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    L’alfabeto dell'umano



    Riflessioni sul “luogo privilegiato dell’evangelizzazione”

    Rossano Sala

    (NPG 2013-07-03)


    «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura
    che Dio abbia voluto per se stessa,

    non può ritrovarsi pienamente
    se non attraverso un dono sincero di sé»

    (Gaudium et spes, n. 24)

    Nella recente “Nota pastorale” della Conferenza Episcopale Italiana sul valore e la missione degli oratori vi è una significativa inclusione tra il primo e l’ultimo numero: all’inizio si attesta che «il carattere di “emergenza” nell’ambito educativo, secondo le acute analisi di Benedetto XVI, è dato dalla perdita delle fonti che alimentano il cammino umano: la natura, la Rivelazione e la storia»[1]. In conclusione si dice che
    «forti di una consolidata tradizione, gli oratori devono oggi affrontare con coraggio, per un verso, il ripensamento della trasmissione della fede alle nuove generazioni nel contesto di sfida della nuova evangelizzazione e, dall’altro, l’assunzione dei nuovi linguaggi giovanili, così come dei rapidi cambiamenti dischiusi dall’avvento delle nuove tecnologie informatiche. Sempre più la riflessione pastorale intercetta la questione antropologica»[2].
    Si parte dall’emergenza educativa per giungere alla questione antropologica. Il dossier che presentiamo si pone all’interno di questi due estremi nel tentativo di intercettare e sviluppare l’intuizione secondo cui, per un corretto riposizionamento dell’impegno pastorale della Chiesa verso i giovani, dobbiamo ripartire da alcuni elementi antropologici che nel nostro contesto “tardo moderno” rischiamo di smarrire. In questo sforzo ci ritroviamo in piena sintonia anche con un significativo passaggio della prolusione pronunciata dal card. Angelo Bagnasco all’inizio della 65a Assemblea Generale della CEI, dove emerge la convinzione secondo cui,
    «per guardare a un futuro migliore, è necessaria anche una sorta di bonifica culturale al fine di discernere le categorie concettuali e morali che descrivono o deformano l’alfabeto dell’umano, con i suoi fondamentali come la persona, la vita e l’amore, la coppia e la famiglia, il matrimonio e la libertà educativa, la giustizia. È da questa attenzione di tipo antropologico che dipende la possibilità di una società umana o, al contrario, di un coacervo che sarà disumano e spietato»[3].
    È così ancora una volta confermato il parere del grande polemista cattolico G.K. Chesterton il quale, all’inizio del ‘900, ci avvertiva che «la Chiesa è l’unica a difendere qualsiasi cosa nel momento in cui è stupidamente disprezzata. E ora sta facendo suo il ruolo di unico campione della ragione nel XX secolo, come nel XIX lo è stata della tradizione»[4]. Siamo convinti che all’inizio secolo XXI la Chiesa è chiamata a difendere con tutte le sue forze l’uomo contro ogni tentativo di ottusa, insensata e stupida riduzione: questo è il nuovo kairós in cui siamo inseriti e in cui siamo chiamati a vivere, a credere e ad agire pastoralmente.
    L’itinerario proposto prevede quattro passaggi: (1) partendo dal riconoscimento che l’uomo corre il rischio massimo della disumanizzazione in un contesto sociale di basso profilo spirituale, (2) si propone un ripensamento dell’antropologia partendo dal tema della donazione, che intercetta i migliori avanzamenti dal punto di vista filosofico, teologico e socio-economico. (3) Attraverso un approccio fenomenologico si cercherà poi di mettere a fuoco quattro “temi umani maggiori”: la generazione, gli affetti, la fede e i legami. Infine (4) si pongono le basi per un’alleanza trasversale tra credenti e non credenti su una visione condivisa dell’umano, che possa proporsi come base per una rinnovata impostazione della pratica pastorale sia in ambito civile che ecclesiale.

