L’arte di amare
Benoît Standaert
Il mondo poggia su tre colonne: lo studio della Torà,
la ‘avodà [cioè il culto, la preghiera]
e le opere di misericordia (Pirqè Avot 1,2).
Introduzione: la dimensione profetica dell’esistenza
La terza colonna, nella visione dei rabbini, concerne le cosiddette “opere di misericordia” (ghemilut chassidim), ossia la solidarietà sotto tutte le forme. Si entra qui nell’ambito immenso di tutto ciò che ha a che fare con la dimensione etica e profetica dell’esistenza e della rivelazione. Il profeta dà voce al povero, all’oppresso, a colui il cui diritto è calpestato. Egli accusa, smaschera, svela: strutture e persone, ogni strategia condotta sotto la copertura della religione o della ragione di stato si vedono denunciate non appena l’ingiustizia sia manifesta. Ciò che importa è l’autentica responsabilità dell’uno nei confronti dell’altro e l’effettiva solidarietà nei rapporti di tutti verso tutti.
Dal punto di vista biblico gli appelli alla conversione, a una maggior giustizia e solidarietà risuonano innanzitutto nel regno del Nord e nelle tradizioni che affondano le loro radici nel Nord (soprattutto Amos, il Deuteronomio, Geremia)[1]. Prendere in mano la causa dell’umiliato e del povero: non è questo conoscere me? Oracolo del Signore (Ger 22,16). Assolutamente tipico per la sensibilità profetica è !’intervento di Elia presso Achab, il re di Israele, che si era lasciatb indurre da Gezabele, sua moglie, originaria di Sidone, a impadronirsi ingiustamente della vigna di Nabot (cf. 1Re 21). I diritti dei “poveri, del forestiero, della vedova e dell’orfano”, sono i profeti e gli ambienti levitici provenienti dal Nord che li hanno inculcati nei cuori e fissati nella legislazione. Anche i testi strettamente sacerdotali, come la legge di santità nel Levitico, ne subiranno l’influsso (cf. Dt 10,16-19; 14,29; 16,11-14; 24,17-22; 26,11-13; 27,19; Lv 19,9-10.13-18).
Mosè e la manna
La profezia, nella riflessione rabbinica, è incarnata dalla figura di Mosè, che ha come attributo la manna. Il miracolo della manna non consiste tanto nel fatto che essa sia là, tutte le mattine, in forma di granelli di rugiada dal gusto di miele. Il vero miracolo, ci dicono i rabbini, consiste in questo: ogni mattina ciascuno trova quanto basta, secondo i suoi bisogni. Né troppo né troppo poco, una misura piena che non dà la stessa cosa a tutti ma a ciascuno quanto basta (Es 16,18; cf. 2Cor 8,14). Allo stesso modo il dono della profezia consiste nel fatto che chi parla tocca ciascuno degli uditori secondo il suo cuore. Ciascuno dice a se stesso: “E per me che dice questo! Come può conoscere ciò che porto in me?” (cf. At 2,7-12.37). Profezia e manna hanno questo in comune: esse risolvono il problema dell’unità e della diversità nella vita comunitaria. Lo fanno senza far ricorso a maniere totalitarie e uniformanti, ma anche senza incoraggiare un certo pluralismo disimpegnato. Il modello comunitario cui mirano la profezia e il simbolo della manna conserva a tutt’oggi la sua forza di interpellazione e di ispirazione per qualsiasi ordine sociale esistente. In base a questo modello ciascuno riceve in base ai propri bisogni e, benché non si tratti della medesima cosa per tutti, si vede l’instaurarsi di un grande rispetto per le differenze. A partire da questo rispetto si crea una profonda solidarietà, anziché una concorrenza senza freno per un egalitarismo alla fin fine superficiale. Il profeta in tutto questo è l’apostolo della solidarietà.
La ripresa cristiana
La ripresa cristiana di questa terza colonna fu sin dal Nuovo Testamento e lungo tutta la storia della chiesa molto attenta e molto intensa. Resta però vero che ogni generazione è invitata a “reinventare la carità” a proprie spese (Et.Cornélis). Oggi non mancano i profeti, ciascuno con il suo carisma specifico: si pensi a Madre Teresa, a Jean Vanier, a Roger Schutz, a Sr.Emmanuelle del Cairo, all’abbé Pierre… L’amore in ambito cristiano è stato identificato con il Nome stesso di Dio (cf. 1Gv 4,8.16). Come esperienza, si tratta di un evento che sorprende, sempre nuovo e altro. Amare e vivere così l’amore vuol dire entrare “fino a”, ma anche essere invasi da una larghezza e un’altezza, una lunghezza e una profondità la cui dismisura “sorpassa ogni conoscenza” (Ef 3,18-19). La nostra riflessione su questa dimensione dell’esistenza vuole partire dalla ricchezza che l’evento di amore che fu Gesù ha messo in movimento nella prima letteratura cristiana. Senza aver la pretesa di essere esaurienti, vorremmo tentare di scrutare qui e là nel Nuovo Testamento questa “larghezza” e “lunghezza” , questa “altezza” e “profondità”.
Alla fine non sarà troppo difficile cogliere l’unità nella diversità dei testi. Che la preghiera dell’apostolo nella Lettera agli Efesini sostenga la nostra ricerca e ci disponga a ricevere “tutti i tesori di sapienza e di bontà” che sono in Cristo Gesù:
Piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni famiglia prende nome nei cieli e sulla terra, perché si degni secondo la ricchezza della sua gloria di munirvi di potenza, mediante il suo Spirito, affinché si rafforzi in voi l’uomo interiore e faccia abitare per la fede il Cristo nei vostri cuori; radicati e fondati nell’amore, voi avrete così la forza di comprendere, con tutti i santi, che cos’è la larghezza, la lunghezza, l’altezza, la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, affinché siate colmati fino a ricevere tutta la pienezza di Dio.
A colui che può fare, per la sua potenza che agisce in noi, infinitamente più di quanto domandiamo o concepiamo, a lui la gloria nella chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni, nei secoli dei secoli. Amen (Ef 3,14-21).
La larghezza: la koinonia (Luca)
Amicizia
Una delle caratteristiche della comunità cristiana degli inizi fu il fatto di vivere l’amore reciproco condividendo i beni (cf. At 2,42). La nozione di koinonia di cui Luca si serve in questo contesto è un termine chiave della teoria dell’amicizia quale era trasmessa da secoli in ambiente greco e poi romano. Molti gruppi ascetici e filosofici, sia pagani che giudei (vedi certi scritti di Filone e di Qumran), organizzavano la loro vita su questa base di “condivisione fra amici”. “Gli amici hanno tutto in comune” (massima di origine pitagorica, ripresa da Platone e da tanti altri dopo di lui). “L’amicizia è: un’anima in due corpi”. “L’amico è l’altra metà della mia anima”. “L’amicizia consiste nel volere e nel rifiutare le medesime cose: idem velle, idem nolle”. Gli amici hanno “un solo cuore, una sola anima”. Ecco alcune delle espressioni care alle cerchie che hanno fatto dell’amicizia il nucleo portante del loro vivere in società.
I passi del libro degli Atti che descrivono la vita in comunità dei primi cristiani si servono abbondantemente di espressioni di questo tipo per caratterizzare la loro condotta (cf. At 2,42-47; 4,32-37; cf. anche 1,14).
