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    Stare da grandi nella chiesa: tre risposte di giovani



    (NPG 1985-07-6)

    VERSO LA COMUNITÀ PARROCCHIALE

    Vorrei raccontare la mia esperienza e alcune mie idee in proposito, senza la pretesa di dire tutto e di dirlo bene.
    Ho la stessa età e vivo in un ambiente molto simile a quello di Rossana: una parrocchia, gli amici, la «morosa», un gruppo di ragazzi da animare e... i problemi legati all'età.
    Sono cresciuto in un gruppo parrocchiale e devo dire che ho vissuto un'esperienza stupenda: ho passato anni pieni di vita, di voglia di ridere, di stare assieme, di raccontare le nostre esperienze. In questo gruppo ho fatto anche la conoscenza del mio «amore», e ho cercato di vivere la mia esperienza di coppia dentro il gruppo, senza isolarmi da esso.

    I cerchi concentrici di un gruppo

    Tutto questo fino ai 20 anni; poi l'amicizia che ci legava, pur rimanendo salda, non ha più evitato che all'incontro settimanale che avevamo sempre avuto cominciasse a mancare gente.
    A dir la verità, anche durante le superiori non c'eravamo sempre tutti. Alcuni c'erano sempre, partecipavano assiduamente, ci «credevano»; altri invece facevano riferimento saltuariamente alla parrocchia e all'incontro, diciamo per la messa domenicale e per alcune altre attività. Altri ancora, invece, erano solo buoni amici, che però non condividevano la nostra ricerca di Cristo e della Chiesa. Proprio per questi diversi livelli di appartenenza mi viene spontanea l'idea del gruppo di giovanissimi come vari cerchi concentrici, con al centro la parrocchia e via via cerchi sempre più lontani e, guarda caso, più ampi.
    Così è successo che coloro che appartenevano al cerchio più vicino al centro (gli «aficionados») hanno continuato a frequentare gli incontri anche dopo l'esame di maturità o, per coloro che lavoravano, dopo i fatidici 18 anni; mentre la maggior parte ha cominciato a disertarli, anche se poi continuavamo ad uscire assieme la domenica e la sera.
    Agli incontri però ora siamo una decina dei trenta iniziali. Il fatto di essere in meno ha condizionato pesantemente il gruppo e il momento dell'incontro: ci siamo più volte chiesti: ma vale la pena continuare in dieci? perché gli altri hanno smesso? cosa si aspettavano? dove abbiamo sbagliato?
    Personalmente credo che non abbiamo sbagliato in niente, che non è giusto contarci, che non dobbiamo avvilirci, perché i diciotto anni sono il momento delle scelte, che sono tutte da rispettare, e non tutti sono «chiamati» a rimanere nei gruppi, perché non tutti sentono la necessità di un incontro settimanale, e che molti hanno altri impegni che li tengono lontani (lavoro, università, fidanzata...).
    Se è vero che dopo i diciotto anni si deve stare nella Chiesa da «grandi», come scelta, con convinzione, è normale che alcuni abbandonino. Inoltre i gruppi delle superiori vivono soprattutto in funzione dell'amicizia fra i componenti; la «colla» non è quasi mai la completa adesione alla figura di Gesù Cristo o alla proposta della Chiesa, ma alle persone, ai leaders, agli animatori. Nei gruppi delle superiori ci sono pluralità di appartenenze, di «gusti», di interessi.

    Una succursale della facoltà di teologia?