    1. Questione antropologica, desertificazione spirituale e disumanizzazione

    L’incontro ecclesiale più rilevante di questo frangente storico è stato il recente Sinodo: la XIII assemblea generale ordinaria dei Vescovi, svoltasi a Roma tra il 7 e il 28 ottobre 2012, dedicata al tema: “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”. Come tutti questi momenti di cammino condiviso della Chiesa, ha avuto una storia remota e uno svolgimento concreto. In particolare l’ampia consultazione di tutta la Chiesa, provocata dall’invio dei Lineamenta ha prodotto l’Instrumentum laboris come base per la ricca discussione assembleare, di cui attendiamo i frutti nell’Esortazione apostolica tuttora in fase di elaborazione.
    Il presente Dossier prende avvio dalle interessanti provocazioni del n. 54 dell’Instrumentum laboris, che recita così:
    «Il saeculum in cui convivono credenti e non credenti presenta qualcosa che li accomuna: l’umano. Proprio questo elemento dell’umano, che è il punto naturale di inserzione della fede, può diventare il luogo privilegiato dell’evangelizzazione. È nell’umanità piena di Gesù di Nazaret che abita la pienezza della divinità (cf. Col 2,9). Purificando l’umano a partire dall’umanità di Gesù di Nazaret i cristiani possono incontrarsi con gli uomini secolarizzati ma che tuttavia continuano a interrogarsi su ciò che è umanamente serio e vero. Il confronto con questi cercatori di verità aiuta i cristiani a purificare e a maturare la loro fede. La lotta interiore di queste persone che cercano la verità, pur non avendo ancora il dono di credere, è un sicuro stimolo perché ci impegniamo nella testimonianza e nella vita di fede, affinché la vera immagine di Dio diventi accessibile ad ogni uomo. Al riguardo, dalle risposte risulta che molto interesse ha suscitato l’iniziativa del ‘Cortile dei gentili’».
    Il presente testo è contenuto nella sezione che si occupa degli “scenari della nuova evangelizzazione” (nn. 51-66), in cui si prende atto con un certo realismo che viviamo in un mondo culturalmente secolarizzato, ovvero che ha bandito una cornice di senso che vada oltre l’immanenza. In questo mondo, volenti o nolenti, i cristiani devono viverci, non solo attraverso lo sforzo di mostrare la differenza con i non credenti, ma soprattutto condividendo ciò che vi è di comune tra tutti gli uomini. L’antichissima e sempre attuale lettera A Diogneto pone i cristiani come differenti dal mondo, ma mai fuori dal mondo o viventi al di là di esso:
    «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per terra, né per lingua, né per costumi. Non abitano città proprie, né fanno uso di qualche dialetto speciale, né seguono un genere di vita singolare. Abitano nelle città sia greche che barbare, come ciascuno ha avuto in sorte, e seguendo i costumi locali sia per i vestiti, sia per il nutrimento e il restante modo di vivere, mostrano la meravigliosa e veramente paradossale modalità della loro cittadinanza. Abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri residenti; condividono tutto come cittadini, ma tutto sopportano come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria per loro terra straniera. Vivono sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Dio li ha stabiliti in una tale posizione, che non è loro lecito abbandonare»[5].
    Ciò che ci accomuna viene chiamato genericamente “l’umano”. Esso viene definito come “il punto naturale di inserzione della fede” e si dice che “può diventare il luogo privilegiato dell’evangelizzazione”. Due affermazioni molto forti e determinate, che certamente devono darci da pensare. Insieme alla terza in cui si pone l’attestazione dell’umanità di Gesù di Nazareth come luogo di purificazione e di incontro con quegli uomini secolarizzati “che tuttavia continuano a interrogarsi su ciò che è umanamente serio e vero”. Tali uomini vengono chiamati “cercatori della verità”, e si riconosce in loro un’esistenza in ricerca capace di interrogare gli stessi credenti in merito a ciò che è buono, vero, bello, giusto e santo.