Quando, nel corso del terzo e quarto secolo, le forme di vita comunitaria saranno maggiormente sistematizzate, si vedranno i legislatori (Pacomio, Basilio, Agostino) riprendere spontaneamente queste testimonianze degli Atti, ben coscienti di trovarvi anche il meglio della tradizione filosofica degli antichi quanto all’ideale di vita sociale. Studi recenti su Agostino hanno mostrato, per esempio, quanto il suo pensiero fosse debitore su questo punto all’eredità pitagorica. Proviamo a rileggere il primo capitolo della sua celebre Regola - senza dubbio il testo più autorevole per la storia della vita religiosa in occidente-:
1. Questi sono i precetti che diamo a voi stabiliti nel monastero affinché li osserviate.
2. Lo scopo essenziale per cui vi siete raccolti in unità è di abitare unanimi nella casa e di avere un’anima sola e un cuore solo tesi verso Dio (cf. Sal 68,7; At 4,32).
3. E nulla dite vostro; ma ogni cosa sia tra voi comune, e cibo e vestiario sia distribuito a ciascuno di voi dal vostro preposito. Non però in misura uguale per tutti (non sono uguali in tutti le forze fisiche), ma piuttosto a ciascuno secondo il bisogno. Così infatti leggete negli Atti degli Apostoli: che ogni cosa era fra loro comune e veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (cf. At 4,32.35).
4. Quanti possedevano qualcosa nel secolo, una volta entrati in monastero acconsentano gioiosamente a che questo venga messo in comune.
5. Quanti invece non possedevano, non cerchino in monastero ciò che fuori non potevano avere. Si venga incontro tuttavia ai bisogni derivanti dalla loro debolezza, anche nel caso che la povertà di cui soffrivano quand’erano fuori non potesse neppur trovare il necessario. Solo, essi non si ritengano appagati perché hanno trovato cibo e vestiario che fuori non avevano potuto trovare.
8. Vivete dunque tutti unanimi e concordi, e onorate a vicenda in voi stessi quel Dio di cui siete stati fatti templi (cf. At 4,32; 2Cor 6,16) (RA 1,1-5.8)[2].
Povertà
Questa “teoria dell’amicizia” appare molto affascinante. Ma essa è altrettanto esigente, e la storia della spiritualità lo conferma abbondantemente. Senza alcun dubbio essa è realizzabile unicamente in uno spirito ben specifico di povertà.
La prima povertà di cui parlano le Regole e Istituzioni dei primi secoli consiste nel non possedere nulla. Chi entra in comunità cerca di regolare una volta per tutte questa tendenza ad appropriarsi di qualcosa, non importa quale. “Da quel giorno non avrà facoltà di disporre nemmeno del proprio corpo” (RB 58,25). Un simile enunciato indica un punto estremo: si misura la sua esigenza e insieme la libertà che ne costituisce l’obiettivo.
Ma c’è una seconda forma di povertà che raggiunge più direttamente l’ideale della koinonia degli amici: consiste nel tenere continuamente conto dei bisogni gli uni degli altri. La vita in comune è organizzata in modo tale che ci si ascolti reciprocamente, cercando di individuare i bisogni dell’altro e anzi di prevenirli. In questo ascolto, nessuno arriva a pretendere per sé ciò di cui l’altro dice di aver bisogno. In questo tipo di approccio rispettoso delle differenze tra i bisogni di ciascuno si può rilevare un duplice riconoscimento: noi siamo tutti profondamente poveri e “nel bisogno” (e come costa a certuni riconoscersi tali!); per essere salvati abbiamo bisogno gli uni degli altri: sì, siamo incessantemente rinviati a questo preoccuparci e farci carico tutti nei confronti di tutti.
Oltre a Luca, è soprattutto Paolo che approfondirà questo ideale della koinonia in modo specificamente cristiano. Paolo è stato fortemente colpito dal grande gesto di amore con cui Cristo si è fatto solidale con noi: “Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi della sua povertà” (2Cor 8,9). A tal punto è giunta la sua koinonia, il suo mettere in comune i beni. Da allora noi siamo diventati membra gli uni degli altri, compaginati insieme nel suo corpo. Egli ci ha ricolmati della sua kénosis - l’atto libero di svuotarsi per gli altri (cf. Fil 2, 7!) - ; come potremmo ancora vivere se non per lui e per coloro che egli ha riconciliato divinamente a sé mediante il dono della propria vita? E la cristologia a costituire la base per ogni forma di solidarietà fra cristiani! Infatti, dov’è che Paolo a quell’epoca, ancora Saulo - ha scoperto l’amore di Cristo? E stato riconoscendo che in realtà era Lui che egli persegui!ava nei cristiani trascinati dinanzi ai tribunali. E al cuore di questa conversione che si inscrive la percezione originale: ogni volto rivela il volto del Risorto. Come sottrarsi ancora alla responsabilità (cf. At 9,4-5; 1Cor 12,12-27; Rm 14,1-15; 2Cor 5,14-21)?
Storicamente si vede come la maggior parte dei riformatori di ordini o di tradizioni religiose intraprenda risolutamente qualcosa di nuovo solamente a partire dal momento in cui pone la questione della koinonia in tutta la sua radicalità. Nulla è più liberante, nulla provoca in maniera così pura la gioia. E il mondo non può che trarne giovamento. “C’è quanto basta per i bisogni di ciascuno, ma non ci sarà mai abbastanza per la cupidigia di tutti” (Gandhi). Solo i poveri sanno che cos’è la condivisione. I ricchi danno della loro abbondanza, del loro superfluo. Si fa appello a loro perché non dimentichino di “fare l’elemosina”. Invece alla scuola dei poveri impariamo a dare ciò che non abbiamo. E così che Gesù si è presentato in mezzo a noi, lui che ha voluto arricchirci della sua povertà (cf. 2Cor 8,9). Si può mai parlare di “nuova evangelizzazione” come programma pastorale delle chiese d’occidente senza che ciò implichi concretamente una solidarietà su scala mondiale? Chi vive accanto ai poveri arriva ben presto a scoprire un legame planetario impressionante. Per contro, non si vede forse il mondo dei ricchi rinchiudersi tristemente su se stesso malgrado disponga di strabi-lianti mezzi di comunicazione? Le piccole sorelle di Charles de Foucauld con la loro corrispondenza che circola da un capo all’altro del pianeta e il mappamondo in ognuna delle loro cappelle o capanne, le missionarie della carità di Madre Teresa, i foyers fondati dall’Arche di Jean Vanier… sono altrettanti” segni dei tempi” che testimoniano un’autentica solidarietà universale. Nel XXI secolo, l’amore in tutta la sua larghezza si orienterà certamente secondo tali esempi. Non si dà una nuova evangelizzazione effettiva se non insieme con e mediante il “popolo dei poveri”, gli ‘anawim secondo il cuore di Dio, come ama chiamarli la Bibbia (cf. Sof 2,3; 3,12; Is 57,15; 66,1-2).
La profondità: pazienza e passione (Paolo)
Che cos’è l’amore? Noi non lo sappiamo. Ne abbiamo le più svariate rappresentazioni e proiezioni e fantasmi, ma il suo segreto non ci viene consegnato così facilmente.
Paolo è un maestro quanto all’amore - doctor caritatis -, uno dei più grandi, anzi, di tutta la tradizione cristiana. Alla sua scuola deve essere possibile rinvenire che cosa voglia realmente dire la parola “amore”.
Se si leggono le sue lettere, è sorprendente constatare che mai in Paolo l’amore - l’agape significa “fare qualcosa per gli altri”. Generosità, altruismo, impegno per gli altri, ecco cosa si è spontaneamente portati a pensare quando, in ambito cristiano, si parla di “carità”. Ora in Paolo questo non avviene mai. La carità come la intende lui non è mai in primo luogo “caritativa”!