    Invece io penso ad un gruppo-giovani come gruppo ecclesiale, dove uno possa fare una vera esperienza di Chiesa, un posto dove possa essere raggiunto dalla voce di Gesù Cristo, dove uno possa prendere l'alimento, la forza, il coraggio per poi essere un cristiano autentico nel suo mondo: nella scuola, nel lavoro, nel quartiere, nella politica, in famiglia, fra i suoi vicini, nella parrocchia. Non vedo il gruppo-giovani né come gruppo-animatori, né come una succursale della facoltà di teologia: cioè né un gruppo che raccoglie solamente i responsabili della pastorale parrocchiale (come un piccolo consiglio pastorale), né un posto dove si parla esclusivamente di dottrina, di Cristo, di ecclesiologia.
    Penso ad un gruppo dove al centro c'è ancora la vita delle persone, le loro esperienze, la loro voglia di raccontarsi e confrontarsi con la parola di Cristo. Non più un gruppo col quale trascorrere tutto il giorno, tutte le sere, tutte le domeniche, ma un gruppo di «riferimento» dove però le persone abbiano grande familiarità, dove sia possibile una «correzione fraterna».
    Sono inoltre personalmente contrario ai gruppi basati su un interesse o una situazione comune: gruppi-lavoratori, giovani-coppie, giovani-universitari... perché rendono di un aspetto della vita, anche se importante, il centro costante e unico della vita del gruppo: mi sembra molto riduttivo e, a lungo andare, anche paranoico; inoltre mi sembra discriminante per quelle persone che vorrebbero entrare nel gruppo, ma che non stanno vivendo quel particolare aspetto della vita.

    La comunità parrocchiale con garanzia e futuro

    Da tutte queste cose dette penso si capisca cosa, per me, è basilare per la vita di una parrocchia: la comunità parrocchiale. Chiamo comunità parrocchiale quell'insieme di persone che vengono dalle più disparate esperienze di vita, che hanno le più varie ideologie, le più diverse caratterizzazioni partitiche, che hanno le più diverse sensibilità, gradi di istruzione, lavoro, numero di figli..., ma che hanno in comune la fede in Gesù Cristo, la speranza di un futuro migliore che è quasi certezza, la gioia di chiamarsi fratelli. Una comunità, cioè, dove si gioisce e si soffre assieme, dove non ci dovrebbero essere un disoccupato e uno che ha il doppio lavoro; uno sfrattato e uno con l'appartamento sfitto; una famiglia che non può curare un figlio perché non ha soldi e una che ha la «Ferrari»; una comunità, insomma, che si fa carico delle persone, che le accompagna in tutto il loro cammino di crescita, che è coerente col proprio Credo e con la propria fede in Cristo.
    Impossibile? ...forse. Ma penso che dobbiamo puntare in alto, puntare su qualcosa di grande, anche se poi ci rimane il nostro gruppetto pieno di problemi.
    Però anche un piccolo gruppo di persone può aprire la strada ad altre persone più giovani. Ricordo che alcuni anni fa i nostri gruppi delle superiori si sfasciavano a tredici-quattordici anni e i ragazzi lasciavano la parrocchia. Noi più grandicelli ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo continuato a vederci, abbiamo creato la mentalità di comunità giovanile, ed ora è normale che un ragazzo stia nel gruppo fino ai 18-20 anni, perché ha il modo di vivere nella parrocchia per quello che è, senza dover fare l'enorme fatica di reinventare il gruppo giorno per giorno, come invece è toccato ai miei coetanei.
    Mi auguro che oltre ai gruppi delle elementari, delle medie, delle superiori, gli anni a venire ci portino anche altri gruppi che aiutino i ragazzi a diventare adulti, a maturarsi e a motivarsi per il loro impegno nel mondo, e una comunità cristiana che sia il fondamento, la garanzia e il futuro per questi gruppi. (Sergio, Rimini)