    Il ricupero della plausibilità della fede

    Far luce su ciò che è “umanamente condiviso” può essere una chance di tutto rispetto in ordine al compito di annuncio del Vangelo nel panorama della cosiddetta “nuova evangelizzazione”. La prospettiva apre quindi il campo verso una riflessione antropologica di base, capace di riconoscere quegli aspetti dell’umano capaci di essere significativi per un recupero della plausibilità antropologica della fede cristiana.
    La questione antropologica qui sollevata ha un riferimento diretto con il rapporto tra l’evangelizzazione e l’educazione, da sempre considerata quell’insieme di attività che la società pone in essere per la crescita in umanità dei membri che si affacciano alla vita. Il n. 147 dello stesso documento afferma che
    «non si può evangelizzare senza al tempo stesso educare l’uomo ad essere veramente se stesso: l’evangelizzazione lo esige come legame diretto. Incontrando Cristo, trova la sua vera luce il mistero dell’uomo, come afferma il Concilio Vaticano II. La Chiesa possiede al riguardo una tradizione di risorse pedagogiche, riflessione e ricerca, istituzioni, persone – consacrate e non, raccolte in ordini religiosi, in congregazioni, in istituti – in grado di offrire una presenza significativa nel mondo della scuola e dell’educazione».
    L’educazione dell’uomo “ad essere veramente se stesso” è parte integrante dell’evangelizzazione, che certamente deve avere di mira di trasformare tutto l’uomo e tutti gli uomini. Ne viene in linea diretta che l’educazione deve attingere ad un’antropologia che abbia spessore e vigore teologale, in quanto il referente privilegiato dell’educazione integrata e integrale è l’umanità di Gesù.
    La tesi implicita pare essere di questo tipo: l’“emergenza educativa”, unanimemente confessata sia a livello civile che ecclesiale, va compresa ed è comprensibile come la punta drammaticamente visibile di un iceberg che ha nella più ampia, sommersa e articolata “questione/emergenza antropologica” la sua ragion d’essere radicale ed epocale, la quale va affrontata con decisione per non rendere inefficace ogni rinnovato impegno di evangelizzazione ed educazione della gioventù.
    Pare a proposito chiara l’affermazione del n. 151, che pone addirittura in primo piano la questione “metafisica” dell’educazione. L’impegno educativo della Chiesa infatti è ritenuto
    «uno strumento per mettere in evidenza la radice antropologica e metafisica dell’attuale sfida intorno alla educazione. Le radici dell’emergenza educativa attuale possono infatti essere ritrovate nell’imporsi di un’antropologia segnata dall’individualismo e di un duplice relativismo che riduce la realtà a mera materia manipolabile e la rivelazione cristiana a mero processo storico privo di carattere soprannaturale».
    La riflessione è di grande interesse, perché chiede di mettere in luce con chiarezza quali radici profonde ha una certa pratica educativa riduttiva e immanente, che non offre alcun spiraglio di trascendenza significativo. In fondo l’invito è quello di mettere in discussione il modello antropologico e teologico che sta alla base dei progetti di pastorale giovanile. Il n. 152 riporta una lunga citazione di Benedetto XVI circa le radici antropologiche dell’emergenza educativa:
    Così Papa Benedetto XVI descrive queste radici: “Una radice essenziale consiste – mi sembra – in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. […] L’altra radice dell’emergenza educativa io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano. La prima fonte dovrebbe essere la natura, la seconda la Rivelazione. […] Fondamentale è quindi ritrovare un concetto vero della natura come creazione di Dio che parla a noi; il Creatore, tramite il libro della creazione, parla a noi e ci mostra i valori veri. E poi così anche ritrovare la Rivelazione: riconoscere che il libro della creazione, nel quale Dio ci dà gli orientamenti fondamentali, è decifrato nella Rivelazione” (Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla 61a Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana [27 maggio 2010], in Insegnamenti di Benedetto XVI, VI, 1 [2010], pp. 788-789).