Prendiamo una delle sue pagine, tra le più conosciute del Nuovo Testamento: l’inno all’agape di 1Cor 13. Nel bel mezzo della sua esposizione sui carismi (1Cor 12-14), questi doni dello Spirito di cui i cristiani di Corinto sono così desiderosi, Paolo apre la prospettiva su una “via che supera tutte le altre”. La comunità entusiasta era avida di esperienze di ogni genere, di estasi, e soprattutto del “dono” o della capacità “di parlare in lingue”, chiamata “glossolalia”. Paolo non vuole assolutamente spegnere lo Spirito, ma non vuole neppure lasciare che le cose si sviluppino anarchicamente. Il paragone del corpo, al c. 12, comincia a mettere un po’di ordine: ogni forma di monopolio praticata da un “dono” sugli altri viene così prudentemente esclusa. I doni hanno bisogno gli uni degli altri, si completano a vicenda, e anzi devono rispettarsi reciprocamente secondo una gerarchia ben precisa (cf. soprattutto la fine del capitolo: “in primo luogo gli apostoli, in secondo luogo i profeti, in terzo luogo i dottori…”: 12,29-30). Il dono di parlare in lingue viene in ultima posizione… Il c. 14 riprenderà questo tema, scendendo al livello pratico, con alcune misure concrete per le riunioni comunitarie, in attesa della venuta dell’apostolo. Posto tra queste due ante, il c. 13 si presenta come una pausa e nel contempo come un momento di approfondimento in cui l’apostolo Paolo cerca di cogliere la problematica nella sua struttura fondamentale: il cuore del giusto atteggiamento spirituale. Così, a modo suo, questo capitolo viene ad appoggiare l’argomentazione sui “carismi” o “doni spirituali” all’interno della vita della comunità.
Paolo comincia con l’esortare i corinzi, tutti pieni di entusiasmo, ad avanzare, a mostrare ancora più zelo nella loro ricerca di esperienze spirituali. Nello stesso tempo, però, li provoca a non accontentarsi se non di ciò che è migliore, più sublime: "Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte" (1 Cor 12,31; cf. 13,13-14,1).
Quindi in tre strofe, disposte in modo concentrico, dispiega il suo celebre inno all’amore:
I. Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli ma non ho l’amore sono un bronzo che risuona, un cembalo che fa rumore. E se avessi il dono della profezia e la conoscenza di tutti i misteri e di tutta la scienza e avessi la pienezza della fede tanto da trasportare le montagne ma non ho l’amore non sono nulla. E se distribuissi tutti i miei beni ai poveri e consegnassi il mio corpo alle fiamme ma non ho l’amore nulla mi giova.
II. L’amore pazienta, l’amore fa il bene l’amore non invidia, non si vanta non si gonfia, non fa nulla di sconveniente non cerca il proprio interesse, non si adira non tiene conto del male, non si rallegra dell’ingiustizia ma mette la sua gioia nella verità. Tutto copre, tutto crede tutto spera, tutto sopporta.
III. L’amore non viene mai meno. Le profezie? Scompariranno. Le lingue? Cesseranno. La conoscenza? Sarà abolita. Infatti la nostra conoscenza è limitata e limitata è la nostra profezia. Ma quando verrà la perfezione ciò che è limitato sarà abolito. Quando ero bambino, parlavo da bambino pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Diventato uomo, ho abbandonato ciò che era da bambino. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa ma allora, faccia a faccia. Ora la mia conoscenza è limitata allora conoscerò così come anch’io sono conosciuto.
Ora dunque rimangono queste tre realtà: la fede, la speranza e l’amore. Ma di queste la più grande è l’amore (1Cor 13,1-13).
La prima strofa (13,1-3) sottolinea l’eccellenza dell’agape: essa supera tutti gli altri doni o prestazioni spirituali. Senza di essa nulla sembra avere un qualche valore. La forma di questa strofa richiama certi proverbi sapienziali: “Se anche uno fosse il più perfetto fra gli uomini, senza la sapienza che viene da te sarebbe stimato un nulla” (Sap 9,6; cf. Ct 8,6-7). Glossolalia, fede estatica potente, generosità eroica che tutto condivide e si spinge sino a consegnare il proprio corpo alle fiamme, tutto ciò non vale nulla se manca quel non so che chiamato qui agape (“amore”). Grazie alla ripetizione della breve proposizione centrale “se non ho l’amore” e al parallelismo delle conclusioni, questa prima strofa riceve la forma di una sciarada, dove si vede “l’agape” funzionare da cifra non identificata (si può fare un confronto con il poema sapienziale in Gb 28). Ancora oggi si resta stupiti di fronte all’ultima frase: come posso “distribuire tutti i miei beni ai poveri” e addirittura “consegnare il mio corpo alle fiamme” senza avere in qualche modo parte alla carità? L’effetto d’urto è certamente intenzionale qui.
Una cosa è chiara: per Paolo l’amore non coincide semplicemente con l’altruismo o la filantropia. E del resto, un’analisi più attenta permette di discernere che molto spesso l’altruismo nasconde una forma sottile di egoismo, dove si vede l’altro strumentalizzato per permettere a uno di arrivare ai propri fini. Il povero diventa allora il luogo in cui io posso esercitare le mie opere di carità e conquistarmi dei meriti… Certuni hanno potuto dire, soprattutto il secolo scorso, che così ha voluto Dio. Il povero diventa così il mezzo di salvezza per coloro che si applicano a “fare la carità”.
Che questa carità un po’troppo paternalistica non sia così pura, è evidente. Ma al giorno d’oggi c’è in agguato il pericolo che, per evitare lo scoglio di un amore troppo condiscendente o interessato, non si sappia più che farsene dell”‘amore del prossimo” e che il cuore si mostri diffidente ogniqualvolta ci porta a provare simpatia oppure compassione. Può essere utile ascoltare a questo riguardo l’insegnamento plurisecolare di abba Poemen:
Un fratello disse ad abba Poemen: “Se do a mio fratello un po’di pane o qualche altra cosa, i demoni macchiano questa azione come se fosse fatta per piacere agli uomini”. Gli disse l’anziano: “Anche se è fatta per piacere agli uomini, avremo tuttavia dato al fratello ciò di cui ha bisogno”. E gli raccontò questa parabola: “Vi erano due agricoltori che vivevano nella stessa città. L’uno, dopo aver seminato, ricavò un po’di raccolto non puro. L’altro, che non si era dato cura di seminare, non ricavò assolutamente nulla. Se sopraggiunge una carestia, chi dei due avrà da vivere?”. “Quello che ha avuto il raccolto scarso e non puro”, rispose il fratello. Dice l’anziano: “Seminiamo dunque anche noi un poco anche se impuro, per non morire di fame (Poemen 51, in Vita e detti II, pp. 95-96)[3].
Nella seconda strofa (13,4-7) si vede comparire l’agape in persona, trionfante, come una gran dama, che nulla può trattenere, splendente nella gloria.
Ciò che si dice di lei all’inizio e alla fine è la sua pazienza, la sua longanimità, la sua capacità di portare e di sopportare: “l’amore pazienta”, tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Per otto volte si nega che l’amore possa adirarsi per qualcosa o scandalizzarsi o innervosirsi. Nessuna vanità, nessun vanto, non il minimo ripiegamento su se stesso, nessun interesse per la propria sussistenza. In forma positiva è detto che l’amore gioisce in accordo con la verità e che null’altro è se non bontà che si fa servizio (vv. 4-6)[4].
La prima e la seconda strofa si contrappongono: ciò che manca nell’una, regna nell’altra; ciò che domina la prima - questo “io” onnipresente, tutto assetato di esperienze e di prestazioni - è totalmente assente nella seconda strofa, dove è detto in maniera netta: l’agape “non cerca il proprio interesse”. Ogni ripiegamento su di sé, ogni movimento riflessivo di natura narcisistica le è diventato totalmente estraneo. E questo è un concetto caro all’apostolo (cf. Fil2,4.21; 1Cor 10,24.33). Di fronte al soggetto impegnato attivamente in ogni sorta di prestazioni nella prima strofa, ecco apparire nella seconda lo splendore tutto particolare di una soggettività passiva. Questa “passività” consiste nel saper portare, soffrire, subire, pazientare, credere, sperare con una gioiosa fiducia, con un’amabilità radiosa. L’amore è qui “passione” in tutti i sensi del termine: capacità di soffrire (pati), di essere paziente, ma anche ardore appassionato.