    OLTRE IL GRUPPO GIOVANILE NELLE STRUTTURE DELLA SOCIETÀ

    Il problema che Rossana pone è senza dubbio un problema reale e sentito, da molti giovani di provenienza cattolica, quale uno dei grossi nodi della propria esistenza; ma è altrettanto sicuramente, e forse proprio grazie allo spessore esistenziale che lo caratterizza, dotato di molte sfaccettature che rendono complessa non solo la ricerca della soluzione, ma la sua stessa formulazione in termini chiari e definiti. Che dire dunque?
    Il mio obiettivo è molto semplice e di poche pretese: la soluzione non la conosco e non so nemmeno esattamente come cercarla, ma probabilmente è possibile fare un piccolo passo nella sua direzione, se cerchiamo di capire un po' meglio in cosa consiste la questione stessa, se tentiamo di toglierla dalla foschia che l'avvolge per formularla in termini che ne delineino più chiaramente e distintamente i contorni.
    Come si dice: buona parte della strada da percorrere per risolvere un problema sta proprio nel riuscire a porlo in modo corretto!
    Un problema nasce quasi sempre da una discrepanza tra quelle che sono le nostre esigenze e le nostre aspettative, ed il modo in cui la situazione in cui ci veniamo a trovare riesce a soddisfarle. Molto spesso le nostre domande, più o meno esplicite esse siano, non ottengono risposta od ottengono risposte molto diverse da quelle che ci aspettavamo; crediamo che la realtà si presenti in un certo modo e ciò non avviene; sentiamo di avere dentro di noi esigenze importanti per la nostra vita, e ci rendiamo conto che il piccolo cosmo in cui viviamo, o il modo stesso in cui viviamo, non ci permettono di soddisfarle.
    Cercare di chiarire qual è il problema significa dunque riuscire a distinguere i due poli della questione, le domande e le risposte non date.
    La domanda che si pone, il nucleo del problema, è immediata e diretta: «esiste uno spazio per noi?».

    L'istituzione ecclesiale: quali risposte?

    Qual è la risposta reale, concreta, sperimentabile quotidianamente che il gruppo, la comunità, la parrocchia sono in grado di dare? Un incontro di catechesi biblica di stampo dottrinale, una lezione di esegesi! Il divario con le attese è senza dubbio notevole.
    L'istituzione ecclesiale mostra in questo frangente l'incapacità di offrire delle risposte ad aspettative maturate proprio al suo interno, di essere vicino a quelle persone in fase di passaggio dal mondo giovanile a quello adulto: «troppo giovani per essere adulti, ormai troppo diversi per essere giovani». Ma quali sono le radici di tale situazione?
    Elemento particolarmente indicativo mi pare quella che potremmo definire una sorta di sottocultura parrocchiale che caratterizza molte delle comunità e che, pur non essendo esplicitamente dichiarata, costituisce l'atmosfera in cui l'istituzione si trova immersa. Da questo punto di vista la comunità parrocchiale tende molto spesso a presentarsi come un sistema tendenzialmente chiuso.
    Ciò non significa necessariamente, o soltanto, che non si interessa di ciò che accade nella realtà che la circonda, ma che il baricentro gravita decisamente al proprio interno; che la tendenza, anziché essere quella di far sì che i confini che la distinguono dal mondo esterno siano sempre più labili, è quella di inglobare ciò che è al di fuori.
    Le stesse iniziative di impegno concreto, anche se rispondono ad esigenze e necessità reali del territorio, difficilmente sono gestite nella ricerca della collaborazione e della piena parità con le altre organizzazioni sociali, politiche, amministrative.
    L'evoluzione della vita delle persone all'interno della parrocchia pare quasi rinchiudersi su se stessa.
    I ragazzini vanno al catechismo, poi entrano a far parte di qualche gruppo di animazione, e poi ancora diventano catechisti o animatori a loro volta, ed in seguito animatori degli animatori o coordinatori dei corsi per fidanzati... e così via.
    Si parla spesso della realtà, dell'impegno concreto, dell'intervento diretto in prima persona; ma stranamente questa realtà non esce mai molto dai confini (ovviamente intesi non in senso fisico o geografico) della parrocchia stessa, più o meno ampi siano. Ciò porta a far sì che l'istituzione non solo non stimoli i propri membri ad uscire, ad ampliare il proprio orizzonte, a rendersi conto che il reale è quello della vita quotidiana, degli altri uomini, credenti o non credenti; e non, o non soltanto, quello dell'oratorio o del centro giovanile; ma anzi, che non dia di fatto spazio a coloro che vogliono vivere a tutti gli effetti la loro vita al di fuori, che hanno scelto il mondo come luogo privilegiato per vivere la propria esistenza e la propria fede, ma sentono l'esigenza di riflettere su se stessi e la propria vita incontrando la parola di Dio e la comunità cristiana.