    La visione antropologica della nostra pratica pastorale

    Ciò che emerge con una certa chiarezza è che la questione antropologica è il vero nodo entro cui si possono porre le articolazioni di un possibile e doveroso riposizionamento della pratica pastorale.
    È quindi fin dall’inizio importante sottolineare come
    «la visione antropologica sulla quale poggiano i progetti pastorali diventa determinante per la riflessione e la prassi cristiana e, di conseguenza, deve guidare le opzioni e le scelte metodologiche. […] La base antropologica e teologica – quell’insieme di idee, orientamenti, valori e riferimenti che esprimono l’idea di Dio e di uomo – determina tutto l’edificio della pastorale giovanile»[6].
    Quando una visione antropologica condivisa dalla società vivente è spiritualmente arida diventa impossibile sia educare che evangelizzare. Non per nulla Benedetto XVI, il giorno dell’apertura dell’anno della fede, esattamente a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, nella sua omelia programmatica affermava che
    «in questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza».
    Effettivamente, «oggi noi sappiamo ancor meglio che non ci sono soltanto i deserti che precedono la nostra missione civilizzatrice, ma ci sono anche quelli che le fanno seguito»[7]. Il deserto è l’esperienza dell’aridità, della mancanza di tutto, del silenzio imposto e della vita che muore. Ma sappiamo anche che il deserto è il luogo privilegiato della prova salvifica, del riconoscimento dell’insufficienza dell’autosufficienza e dell’educazione alla relazione con il Dio vivente che fa prodigi per il suo popolo. Essere Chiesa nel deserto non è quindi solo una maledizione, ma una possibilità: quella di ritornare all’essenziale della propria vita e della propria missione.
    La desertificazione spirituale – ovvero il mancato riconoscimento della natura spirituale dell’uomo, che in sostanza rinuncia a comprendersi come creatura posta strutturalmente nella trascendenza e quindi in relazione con Dio – sta alla base della disumanizzazione, che è qui da intendersi come la dimenticanza di quelle caratteristiche di unicità e di dignità che caratterizzano ogni soggetto umano.
    Per cogliere lo scenario sostanziale del nostro tempo, proprio dal punto di vista della sua deriva disumanizzante, mi rifaccio ad un testo che mi ha particolarmente colpito tra i tanti che ho potuto leggere in questi ultimi anni. Esso riporta alcune lezioni tenute da E. Voegelin a Monaco di Baviera, intitolate Hitler e i tedeschi[8]. Di fronte a un gremito gruppo di studenti, nel 1964, il filosofo americano di origini tedesche, fuggito dalla Germania nazista nel 1938, cerca di descrivere il meccanismo che ha reso possibile il disastro politico e l’ecatombe umana di quei decenni. In tutto il testo si fa largo la condizione di fondo, quasi un leitmotiv condiviso, che ha reso possibile ciò che è avvenuto, ovvero la desertificazione spirituale della condizione umana:
    «Il lavoro di lenta e progressiva erosione delle convinzioni abituali dell’umano, il suo consegnare prima durante e anche dopo la fine dell’esperienza, diciamo così, istituzionale del nazismo, gli uomini all’agnosticismo delle convinzioni, all’incertezza di ogni terreno morale, alla revoca dei dati più ovvi dell’esperienza, l’aver rilanciato il detto di Novalis “il mondo sarà come io lo desidero”, indica come il nazismo costituisca l’orizzonte entro il quale ancora ci muoviamo e dal quale siamo letteralmente circondati. […] A leggerle attentamente le lezioni sulla discesa negli abissi hanno come vero oggetto di interesse la persistenza del nazismo nella nostra epoca, il suo prolungarsi ed estendersi oltre ogni sua sconfitta in quanto regime storico e storicizzato»[9].
    L’interesse dell’analisi dello studioso risiede nella denuncia di uno sradicamento dell’umano dalla sua verità profonda, quella teologica. Tale separazione dell’umano dalla sua relazione costitutiva con Dio – che non è solo a carico della cultura, ma anche dal disinteresse della teologia per l’uomo – è all’origine di un radicale analfabetismo spirituale che ha colpito la totalità del popolo tedesco, e che per molti aspetti continua a sussistere:
    «Il nostro problema è la condizione spirituale di una società nella quale i nazionalsocialisti riuscirono a raggiungere il potere. Quindi non sono i nazisti a rappresentare per noi un problema ma i tedeschi, tra i quali personalità di tipo nazista possono diventare socialmente rappresentative e agire da rappresentanti, da politici, da cancellieri del Reich, e così via. Poiché il nazionalsocialismo è giunto al potere nella società che lo ha preceduto, e la condizione spirituale di una società nella quale il nazionalsocialismo ha potuto salire al potere non scompare a seguito della sconfitta militare del governo nazista. Al contrario questa situazione permane anche dopo la sconfitta militare, così come esisteva prima dell’avvento del nazismo. E per poter affermare che la situazione è cambiata, è necessario esibire dei segnali molto convincenti di tale cambiamento. Potrete verificare che il cambiamento è stato quasi nullo leggendo quello che viene pubblicato tutti i giorni sui quotidiani»[10].
    Spirito e ragione sono i due doni che l’uomo ha ricevuto per guidare la sua esistenza nel mondo. La dimenticanza dello spirito è alla base di quel processo di disumanizzazione che ha caratterizzato la parabola del nazismo. Il divino, infatti, è la garanzia dell’autentica umanità dell’uomo: «il rifiuto del divino è sempre seguito da una disumanizzazione. Non è possibile negare la propria divinità senza negare la propria umanità – con tutte le conseguenze della disumanizzazione che si dovranno affrontare»[11].
    In questa situazione in cui viene negato ciò che ci piace chiamare “l’umano condiviso”, anche la Chiesa non è stata immune da una malattia spirituale, una condizione “pneumopatica”. Un’assenza e una mancanza di spirito che determina l’anestetizzazione delle istituzioni stesse: «Non si può spiegare nulla con il cliché del nazionalsocialismo. Ci troviamo di fronte a un fenomeno pneumopatologico di corruzione sociale. È necessario esserne consapevoli, in particolare nel caso delle Chiese tedesche»[12].
    Sia la Chiesa protestante che quella cattolica (a queste due denominazioni apparteneva infatti la quasi totalità del popolo tedesco), si dimostrarono incapaci di difendere la dignità dell’uomo
    «poiché anch’esse, nelle loro componenti laiche e clericali, partecipavano della corruzione, anche se a un livello inferiore rispetto ai nazisti. La Chiesa non fu capace di affrontare la situazione di una società disumanizzata, perché la perdita di realtà aveva coinvolto anche la Chiesa stessa. Il contatto con la realtà nella sua individualità in quanto theo-morphes, e in tal modo con la sua natura umana autentica, era andato perduto»[13].
    Penetrando nel mondo accademico, Voegelin denuncia il fatto che l’interesse nei confronti dell’uomo era stato escluso dalla sfera degli interessi teologici, «con il risultato che anche dal lato teologico non esisteva alcuna possibilità di dominare intellettualmente la situazione»[14].
    L’appartenenza alla Chiesa, anche a quella Cattolica (che per sua natura è universale, cioè non esclude non solo potenzialmente, ma realmente, nessuno), era diventata esclusiva e settaria, creando le condizioni per una custodia solo del proprio gruppo d’interesse. In tal modo l’appartenenza all’umanità in quanto tale non era considerata sufficiente per una presa di posizione, che avveniva solo quando gli interessi del gruppo di appartenenza venivano toccati direttamente. Risentiamo ancora Voegelin:
    «Dobbiamo tornare adesso alla questione di base di questo corso, il problema della disumanizzazione. Nel caso delle Chiese, così come di altre organizzazioni di cui abbiamo già discusso, il problema consistette nel fatto che l’uomo diventò totalmente insignificante rispetto alla sua appartenenza a un gruppo di interesse. Questo significa che, fino a quando gli appartenenti a quel dato gruppo di interesse, fossero essi cechi o polacchi, protestanti o cattolici tedeschi, non vennero colpiti direttamente, essi non ebbero nulla da obiettare al fatto che dei loro concittadini venissero uccisi, deportati nei campi di concentramento, che qui venissero maltrattati o, infine, gasati ad Auschwitz – non una sola parola per opporsi a tutti questi crimini contro l’umanità»[15].