La terza strofa spinge la riflessione sull’agape fino al limite della fine dei tempi. Allora appare tutto il contrasto con i doni segnalati: la profezia, la conoscenza e soprattutto - “last but not least”, agli occhi dei corinzi! - il dono di parlare le lingue. Ebbene, l’agape non potrà scomparire, mentre tutto il resto, glossolalia compresa, è segnato da una fragilità inerente. Ognuno dei tre doni così tanto valorizzati (cf. la prima strofa e il contesto) sarà abolito e cesserà. Solo l’agape è chiamata a perdurare[5].
E così che i nostri corinzi - e noi con loro! vengono educati. Assolutamente degno di nota in questo capitolo è il fatto che mai venga nominato Dio, o Cristo, o la chiesa, corpo di Cristo, o lo Spirito santo! Paolo parla dell’essenziale, di ciò che è più sublime, evitando come di nominarlo. Canta il suo inno di lode servendosi di una lingua velata. Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti. Senza dubbio la prospettiva più sublime ha assolutamente a che vedere con la struttura fondamentale della vita secondo lo Spirito. Ora, altrove nelle sue lettere Paolo comunica con grande rigore e con forza come situarsi esattamente:
Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me (Gal 2,20).
Tutto posso in colui che mi dà forza (Fil 4,13).
Per grazia di Dio sono quello che sono, … ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. (1Cor 15,10-11).
Attraverso queste poche affermazioni, per quanto concise, ci è possibile accedere al pensiero di Paolo sull’amore in 1Cor 13. Perché dunque la sua visione è “passiva” piuttosto che “attiva”? Perché Paolo non vede l’agape nella realizzazione delle nostre migliori intenzioni e delle nostre imprese più grandiose?
L’amore per Paolo è Qualcuno. Non è né una virtù, né un dono, né una qualità morale, né una caratteristica, per quanto sublime, dell’anima. Paolo ha conosciuto l’amore di Gesù, “il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Chi mi separerà dall’amore di Dio manifestato in Gesù Cristo (cf. Rm 8,35-39)? Sulla via di Damasco si è visto afferrare dall’amore che l’ha toccato, sconvolto, letteralmente invaso. Egli infatti si è lasciato conquistare. Poiché la prima cosa richiesta per conoscere l’amore e per manifestarlo è la vulnerabilità, l’accoglienza, la disponibilità a lasciarsi toccare. Allora emerge l’identità, liberata da ogni ripiegamento su se stessa, senza boria alcuna, vuota di sé e ricca dell’Altro che ci ama. La passività consiste dunque nel non fare in nessuna maniera schermo, né esteriormente né soprattutto interiormente, all’Amore manifestato in Gesù. Lasciati amare e fa’ciò che vuoi. Ecco perché tutte le esortazioni dell’apostolo appaiono ogni volta come delle varianti alla celebre espressione di Fil 2,5: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil2, 1-4 illustra mirabilmente come l’apostolo stesso si sia spostato “nelle viscere di Cristo” e parli ormai unicamente a partire da quel luogo).
L’amore in profondità, al quale Paolo ci apre l’accesso, si scopre a partire da una vulnerabilità che accoglie l’amore personale di Dio come “un Altro in me, più me stesso di me”, secondo la già citata espressione di Paul Claudel. Così il buon samaritano che Gesù introduce nella sua catechesi dell’amore è in primo luogo un uomo vulnerabile, che ha “viscere”, capace di subire nel profondo e di compatire. Letteralmente sta scritto: “Fu preso alle viscere e facendosi vicino gli fasciò le ferite versandovi olio e vino” (Lc 10,33-34). La misericordia biblica (in ebraico: rachamim) è linguisticamente imparentata con “matrice” (rachem), e secondo l’analisi che ne fanno i rabbini, “la matrice è qualcosa che esiste unicamente in vista dell’altro da sé”[6]. Chi è “misericordioso” non agisce secondo un codice di prescrizioni morali ma, toccato nel più profondo di sé, non può far altro che accorrere e compiere tutto ciò di cui è capace per aiutare l’altro.
L’amore-in-profondità: chi ha riconosciuto questo amore appare, secondo l’apostolo, più forte di ogni resistenza, più forte delle delusioni, delle umiliazioni e anche delle persecuzioni. “Siamo fieri delle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la perseveranza, la perseveranza la fedeltà provata, e la fedeltà provata la speranza. Ora, la speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato … Né la morte né la vita … né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio, manifestato in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 5,3-5; 8,31-39).
La lunghezza: reciprocità nella disuguaglianza (Matteo)
Nell’evangelo secondo Matteo ci viene inculcato con forza come tutte le prescrizioni della “Legge e i Profeti” trovino la loro radicalità e la loro pienezza nel duplice comandamento dell’amore: “Amerai il Signore tuo Dio” e: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (cf. Dt 6,4 e Lv 19,7)[7]. Alla fine dei tempi, nel giudizio, conterà unicamente ciò che avremo o non avremo fatto, e riguarderà essenzialmente le “opere di misericordia”, chiamate anche “le opere del Cristo” (cf. Mt 16,27; 25,35-40; 11,2.5.19).
Al margine e al centro
Nel raccomandare l’amore del prossimo Matteo pone accenti e introduce sfumature che rivelano una nuova dimensione nella dinamica dell’amore. Al c. 18, chiamato da alcuni “il discorso comunitario”, ci mostra Gesù che pone up bambino in mezzo ai discepoli che discutono. E la sua risposta alla domanda su chi sia “il più grande nel Regno”. Ecco il vero punto di riferimento e il polo strutturante della comunità matteana. Poco oltre, sempre all’interno di quel discorso, e più esattamente alla conclusione della parte centrale, Gesù dirà: “Là dove due o tre sono riuniti nel mio Nome, io sono in mezzo a loro”. Com’era per il bambino, così è per Gesù con la sua parola: è là, nel mezzo, ugualmente disarmante e conciliante.
Quando l’escluso diventa l’eletto per eccellenza
La dinamica della comunità matteana riceve la sua forza esplosiva dal fatto che a ogni istante il marginale si vede scelto come centro, sull’esempio del bambino che Gesù prende e pone in mezzo ai discepoli. Nessuno può trovarsi a tal punto al margine della comunità da non divenire immediatamente, in virtù della parola di Gesù, il suo nuovo centro. Una tale concezione e pratica della vita comunitaria provoca uno spostamento costante dei margini del gruppo esistente.
La leva di questa dinamica di gruppo esplosiva è la risurrezione di Cristo stesso. Lui, “la pietra che i costruttori hanno scartato”, è diventato “pietra angolare”, “pietra scelta”, come dirà Pietro (cf. 1Pt 2,6-11). Rigettato dalla comunità degli uomini, il giorno di Pasqua egli è l’Eletto per eccellenza, e si canta per lui il salmo “Osanna”: Ecco l’opera del Signore: una meraviglia ai nostri occhi” (Sal 118,23; cf. Mt 21,9.40-43). Ormai i peccatori, i pagani, e chiunque è stato proscritto dalla comunità religiosa per qualche impurità, si vedono scelti, eletti, e diventano i destinatari privilegiati della buona novella. Il pubblicano Matteo si vedrà non solo chiamato alla sequela di Gesù, ma a far parte del collegio dei Dodici, conservando il proprio epiteto, in origine assai poco rilucente, ma portato ormai come un titolo di nobiltà (cf. Mt 9,9; 10,3)[8]. L’amore non è un privilegio, se non quello di renderci responsabili di riconoscere negli altri il volto nascosto del Messia che non cessa di dire: “lo ero forestiero, malato, carcerato, assetato, nudo, e mi hai accolto, visitato, consolato” (cf. Mt 25,35-40).