    Qualche sospetto sulle nostre esigenze

    Se tali sono le risposte, vorrei riflettere un attimo su quelle che sono le domande, le attese, le aspettative che si hanno nei confronti dell'istituzione ecclesiale.
    Mi permetto di sollevare alcuni sospetti (in senso buono naturalmente!) non tanto sulla natura profonda delle esigenze che Rossana descrive nella sua lettera, quanto piuttosto sul quadro all'interno del quale sono formulate, sullo sfondo che lasciano intravvedere. Sono dubbi che nascono più da una certa lettura personale della realtà giovanile che in qualche modo ci è comune, che non dalle cose che Rossana dice.
    Il primo sospetto è che vi sia un'aspettativa di un qualcosa che è sicuramente diverso da ciò che il gruppo giovanile classico può offrire, ...ma in fondo neanche poi troppo! Mi pare di leggere tra le righe una tensione non risolta, legata alla necessità di superare i limiti un po' angusti della situazione attuale, senza avere il coraggio di abbandonarne la logica intrinseca.
    Si vorrebbe, in altri termini, un qualcosa da adulti, che assomigli abbastanza a ciò che si faceva da giovani.
    A questo punto il discorso si amplia necessariamente fino ad investire le problematiche globali del passaggio dalla dimensione del giovane a quella dell'adulto, vissuto molto spesso con una certa difficoltà, in modo tutt'altro che indolore e con notevoli resistenze.
    È un passaggio che rappresenta una discontinuità nella vita di una persona, un salto di qualità che cambia radicalmente le carte in tavola al soggtto. L'adulto non è un giovane con qualche anno in più, un giovane che si è sposato o un giovane che lavora; ma una persona inserita a tutti gli effetti ed in prima persona, senza più intermediari, nelle strutture fondamentali della società, investito da quest'ultima di tutte le responsabilità che gli spettano e di cui è di fatto chiamato a rispondere.
    Diventare adulti significa allora accettare ed assumere fino in fondo questa discontinuità; significa non abbandonare i valori e le cose in cui si credeva, ma riorganizzarli e risignificarli in modo diverso; significa guardare sempre più in avanti e sempre meno indietro.
    In questa prospettiva che ha abbandonato l'idea di una evoluzione continua e lineare della nostra realtà di giovani, possiamo forse riformulare in modo più chiaro le nostre domande, chiedendo uno spazio in cui poter confrontare la nostra vita come cristiani adulti che hanno assunto fino in fondo quale dimensione esistenziale quella della diaspora, della dispersione nel mondo fra gli altri uomini, della solitudine che non significa difficoltà o impossibilità di comunicare, ma capacità di coesistere con la coscienza del proprio essere finito e limitato, e di accogliere positivamente non solo ciò che unisce, ma anche ciò che ci differenzia dagli altri uomini. (Niky, Torino)