    L’indispensabile resistena umanistica

    Certamente non mancarono singoli o gruppi di credenti coraggiosi capaci di mostrare una resistenza alla disumanizzazione – basti per tutti il teologo evangelico D. Bonhoffer o il gesuita tedesco A. Delp –, ma va riconosciuto che in linea di massima la perdita di spessore e di vigore umanistico delle Chiese ha reso possibile una vera e propria disfatta culturale della Chiesa. La testimonianza luminosa e chiarificatrice di A. Delp rimane per noi tutti un monito commovente e assolutamente attualissimo per la Chiesa e i suoi compiti odierni:
    «“In qualche modo ci manca il grande coraggio che deriva, non dal sangue caldo e dalla gioventù o dalla vitalità non domata, ma dal possesso dello Spirito e dalla consapevolezza della Grazia che abbiamo ricevuto. Ed è per questo che siamo in ansia e ci diamo alla fuga. Fuggiamo verso il cristianesimo dell’antichità, fuggiamo verso altri periodi del passato del cristianesimo – come se dal passato potessimo aspettarci una risposta e delle istruzioni, e come se non ci fosse stata data una missione fino alla fine dei giorni e questo non ci offrisse una promessa autentica per ogni giorno. Questi ‘continui rinascimenti’ sono un segnale più di debolezza che di vita. Una simile manifestazione di ansia verso la vita e verso l’assunzione di responsabilità si ritrova nella ripetuta e ricorrente restrizione nei confronti delle questioni religiose ed ‘essenzialmente ecclesiastiche’. E così si trascura che ciò che è in gioco qui è la fondamentale realtà dell’uomo in generale, anche più importante per la continuazione dell’esistenza della religione” (A. Delp). Questo è uno dei pochi casi della letteratura cattolica, e del resto anche della letteratura protestante, in cui compare la parola “uomo” e non “membro di una Chiesa”. “La Chiesa ha forse dimenticato l’uomo e i suoi diritti fondamentali? In che modo la Chiesa salverà il cristiano, se abbandona a se stessa la creatura che dovrebbe farsi cristiana [Una domanda che nessun vescovo si è mai posta, per lo meno non ufficialmente] Il fatto che… si debba rispondere… a queste domande… deve farci riflettere. Riflettere, non per ottenere parole di approvazione da parte degli uomini, ma al cospetto del Dio sovrano, che ci ha affidato le sue creature” (A. Delp). Una rarissima prova del fatto che un uomo di Chiesa di livello spirituale elevato è ben consapevole del perché egli si trovi lì. Un’altra citazione: “Con l’uomo è il cristiano che muore… La lotta per la libertà e la spiritualità dell’uomo, la lotta per una cultura autentica e onesta, sono non solo possibili ambiti di interesse per la Chiesa, ma diritti e doveri fondamentali. Non solo per la gente di Chiesa, ma anche per le istituzioni ecclesiastiche” (A. Delp)»[16].
    Per concludere, Voegelin ricorda agli intellettuali di tutte le Chiese che il maggior maestro di teologia riconosciuto, Tommaso d’Aquino, ci ricorda che «Cristo è capo del corpus mysticum, che include tutti gli uomini dall’inizio del mondo alla sua fine. Non è il presidente di un club con interessi particolari. [...] Essere cristiani non solleva gli individui dal dovere di essere uomini»[17]. Voegelin ci ricorda che il dottore angelico nella Summa theologiae III, q. 8 a. 3 si domanda infatti “Se Cristo sia il capo di tutti gli uomini” e risponde che
    «Cristo è capo di tutti gli uomini, non solo dei membri della Chiesa. Un pensatore come Tommaso d’Aquino non rinnega l’umanità. Ciò che accade a chi non appartiene alla Chiesa accade a un membro del Corpus mysticum di Cristo, proprio come se fosse membro della Chiesa. […] È un problema, invece, che la Chiesa cattolica e altre Chiese che derivano da questa attraverso scismi e separazioni di altro genere, si costituiscono come unico corpus mysticum esistente, come sei il resto dell’umanità non vi appartenesse. […] Da ciò deriva il pericolo particolare che l’appartenenza alla Chiesa – che, a livello teologico, non è necessario esaminare ulteriormente in questa sede – venga in qualche modo fraintesa come posizione speciale in opposizione al resto dell’umanità, come se il resto dell’umanità non appartenesse all’umanità, e come se l’appartenenza all’umanità fosse un privilegio dei membri della Chiesa… Quindi, a causa della tensione che ho appena descritto, si verifica una tendenza ghettizzante tra la Chiesa come istituzione e la Chiesa nel senso di Tommaso, la ecclesia come corpus mysticum, che comprende l’intera umanità dall’inizio alla fine»[18].
    Appare dunque chiaro il legame tra “questione antropologica”, “desertificazione spirituale” e “disumanizzazione”. Lottare perché l’uomo riconosca la sua intrinseca trascendenza e la viva nel miglior modo possibile è il primo modo in cui egli si riconosca come autentico uomo, prima ancora che porsi come libero interlocutore della rivelazione. Ogni volta che l’uomo rinuncia al riconoscimento e all’attuazione della sua struttura relazionale e spirituale si pone in una situazione di pericolosa deriva disumanizzante.


    2. Il principio teologico/antropologico fondante: la donazione

    Far risplendere la condizione umana quale “punto naturale di inserzione della fede” e farlo diventare “il luogo privilegiato dell’evangelizzazione” è di massimo interesse per il rinnovamento del pensiero cristiano in vista del dialogo con l’uomo d’oggi. Forse in questo consiste la “nuova apologetica” da alcuni invocata: mostrare come l’umano comune ha una struttura chiaramente aperta e orientata al riconoscimento del Vangelo. Se è vero che la proposta di pastorale giovanile dipende dall’orientamento antropologico/teologico che poniamo all’inizio del nostro percorso, proponiamo la donazione come principio irrinunciabile da cui ripensare l’umano.
    È visibile prima di tutto nella dedizione di Gesù che si compie nella sua totale donazione. Egli, vero Dio e vero uomo, ci orienta a comprendere il Dio unitrino che è in se stesso Agape e l’uomo come intrinsecamente progettato ad immagine del Figlio, quindi in una logica profondamente eucaristica, ovvero di ricezione-donazione. La differenza cristiana la fa Gesù Cristo ed essa non consiste in un generico discorso o in una comunicazione particolarmente eloquente, ma nella sua dedizione/donazione per noi che sola ci può introdurre nel regno:
    «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio»[19].