Disuguaglianza e reciprocità
Ma siamo noi in grado di discernere i tratti del Messia nell’ultimo della nostra comunità o società? Siamo in grado di continuare a offrire la reciprocità messianica come hanno fatto Giovanni e Gesù nel loro incontrarsi nelle acque del Giordano? Nell’evangelo di Matteo, infatti, si vede il maestro e precursore riconoscere nel discepolo che viene dietro a lui, colui che è più grande: “Colui che viene dietro a me è più potente di me” (Mt 3,1). E poi: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?” (Mt 3,14; “Quando Elia verrà”, aveva detto Malachia - ed è l’ultimo versetto delle Scritture profetiche - “convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri”: Ml 3,23). Tuttavia Gesù si sottomette a quel battesimo di acqua conferito da Giovanni e spinge il suo precursore a entrare con lui nei disegni di Dio: “E così che ci conviene adempiere l’intera giustizia” (Mt 3,15). Nel medesimo atto il maestro e il discepolo si accettano con la loro differenza e, aboliscono nel con tempo la loro distinzione. E così che il messianismo entra nella storia, secondo le Scritture (cf. in particolare Ml 3,1.23).
L’uomo moderno vuole sì sperimentare la reciprocità, ma su una base di uguaglianza! Come si può offrire e ricevere in reciprocità se si vive una cocente disuguaglianza? Ecco, la visione cristiana è in grado di celebrare questo paradosso al cuore delle relazioni umane, e questo in nome di Gesù, il quale a sua volta offrì in nome di Dio un’alleanza con il peccatore, quale che fosse, e ciò gratuitamente. Nella più incommensurabile disuguaglianza - quella che situa Dio e l’uomo l’uno di fronte all’altro - noi confessiamo la più intima e la più libera delle reciprocità. Come non trasporla in tutte le nostre relazioni? “Chi fa l’elemosina, la faccia come se fosse lui a riceverla”, dice un padre del deserto. In definitiva, quando tu dai, è a Cristo che dai, così com’è in nome di Cristo che tu lo fai.
Così Benedetto nella sua Regola vede nel malato il Cristo in persona, che è visitato e curato dal Cristo in persona. Il fratello infermiere e chi va a far visita al malato devono discernere in lui Cristo, ma il malato deve discernere, nelle cure e nell’attenzione che riceve, la vicinanza stessa di Cristo (cf. RB 36).
Vincenzo de’Paoli, quest’altro maestro della carità, scrive in una lettera:
Giovanna, vedrai ben presto che la carità è pesante da portare. Più della terrina di minestra e del cesto pieno di pane… Ma tu conserverai la tua dolcezza e il tuo sorriso. Dare la minestra e il pane non è tutto. Lo possono fare benissimo i ricchi. Tu sei la piccola serva dei poveri, la figlia della carità, sempre sorridente e di buon umore. Sono essi i tuoi maestri, dei maestri terribilmente suscettibili ed esigenti, vedrai. Allora, più saranno brutti e sporchi, più saranno ingiusti e volgari, più tu dovrai dar loro del tuo amore! … Sarà unicamente per il tuo amore, per il tuo amore soltanto che i poveri ti perdoneranno il pane che dai loro.
Che noi dobbiamo essere perdonati nell’esercizio stesso della carità, e che solo un amore estremo e assolutamente disinteressato possa meritare questo perdono: ecco, questo solamente un santo poteva insegnarcelo.
Non giudicare
Fin dove giunge il nostro amore, fino a poter di fatto adottare come membro della comunità chi è proscritto, escluso o senza nessuna considerazione? Della comunità di Matteo si è potuto dire che era la più ampia e la più numerosa di tutto il Nuovo Testamento. La si è descritta come corpus mixtum: un insieme assortito che radunava giusti e peccatori, deboli e forti, giudei e numerosi pagani, “buoni e cattivi” (Mt 22,10; cf. 5,44) mescolati insieme… Nessuno si sente rifiutato. Solo un atteggiamento è messo al bando: quello di condannare i deboli. A più riprese l’evangelista ritorna su questo punto: al di sopra di ogni altra cosa, non giudicare, non strappare la zizzania prima del tempo! La mano che vorrebbe intervenire così, ecco bisogna tagliarla! Giudicare e operare la cernita tra buoni e cattivi non è un compito riservato agli uomini. Spetta agli angeli svolgere questo lavoro, nell’ultimo giorno, al tempo della mietitura, oppure una volta che la rete è stata tirata a riva (cf. Mt 7,1-6; 13,24-30.36-43.47-50; 18,6-11). La storia è il tempo della misericordia, della pazienza, del perdono e della riconciliazione (cf. Mt 5,25; 6,14; 18,35); poi, alla fine dei tempi, verrà l’ora irrimediabile del giudizio: “uno sarà preso e l’altro lasciato” (Mt 24,40). L’olio di cui ciascuno deve provvedersi per tempo sono le opere di misericordia; se no ti troverai davanti a una porta chiusa, senza essere riconosciuto, senza la minima reciprocità (cf. Mt 25,1-12; 7,23)!
L’amore dei nemici
La visione, lo sguardo largo di Matteo si estende sino ai nemici. Nell’ultima sezione della prima parte del discorso della montagna, come ultimo gradino di una scala dell’amore, il Gesù di Matteo dichiara: "Ebbene, io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano, perché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli infatti fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti" (Mt 5,44-45).
Anche Benedetto nella sua Regola conosce questo genere di imperativi. Egli scrive: In Christi amore pro inimicis orare (“Nell’amore di Cristo pregare per i nemici”: RB 4,72). Gesù, mentre veniva inchiodato alla croce, ha pregato per i propri persecutori: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34).
E così per Paolo: l’amore dei nemici fu per lui un punto cruciale, fu la rivelazione decisiva della sua vita. Quando poté sperimentarlo, tutto crollò, per lasciare il posto a una sola realtà: siamo amati. “La prova che Dio ci ama è che Cristo è morto per noi mentre noi eravamo peccatori… È quando eravamo nemici che siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte di suo Figlio” (Rm 5,8.10).
Questo tuttavia è un linguaggio che fa difficoltà a molti. Non lo comprendono. “Nemici”? Certuni fanno fatica a riconoscere che possono essere oggetto di inimicizia. Non hanno nemici, essi dicono. Come potrebbero allora “amarli”? Per loro questo linguaggio di Gesù non dice un gran che. Per chi è abituato a identificarsi solamente con le proprie buone intenzioni, con il proprio lato luminoso, senza rendersi minimamente conto dell’ombra che è in lui, è difficile riconoscere di avere un nemico. Se c’è un problema nella vita relazionale, la palla viene rinviata nel campo dell’altro. Lui, dal canto suo, si sente a posto. Mai arriva a percepire ciò che potrebbe pesare, dar fastidio o essere semplicemente odioso in lui, suo malgrado. Perciò una relazione positiva che giunge fino ad “amare” e a “pregare per” questo possibile “nemico”, non ha molto senso per colui che è unicamente abbagliato dal proprio lato luminoso.