    DISCUTERE IL MODO D'ESSERE DELLA COMUNITÀ

    Schematicamente dico quali provocazioni e domande emergono fra le righe e a volte dalle stesse parole.
    Avverto, innanzitutto, un bisogno di chiarificazione sul significato, il ruolo, il posto della «formazione» nell'esperienza cristiana. Ma in positivo: che formazione e per che cosa? Non è detto perché Rossana e suo marito, nonostante la buona volontà, non abbiano «potuto provare a creare un gruppo di giovani sposi», importante per loro e per la comunità: potrebbe essere una chiave di volta per capire e anche per cambiare, ma la brevità del racconto non autorizza ad avanzare ipotesi. Mi sembra poi importante specificare, chiamare per nome le «problematiche e interessi diversi dagli altri giovani del gruppo parrocchiale, i quali hanno qualche anno in meno di me, ma soprattutto sensibilità ed esigenze diverse», come base per una riflessione più puntuale.
    «Ci sentiamo allora un po' sbandati e soli, un po' né carne né pesce: troppo giovani per essere adulti, ormai troppo diversi per essere giovani».
    Questo modo di esprimere il disagio di una non collocazione ecclesiale mi fa riflettere, oltre che sull'oggettiva difficoltà esistenziale che una realtà di passaggio da un tipo di vita a un altro porta con sé, sui fragili frutti di una formazione cristiana giovanile che non abbia, tra gli altri, il preciso obiettivo di abilitare ad essere adulti nella comunità; che non proponga, insieme al problema dell'essere giovani cristiani, il problema complessivo del modo d'essere della Chiesa, dei suoi rapporti col «mondo», di che «volto» desideriamo abbiano le nostre comunità, siano esse di bambini, di giovani, di adulti, di anziani, «miste». Se nelle giovani chiese africane o dell'America meridionale e centrale, uomini e donne come Rossana e suo marito sono i motori più preziosi della vita della comunità, il disagio di questi ultimi non è né inevitabile né casuale.
    Se le comunità vogliono, con libertà da «disordine stabilito», essere presenze significative e profetiche nei luoghi e suoi problemi nei quali ne va della vita degli uomini in mezzo ai quali sono (per esempio il lavoro e la disoccupazione, la qualità dello sviluppo e dell'ambiente, la pace, i rapporti uomo-donna, le condizioni per un'autentica democrazia qui da noi, la lotta contro la fame, lo sfruttamento, la violenza e la morte in Africa e America Latina) non possono fare a meno di chiunque stia nel cuore della vita e dei problemi. Se i credenti in Gesù di Nazareth sono coloro che, come Lui, condividono le povertà e le sofferenze dei più abbandonati del mondo, accolgono e risanano, vogliono la liberazione di qualsiasi prigioniero e sanno spogliarsi delle loro ricchezze per fare tutto ciò, allora le famiglie sono davvero i luoghi dove pulsa più forte il cuore della chiesa; famiglie accoglienti e sempre con la porta aperta, forse poco «normali», ma certamente «cristiane». Quest'orizzonte, mi sembra, non può essere assente in una pastorale giovanile che voglia dare solidi frutti.

    Qualche prospettiva

    Quali prospettive, allora, è possibile indicare per i problemi sollevati? E mi rivolgo a Rossana: è più semplice del tentare risposte complessive.
    Dai voce in modo più forte e preciso alle contraddizioni che avverti. La tua situazione stabile e tranquilla dal punto di vista umano (matrimonio, lavoro, una vita «normale») ti consente di concentrare l'attenzione sul problema della difficile collocazione ecclesiale di una giovane coppia. Ma nel far questo pensa a quanto più si sentiranno tagliati fuori dalla comunità ecclesiale giovani sposi che vivono con difficoltà di tipo economico, familiare, sociale. È un dramma che la Chiesa appaia così lontana ed estranea a coloro nei quali è più emergente che mai l'ansia di una vita più piena, così lontana anche a chi è già credente in Colui che è il Signore della vita. Ma una fede che non sa o non può farsi comunità, che fede è?
    Contemporaneamente fai il gruppo di giovani sposi, magari chiamando persone solitamente estranee alla parrocchia, per dare con libertà e creatività espressione alla fede maturata in tanti anni di servizio parrocchiale. Nella riflessione in comune, la scelta di fare di Gesù di Nazareth il centro della propria vita si confronterà con i comportamenti quotidiani, con le questioni più scottanti della realtà in cui si vive manifestando tutta la sua energia di cambiamento e rinnovamento. Dalla riflessione comune non potrà non nascere - cosa tuttavia inusuale per le comunità - l'esigenza di comunicare all'intera comunità parrocchiale e a tutti gli uomini e donne del proprio quartiere ciò che si è maturato, la posizione assunta nei confronti delle realtà di maggiore disagio e povertà.
    Si sperimenteranno insieme, infine, esperienze di famiglie cristiane finalmente non borghesi, ma aperte a qualsiasi forma d accoglienza, proiettate verso la comunità e non preoccupate soprattutto di curare se stesse. (Cinzia, Brindisi)


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