    La dedizione e la donazione di Gesù

    La dinamica della donazione in favore delle pecore è ciò che fa la differenza, perché tale gesto corrisponde esattamente e testifica l’amore del Padre per ogni sua creatura: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna»[20]. La testimonianza di Gesù è il dono di sé e niente che sia meno di questo: tutto ciò che egli mostra e dice si catalizza intorno al dono, perché, in verità, «il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti»[21].
    La vita cristiana – che dobbiamo intendere come inveramento possibile di ogni vita umana – non può essere pensata in alternativa a questa logica, ma ne è invece un possibile e doveroso inserimento operato da Dio stesso. La vocazione universalmente ed eternamente unificante non può che essere tutta orientata in questa direzione: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore»[22]. Esso è talmente vincolante che prende addirittura la forma di un comandamento che contrassegna il discepolato autentico: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri»[23].
    La partenza dall’idea di donazione-dedizione pare oggi un cominciamento raccomandato, profondamente valido. Tale logica intercetta il legame tra la Chiesa e il mondo, tra il cristianesimo e l’umanità, tra Cristo e l’uomo, tra la Trinità e la storia, tra l’incarnazione e la croce, mettendo al centro una prospettiva eucaristica.
    Soprattutto – e questo appare un vantaggio assai positivo – la questione della donazione toglie dal faticoso imbarazzo di dover partire o dall’uomo o da Dio, perché la donazione li sceglie entrambi immediatamente, partendo da quella modalità propria del legame tra l’uno e l’altro che è la donazione stessa. Il dono cioè è originariamente un atto che genera o ri-genera l’altro mettendo al centro il legame amorevole di comunione con lui. L’Agape è esattamente il legame buono per eccellenza perché «unisce in modo perfetto»[24]: in questo inciso di grande profondità teologica ci viene offerta una definizione dell’Agape come “vincolo di perfezione” o “legame del compimento”, dove vengono attuati in pienezza tutti gli altri atteggiamenti umani e cristiani fondamentali. Il dono e la donazione sono così il dispiegamento storico del buon legame, quello che rende veramente liberi attraverso la logica della comunione amorevole con l’altro.
    Bisogna cogliere con decisione il senso dell’articolazione concreta dell’esistenza di Gesù, caratterizzata dal suo riceversi continuamente dal Padre e dalla sua dedizione incondizionata agli uomini. La prospettiva della “donazione” del Figlio è quella centrale, da cui si propagano i raggi di illuminazione in ogni direzione: verso la verticalità, per comprendere la figura di Dio a partire dalla donazione del Cristo, unigenito figlio del Padre; verso l’orizzontalità, per comprendere la figura dell’uomo alla luce della donazione di Gesù, primogenito di una moltitudine di fratelli. Entrambi questi punti di vista sono possibili attraverso il riferimento alla concretissima “storia di Gesù”, che è la vicenda della sua amorevole e radicale donazione. La realtà e il mistero dell’eucaristia del Figlio sta al centro di tutto, come fonte e culmine per la comprensione di questo cammino ed in vista dell’inserimento in questa possibilità.
    La Chiesa stessa non si può pensare che come il luogo della ricezione credente (è questo il nucleo della “fede che salva”) e della attestazione testimoniante (è questo il nucleo della “fede testimoniale”) di questa donazione.

    Per una fenomonologia della donazione

    Una fenomenologia del dono-legame avrà il compito di giustificare un’antropologia basata sul dono e sulla donazione, dove si riconosce che l’uomo è un esserci per la donazione, è un essere strutturato in forma eucaristica, ad immagine del Figlio. Riconoscere che l’uomo è innanzitutto uno che riceve se stesso e che non si autogenera significa con semplicità uscire dal circuito autodistruttivo della modernità, che pensa all’uomo come libero e autonomo a prescindere dai legami che lo hanno fatto essere e che comunque lo sostengono. La genealogia reale dell’umano ce lo restituisce attraverso l’evento della nascita, cioè come un inerme e sorpreso destinatario di una amorevole dedizione da parte di altri. Egli è un individuo sociale che viene alla luce nella forma del riceversi e che solo successivamente prende coscienza della sua libertà e della sua autonomia, che senz’altro non possono pensarsi nella forma dell’emancipazione dai legami che lo hanno fatto e lo fanno esistere.
    Se «un dono non postula innanzitutto una spiegazione, ma piuttosto che lo si riceva»[25], in tal modo è già detto che la donazione implica una dinamica testimoniale, perché coinvolge esistenzialmente in un’attestazione riconoscente. Così tutta la questione dell’evangelizzazione è da intendersi in forma testimoniale. Tutta la pastorale della Chiesa è testimoniale di sua propria natura: non è primariamente un dimostrare con argomenti razionali la verità del cristianesimo, ma è un’assicurazione esistenziale del fatto che si è stati destinatari di una donazione tanto da diventare seguaci e imitatori di colui che a noi si è donato, moltiplicando così il gesto che ci ha generati nella fede, cioè la donazione-dedizione di Dio in Gesù Cristo. Così, sinteticamente, si può affermare che
    «in realtà Dio non ci rivela anzitutto delle cose, delle verità, dei doni; egli ha da comunicare una cosa sola: se stesso, se stesso come mistero assoluto. L’unica risposta adeguata – la fede – è pertanto il dono di sé del credente, offerta libera, la cui radice ultima è la coscienza umana»[26].
    La ricerca filosofica sempre più e sempre meglio tende a comprendere l’uomo come un adonato[27], ovvero come il destinatario di una continua e radicale donazione da parte di altri, comprendendo così che la donazione è il cuore dell’umana esistenza, perché non si vive senza riceversi continuamente e logicamente senza un continuo esercizio di donazione verso gli altri. Impostare la teologia “in uscita dalla modernità” diventa dunque per noi un imperativo categorico. La prospettiva della donazione è infatti segnata dal confronto con il “soggetto autonomo”: precisamente la «pretesa di aver chiuso definitivamente con questa figura e per la prima volta di volerle sostituire “l’adonato” rappresenta una “svolta” che relativizza quella della modernità»[28].
    Il decisivo punto prospettico per una rinnovata fondazione antropologica è dunque la donazione. Avendo sotto i nostri occhi gli esiti disastrosi verso cui l’umanità nel suo insieme sta procedendo, si potrebbe convenire senza troppe difficoltà sulla giustizia della donazione – che si oppone sia ad una dispotica volontà di potenza che all’autoaffezione mortifera. Insomma, pensiamo che si possa dire in buona coscienza che «il fallimento di questo modo di vivere “come se Dio non ci fosse” è ora davanti a tutti»[29] e che «l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé»[30].