Ma chi arriva comunque a rendersi conto che altri possono odiarlo, non sa come venire a capo della parola di Gesù: “Ama il tuo nemico”. Deve ben presto riconoscere che un tale amore non va da sé. La sua buona volontà, la sua naturale bontà d’animo, ogni risorsa spontanea di benevolenza e di positività finiscono per esaurirsi in brevissimo tempo. Come, allora, “pregare per” e “amare”, come continuare a offrire una reciprocità a chi rifiuta apertamente ogni contatto, a chi vi denigra in pubblico, a chi vi distrugge volutamente?.. E innegabile, ci si imbatte qui in un limite estremo. Ciò che Gesù ci propone, a prima vista non ha alcun senso. Chi intende le sue parole imperative come semplici ingiunzioni morali dovrà ben presto constatare che esse non funzionano e che come tali non possono far, altro che rendere un uomo più disperato…
È bene allora toccare il fondo, il punto zero: a questo punto le ultime risorse di buona volontà sono esaurite. Il pericolo che diventiamo amari, aggressivi, o addirittura che ricorriamo a mezzi violenti per ribattere, non è più immaginario. Finalmente dobbiamo ammettere di non essere meglio degli altri, nonostante il senso, coltivato per tanti anni, di una “buona coscienza”. Anche quest’ultima roccaforte è a malapena difendibile ormai. Sì, si può tentare di rifugiarvisi ancora e ancora, ma questo significa non capire proprio nulla della parola di Gesù, pur sapendo bene che è per colpa nostra.
Benedetto scriveva ai suoi monaci: In Christi amore pro inimicis orare. Prega per i tuoi nemici, ma fallo “nell’amore di Cristo”. Non riusciresti a farlo con le tue forze. Non è un’opera umana, questa. Da noi stessi siamo assolutamente incapaci di “amare” così un “nemico”: l’esperienza vissuta, se siamo sinceri, ce lo insegna. Ma in Christi amore, nel sacramento di questo amore che ci pervade, dev’essere possibile farlo. Se lascio che mi raggiunga fin nel più profondo della mia impotenza, allora sarò capace di qualsiasi cosa, come diceva Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà forza” (Fil 4,13). Quando egli riempie del suo amore estremo tutto lo spazio, allora posso davvero sostenere anche le relazioni più impossibili.
Nella tradizione monastica
Monaci di ogni tempo si sono applicati con rigore a questo aspetto della loro vita di relazione riguardante il giusto rapporto con il nemico. Ma anche monaci non cristiani hanno scoperto questo punto-limite e hanno fatto l’esperienza di un al-di-là in cui tutto è amore e pace. Alcuni anni fa è stato pubblicato un colloquio con il Dalai Lama, la più alta autorità religiosa del Tibet. Ecco cosa dice tra l’altro:
La compassione di cui ci parla il buddhismo Mahayana non è l’amore ordinario che possiamo provare verso coloro che ci sono cari e vicini; quest’amore può coesistere con l’egoismo e l’ignoranza. Noi dobbiamo amare anche i nostri nemici.
Se ho aiutato qualcuno come meglio non potevo e questa persona mi oltraggia nel modo più ignobile, possa io considerare questa persona come il mio più grande maestro.
Davvero una frase impressionante: metterei alla scuola e considerare come nostro maestro colui che ci ha oltraggiati! E il Dalai Lama sa bene di che cosa parla: egli è dovuto fuggire dal suo paese, tuttora occupato da un regime comunista straniero, e quanti monasteri con i loro tesori sono stati distrutti! I nostri nemici: sono i nostri maestri…
Quando i nostri amici sono in buoni rapporti con noi e ci sono vicini, nulla ci può rendere coscienti dei pensieri negativi che ci sono in noi. Solamente quando qualcuno ci osteggia e ci critica possiamo avere accesso alla conoscenza di noi stessi e possiamo giudicare la qualità del nostro amore. Perciò sono i nostri nemici i nostri più grandi maestri: ci consentono di mettere alla prova la nostra forza, la nostra tolleranza, il nostro rispetto per gli altri. Se anziché provare odio verso i nostri nemici li amiamo di più, allora non siamo lontani dal raggiungere lo stato di Buddha, la coscienza illuminata che è il punto cui tendono tutte le religioni[9].
Per quanto riguarda la tradizione cristiana ci limitiamo a prendere in considerazione la testimonianza dello starez Silvano, monaco russo morto al Monte Athos nel 1938. I suoi scritti, pubblicati dal discepolo Sofronio[10], ritornano con grande frequenza sul tema dell’amore per i nemici e della preghiera per i persecutori.
Sì, anche sulla santa montagna dell’Athos si può fare l’esperienza di avere dei nemici, e più ancora scoprire come amarli in verità.
Silvano non parla solamente a nome proprio, ma fa continuamente riferimento a chi l’ha preceduto, soprattutto a Serafino di Sarov e al proprio maestro Giovanni di Cronstadt. Di quest’ultimo dice:
Ci ricordiamo bene come, dopo la liturgia, quando gli si condusse la vettura e il cavallo ed egli vi ebbe preso posto, il popolo lo circondasse domandandogli la benedizione. Anche in una tale ressa la sua anima dimorava incessantemente in Dio; pur in mezzo a una folla simile, la sua attenzione non era dispersa ed egli non perdeva la pace. Come dunque vi perveniva? E ciò che ci chiediamo. Vi perveniva perché amava gli uomini e non cessava di pregare per loro: “Signore, dona la tua pace al tuo popolo. Signore, dona il tuo Spirito santo ai tuoi servi, perché riscaldi il loro cuore con il tuo amore, insegni loro ogni verità e li guidi sulla via del bene. Signore, voglio che la tua pace riposi su tutto il tuo popolo. Tu lo hai amato senza riserve e gli hai dato il tuo Figlio unico perché il mondo sia salvato”.
Mentre così pregava per il popolo, egli custodiva la pace dell’anima. Noi invece la perdiamo, perché non abbiamo amore per gli uomini. I santi apostoli e tutti i santi desideravano la salvezza del mondo intero e dimorando in mezzo agli uomini pregavano ardentemente per loro. Era lo Spirito santo a dar loro la forza di amare gli uomini. Quanto a noi, se non amiamo il nostro fratello, non potremo avere la pace.
Lo Spirito santo insegna all’anima un profondo amore per gli uomini e la compassione per tutti gli smarriti. Il Signore ha avuto pietà di coloro che si erano perduti e ha mandato il suo Figlio unico per salvarli. Lo Spirito santo insegna questa stessa compassione verso coloro che vanno all’inferno. Ma chi non ha ricevuto lo Spirito santo non desidera pregare per i propri nemici.
Abba Paissios pregava per un suo discepolo che aveva rinnegato Cristo. E mentre pregava gli apparve il Signore e gli disse: “Paissios, per chi preghi? Non sai che mi ha rinnegato?”. Ma il santo continuava ad aver compassione per il suo discepolo, e allora il Signore gli disse: “Paissios, grazie al tuo amore ti sei fatto simile a me”. È così che troviamo la pace. Non c’è altra via. Se un uomo prega e digiuna molto, ma non ha amore per i nemici, non può possedere la pace dell’anima. E io non potrei parlarne se lo Spirito santo non mi avesse insegnato questo amore. L’uomo che porta in sé la pace dello Spirito santo diffonde questa pace sugli altri; chi invece porta in sé lo spirito del male diffonde questo male anche sugli altri.
Il Signore ci ha detto: “Amate i vostri nemici”. Ora, chi ama i propri nemici è simile al Signore. Ma è solo per la grazia dello Spirito santo che si possono amare i nemici.
Fin dove si estende il nostro amore? Qual è la sua lunghezza? Alla scuola di Matteo noi impariamo a fare di colui che è al margine un nuovo centro di gravità, a prediligere nel nome di Gesù colui che è escluso, ad accogliere il forestiero, il peccatore e persino il nemico “nell’amore di Cristo”, “nella grazia dello Spirito santo”.
