatti, che la formulazione di un itinerario deve tenere presenti alcune variabili.
    Vanno considerati prima di tutto i diversi periodi dell'arco evolutivo: preadolescenti, adolescenti, giovani, giovani adulti.
    Le indicazioni vanno inoltre specificate sulle differenti tipologie giovanili. La diffusa frammentazione culturale segna notevolmente la qualità dell'essere giovani, oggi.
    Infine ogni itinerario si concretizza sulla misura dei diversi ambienti di azione (gestione della cultura, sport e attività di tempo libero, catechesi, animazione liturgica...) e delle diverse risorse (agenzie di intervento educativo e pastorale, le persone, gli strumenti, le tradizioni, le strutture).
    Su queste variabili gli itinerari non possono che risultare diversi, per rispettare davvero la centralità dei destinatari.
    Ragioni molto serie sollecitano però verso una profonda convergenza sulle logiche di fondo, anche nella eventuale diversificazione operativa. La prima riguarda proprio i destinatari.
    Sul piano dei livelli di maturità ci sono innegabili diversità. Non mi piace però immaginare itinerari per i più bravi e itinerari per i meno dotati.
    Preferisco invece riaffermare la scelta di privilegiare gli ultimi e i più poveri, come condizione pregiudiziale per dialogare veramente con tutti. Questa scelta non nega le diversità; le riconosce con coraggio, anche come principio di discriminazioni culturali e sociali. Si colloca dalla parte dei poveri, per promuovere davvero tutti, anche se in modo diversificato.
    Certamente a chi ha già percorso un tratto di cammino, non si chiederà di partire da capo, per quel falso principio egualitario che azzera le differenze sul livello più basso. Egli ha diritto di procedere spedito verso traguardi più impegnativi. La comunità lo sollecita però a porre il suo talento come dono per tutti. Per questo porta davvero i pesi degli altri, lui che è più robusto e sostiene, nella sua testimonianza, il passo dei più incerti.
    La seconda ragione chiama in causa il soggetto della costruzione e attuazione degli itinerari: la comunità.
    Ogni comunità dispone di molteplici e differenziate risorse: tradizioni, educatori, strutture, mezzi educativi. Alcune di queste risorse sono collocate prevalentemente sul versante educativo e altre invece riguardano esplicitamente il momento formalmente pastorale. Vanno rispettate le differenti strutture logiche; ma va rispettato anche quello stretto rapporto tra educazione e educazione alla fede, di cui ho parlato nel capitolo precedente.
    Lo spazio operativo dell'itinerario è proprio quello in cui i suggerimenti teorici si traducono in scelte concrete.
    Nella loro differenziazione e specializzazione, le risorse concentrate sul versante educativo e culturale e quelle specializzate sul versante dell'educazione alla fede concorrono al raggiungimento dell'unico obiettivo globale: convergono nell'unità a partire dalla diversità.
    L'unità nelle scelte di fondo, nelle procedure logiche e nei movimenti concreti, viene prima della diversità sui tempi, i modelli, i programmi operativi.
    Così viene servita l'unica persona, in modo complessivo e articolato, e veramente è affidata unitariamente la gestione della produzione della vita e della salvezza alla grande istituzione formativa.


    Per approfondire l'argomento:

    BIRZEA C., Gli obiettivi educativi nella programmazione, Armando, Roma 1981.
    DE LANDESHEERE V. e G., Definire gli obiettivi dell'educazione, La Nuova Italia, Firenze 1977.
    FILOGRASSO N., Gli obiettivi dell'educazione. Fondamenti epistemologici, Marsilio, Venezia 1979.
    MARTINI C. M., Itinerari educativi, Centro ambrosiano di documentazione e studi religiosi, Milano 1988.
    NANNI C., L'educazione tra crisi e ricerca di senso, LAS, Roma 1986.
    PELLEREY M., Progettazione didattica. Metodologia della programmazione educativa scolastica, SEI, Torino 1979.
    VECCHI J. E. - PRELLEZO J. M. (edd.), Prassi educativa pastorale e scienze dell'educazione, Editrice SDB, Roma 1988.


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