Un’ultima testimonianza può confermare i nostri passi su questa medesima via di amore e di pace. E la testimonianza di un santo monaco del IV secolo:
Coloro che sono fatti degni di diventare figli di Dio (cf. Mt 5,44 s.) e di rinascere dall’alto, da Spirito santo (cf. Gv 3,5) … piangono e gemono sul genere umano e, mentre pregano per l’Adamo totale, infiammati d’amore per l’umanità, sono presi da afflizione e pianto. A volte, per azione dello Spirito, sono infiammati da tale gioia e amore che, se fosse possibile, prenderebbero ogni uomo nelle proprie viscere, senza distinguere tra malvagio e buono. Altre volte nell’umiltà dello Spirito si abbassano talmente al di sotto di ogni uomo da considerarsi ultimi di tutti e inferiori a tutti (Pseudo-Macario, Omelie spirituali 18,7-8).
L’altezza: la glorificazione (Giovanni)
La dimensione dell’altezza dà le vertigini ai nostri contemporanei. Da quando l’uomo ha messo piede sulla luna, si sente meno a suo agio se gli si parla di ciò che lo supera. Agostino invitava i suoi contemporanei a riconoscere Dio non solamente nel più intimo della loro soggettività: Deus intimior intimo meo (“Dio più intimo della mia stessa intimità”), ma anche al di là di ciò che essi hanno di più elevato: Deus superior summo meo (“Dio più elevato di ciò che in me è più sublime”). Una cultura può essere più o meno sensibile e ricettiva ora nei confronti dell’una, ora nei confronti dell’altra dimensione; ecco, la nostra oggi si mostra non poco recalcitrante nei confronti della dimensione dell’Altezza. Ma le culture evolvono, subiscono ogni sorta di influssi, talora dal loro stesso passato. Ciò che era ancora possibile ieri e oggi non trova se non difficilmente eco potrà, chissà, rifiorire domani, nella misura in cui non ci si irrigidisce troppo nell’immagine culturale dell’oggi e si resta disponibili ad accogliere le esperienze di altre epoche e di altri luoghi.
Giovanni, lui, è un’aquila: ogni paura dell’altezza gli è estranea. Anch’egli, come gli altri primi testimoni, è stato segnato dall’amore manifestato nell’evento Gesù. Ne ha ricevuto su di sé l’impronta, e questo sigillo d’amore ha creato sotto la sua penna nuove formule ed espressioni indimenticabili:
Dio è amore (1Gv 4,8).
Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per coloro che ama (Gv 15,13).
Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio, il suo Unico (Gv 3,16).
Gesù, sapendo che era giunta la sua ora, l’ora di passare da questo mondo al Padre, lui che aveva amato i suoi nel mondo, li amò sino all’estremo (Gv 13,1).
Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli (1Gv 3,14).
Non c’è timore nell’amore, ma il perfetto amore scaccia il timore (1Gv 4,18).
Chi non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede (1Gv 4,20).
Chiunque ama è nato da Dio (1Gv 4,7).
Il linguaggio d’amore, manifestato in Gesù, sfocia in una storia d’amore che non solamente ricollega l’uomo con Dio, ma si gioca ormai in Dio stesso e si svolge come divina nell’uomo. Dio è amore, e l’uomo che vive di questo amore vive di Dio ed è in Dio, come Dio è in lui.
Questo mistero di Amore trova la sua massima espressione nei discorsi di addio che Gesù rivolge ai discepoli (Gv 13-17).
"Se uno mi ama custodirà la mia parola. li Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14,23).
L’amore lascia entrare la vita d’amore di Dio stesso e dà nel contempo accesso allo scambio d’amore tra il Figlio e il Padre. Nella cosiddetta “preghiera sacerdotale” (c. 17) il Gesù di Giovanni fissa con forza questo processo che è interamente portato da un’obbedienza e un abbandono d’amore. Gesù sta là, nell’ora della sua Pasqua, tra il cielo e la terra, sul punto di lasciare questo mondo per raggiungere il Padre. Nella preghiera egli esprime un’ultima volta attraverso la parola il senso della propria vita e della propria morte, ed esplicita il permanere di ciò che sta per compiersi una volta per tutte nel tempo. L’inizio è molto noto: "Padre, è giunta l’ora: glorifica tuo Figlio perché il Figlio glorifichi te" (Gv 17,1).
Benché quest’ora coincida con la sua morte ignominiosa, su una forca per condannati pubblici, Gesù parla di gloria e di glorificazione. In quest’ora egli glorificherà il Padre con la sua consacrazione e il suo abbandono estremo, mentre il Padre glorificherà il Figlio lasciandogli innanzitutto esercitare fino in fondo la propria libertà, ma anche elevando Gesù in e attraverso questa morte. “E ora glorificami tu, Padre, presso di te con quella gloria che avevo prima che il mondo fosse” (Gv 17,5).
Questa glorificazione reciproca viene chiamata, ai vv. 17 e 19, “consacrazione” e “santificazione”. Tutta la preghiera, con il movimento trasfigurante che la abita, trova infatti il suo punto di gravità nella consacrazione assoluta dell’orante. Tutto in questa preghiera di consacrazione è dono, oblazione, una maniera incondizionata di consegnarsi (da notare il costante ricorrere del verbo “dare”)[11]. Nell’ultima strofa di questa grande composizione si può vedere come glorificazione, unificazione, santificazione e consacrazione non sono in definitiva nient’altro che amore:
La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro perché siano uno come noi siamo uno, io in loro come tu in me, perché giungano all’unità perfetta e così il mondo possa conoscere che sei tu che mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me (Gv 17,22-23).
La gloria comunicata si radica nella gloria ricevuta divinamente. Essa crea l’unità tra gli uomini così come costituisce in modo assoluto l’unità in Dio. L’unità e la gloria tra i discepoli e tra i credenti formano una testimonianza vivente per il mondo che Dio, amore in se stesso, è ormai amore al cuore della storia degli uomini.
Padre, coloro che mi hai dato voglio che siano anch’essi con me là dove sono io, perché contemplino la mia gloria, che tu mi hai dato, poiché tu mi hai amato fin da prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
La gloria di Gesù ha il suo fondamento nella gloria stessa del Padre. Questa gloria e questo amore vengono ora comunicati, come i doni più puri fin da prima di tutti i secoli, in e mediante questa preghiera di Gesù in mezzo ai suoi.
La meditazione giovannea sull’amore attira i lettori e gli ascoltatori dell’evangelo verso un’altezza in cui ci è rivelato uno scambio d’amore glorificante che è da tutta l’eternità. Ogni parola di Giovanni sull’amore è penetrata dalla luce contemplata e rivelata in questo istante della Pasqua di Gesù.
Ormai ogni attenzione concreta di amicizia, ogni più piccolo servizio fraterno, fino all’umile gesto di lavarsi i piedi l’un l’altro, tutto confluisce in quest’unico processo di glorificazione. Niente è così disprezzabile, niente è così umiliante da non poter essere portato e abitato dal bagliore luminoso di colui che ha dato la propria vita per amore, “fino all’estremo” (Gv 13,1). “Quando sarò stato innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). “Innalzato”, in alto sulla croce, come “innalzato” nella gloria del Padre. Un unico movimento. Un unico amore, che unisce il Padre e il Figlio fin nella morte sul Golgota, “attira” ormai tutta l’umanità verso questo glorioso e sublime “abisso d’amore”.
Nel vissuto dell’esperienza cristiana possiamo riconoscere che questa forza che glorifica e santifica, che crea l’unità e abita ogni consacrazione è lo Spirito santo in persona. Benché il suo nome non compaia nemmeno una volta nel corso di questo c. 17, in realtà lo possiamo rintracciare dietro a ogni verbo di cui si serve Gesù. Gesù infatti prega “nello Spirito santo”, e lo Spirito si identifica con questo processo di glorificazione reciproca tra il Padre e il Figlio. Di più, quando Gesù muore e “glorifica il Padre”, consegna lo Spirito - ci dice Giovanni - come il Dono e il gesto di abbandono per eccellenza; allo stesso modo è lo Spirito che glorifica Gesù comunicando a tutti la sua pienezza di vita (cf. Gv 7,39; 19,30; 20,22). “Egli mi glorificherà”, afferma Gesù per esplicitare l’azione dello Spirito al cuore dei discepoli (Gv 16,14).
Amiamo, dunque! L’amore glorifica. Glorifichiamo a nostra volta: lo Spirito dentro di noi non si cura d’altro se non di glorificare amando e di amare generando un processo di santificazione e di gloria. Il padre Massimiliano Kolbe non era ormai nient’altro che amore in mezzo ai suoi coprigionieri di guerra ad Auschwitz. Ciò che contava erano gli altri: condivideva la sua razione con loro, infondeva coraggio a quelli più malati, sosteneva i feriti, accomodava di notte la coperta dei vicini, non perdeva un istante per aiutare e consolare ognuno di quelli che gli vivevano accanto. Lo faceva con gioia, anche se il suo corpo, estenuato e malato, soffriva dolori atroci. I suoi compagni di prigione che più tardi testimoniarono su di lui si ricordavano della sua figura slanciata, gracile e tutta di luce: “un principe”. L’amore in tutta la sua altezza sa discendere fino al punto più basso e giunge a glorificare anche l’inferno più disumano della nostra storia di uomini. Sì, esso rinnova la faccia della terra.
Conclusione: la croce
Che cos’è l’amore? È al di sopra di ogni conoscenza (cf. Ef 3,19).
In lui si apre lo spazio più infinito, tanto in larghezza quanto in lunghezza, in altezza come in profondità. In lui vediamo ergersi un’immensa croce cosmica che abbraccia tutto l’universo. Al cuore di questa croce si distingue uno Sguardo, un Volto: lui, Gesù, il Nazareno, le braccia distese, vulnerabile e incredibilmente libero. Le mani e i piedi trafitti e il fianco aperto formano il grande vuoto da cui zampilla l’eterna sorgente dell’amore. Chi vuol restare nascosto nelle sue piaghe, dice Bernardo, vedrà la Gloria (cf. Es 33,21 e Gv 20,25-29). Giuliana di Norwich contemplò la ferita del suo fianco e le fu dato di vedere in quello spazio piccolissimo tutto l’universo raccolto. Nell’amore di questo Messia povero, l’universale e il particolare cessano di escludersi. Attorno a lui si raduna una comunità di poveri. La speranza sostiene il loro cammino verso un Corpus Domini cosmico.
NOTE
[1] Lo scisma politico che separò il Nord dal Sud, dopo la morte del re Salomone, riflette una differenza molto più decisiva di quanto non appaia a prima vista. Sia dal punto di vista economico sia da quello sociale, ma anche per quanto concerne la rispettiva storia e le loro etnie, i due regni si differenziavano profondamente. Attraverso tutta la storia biblica - ivi compresa la generazione di Gesù di Nazaret - ci è possibile discernere una certa tipologia fra il Nord e il Sud: si può qualificare il regno del Nord come “profetico”, cioè ispirato soprattutto dai profeti, e quello del Sud come “sacerdotale”, contrassegnato dalla visione del mondo dei sacerdoti.
[2] Cf. L. Verheijen, Nouvelle approche de la Règle de saint Augustin, Bellefontaine 1980, pp. 75-105; 201-242; 243-247. In questa sua raccolta di articoli si trova un vero commento a questo primo capitolo. L’autore mostra sia il radicamento biblico e specificamente cristiano del pensiero di Agostino, sia tutta l’eredità della filosofia morale dell’antichità che egli porta in sé (soprattutto Pitagora, Cicerone e Seneca).
[3] Il punto di vista di Paolo, per quanto concerne lo zelo buono della carità, si manifesta con la massima chiarezza in occasione della celebre “colletta” da lui organizzata a favore dei poveri di Gerusalemme: in tutte le comunità cristiane di origine pagana da lui fondate egli raccomanda l’attenzione per i “santi” di Gerusalemme (cf. 1Cor 16,1-4 e soprattutto 2Cor 8-9).
[4] Il verbo chresteuetai (v. 4) non compare nella letteratura greca antica. La traduzione latina (Vulgata) ha: benigna est; l’Ambrosiaster: iucunda est. L’idea è quella di bontà, con una sfumatura di gioia: gentile, kindly si direbbe in inglese, ricordando il testo poetico di Newman: O kindly Light (“Luce gentile”). Probabilmente a determinare la creazione di questo verbo è stata la volontà di riferirsi a Cristo senza tuttavia nominarlo espressamente. Infatti, pronunciato secondo l’itacismo corrente, il verbo in questione si legge christeuetai… Ma si tratta di un argomento tanto difficile da provare quanto da confutare.
[5] È da notare che ai vv. 11 e 12 l’applicazione dei paragoni (il bambino che balbetta e lo specchio dall’immagine confusa) concerne rispettivamente il dono di parlare in lingue e quello della visione profetica (cf. Nm 12,6-8). Il dono della conoscenza compare invece nell’ultimo membro (v. 12a). Così la triade del v. 8 viene ripresa e come argomentata dai vv. 11 e 12. La terza strofa ha quindi una forma analoga alla prima: l’eccellenza dell’agape si manifesta attraverso un triplice confronto.
[6] Cf. E. Lévinas, Du sacré au saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Paris 1977, p. 158: “Che significa innanzitutto il termine ‘Misericordioso’, Rachmana, che ricorre costantemente in questo testo? Significa la Torà stessa o l’Eterno, l’Eterno che si definisce attraverso la Misericordia. Tuttavia questa traduzione è del tutto insufficiente. Rachamim - ‘Misericordia’, evocata dal termine aramaico Rachmana - viene da rachem, che vuol dire utero. Rachamim è il rapporto dell’utero con l’altro di cui in lui avviene la gestazione. Rachamim è dunque la maternità stessa. Dio è misericordioso: è Dio definito dalla maternità. C’è il commuoversi di un elemento femminile in fondo a questa misericordia”.
[7] I testi, appartenenti esclusivamente a Matteo, abbondano: oltre alla discussione in Mt 22,34-40 (che costituisce una ripresa originale di Mc 12,28-34), cf. Mt 5,17.21-48; 7,12; 9,13; (“misericordia io voglio e non sacrificio”, citazione di Os 6,6, ripresa in Mt 12,7); 19,18 (dove alle parole del decalogo viene aggiunto Lv 19,17 sull’amore del prossimo); 25,35-36.40.
[8] La genealogia di Gesù (Mt 1,1-17) contiene diversi esempi di tali inversioni. Inserendovi per esempio il nome di Tamar accanto a Giuda o “la moglie di Uria” come madre di Salomone, l’evangelista ricorda certe pagine penose e umilianti tanto per Giuda quanto per David, ma quegli episodi fanno ormai parte del compimento messianico delle 3x14 generazioni! Ciò che un tempo poteva costituire motivo di vergogna è ora assunto tale e quale dalla pienezza del Messia.
[9] J.-Y. Leloup, “Un maitre spirituel: le Dalai Lama”, in La vie spirituelle 134 (1980), p. 638.
[10] Archimandrita Sofronio, Silvano del monte Athos (1866-1938). Vita, dottrina, scritti, Torino 1978.
[11] Nel testo greco appaiono frequentemente insieme i termini dóxa (“gloria”) e (d)édoka(s) (aver “dato”): cf. vv. 1-10 e 22-24. Vi si può riconoscere un gioco di parole, particolarmente caro alla sensibilità semitica. Vorrebbe dire che la “glorificazione” sarebbe letteralmente portata e abitata dall’atto di “dare”: la gloria avviene come un dono, un regalo, in e mediante un puro abbandono.
(FONTE: Le tre colonne del mondo. Vademecum per il pellegrino del XXI secolo, Qiqajon 1992, cap. 3)