    I cammini in atto

    Riposizionare l’antropologia in ordine all’idea di donazione è un’impresa in pieno svolgimento: le migliori energie in campo – siano esse filosofiche, teologiche o culturali – sono orientate al raggiungimento di questo obiettivo, che in sostanza si può sintetizzare nel tentativo di ricomprendere l’umano e la sua struttura a partire dall’ampio e articolato tema della donazione. Soprattutto in ambito filosofico e teologico, ma non solo, si hanno promettenti tentativi che vanno in questa direzione.
    Una via particolarmente valida e feconda è stata dischiusa in questi ultimi decenni dal movimento fenomenologico di matrice francese: E. Lévinas, P. Ricoeur, M. Henry, J.-L. Marion, J.-L. Chrétien, J-Y. Lacoste e altri hanno sviluppato un pensiero capace, partendo da vari punti di vista – l’epifania del volto, la passività della libertà, la radicalità della carne, la dinamica della donazione e le articolazioni della promessa – di riscoprire con forza la dinamica della donazione nel processo di umanizzazione, attraverso uno scavo entro l’orizzonte dell’alterità, tra il dato antropologico e quello teologico in maniera molto originale[31]. Tali riflessioni – che hanno fecondato e appartengono oramai di diritto anche alla teologia contemporanea – sono già abbondantemente approfondite, recensite e utilizzate in contesto teologico: basti pensare a K. Hemmerle, P. Coda, P. Sequeri, E. Salmann, per citare solo gli autori più conosciuti e apprezzati in merito[32].
    Anche in ambito sociale e culturale si sta producendo una riflessione di un certo livello sul tema del dono, che meriterebbe di essere accuratamente considerata[33]. Lo stesso magistero di Benedetto XVI, nelle sue ultime fasi, sembra orientarsi – partendo dal tema della carità e della verità di derivazione propriamente teologica – proprio in questa precisa direzione, soprattutto nella sua ultima lettera enciclica Caritas in veritate:
    «La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza. L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende – per dirla in termini di fede – dal peccato delle origini»[34].
    La logica del dono ricevuto e offerto è l’inizio e il fine dell’umano: va quindi riconquistata un’antropologia della donazione, capace di rendere conto della configurazione eucaristica dell’esistenza umana: questo va obiettivamente riconosciuto, profondamente apprezzato e adeguatamente sviluppato in tutte le sue articolazioni. La questione antropologica e la sua emergenza sta tutta nel fatto obiettivo di aver perso radicalmente questo orizzonte come punto di riferimento, sia tematico che atematico.

    Contro un’eresia moderna

    Proprio questa perdita segna la grave emergenza antropologica in cui tutti ci sentiamo profondamente immersi, nata nell’occidente moderno ma oramai esportata su scala planetaria per via, prima, della colonizzazione, e poi, della globalizzazione. La devotio postmoderna del sé, diritto oramai inalienabile del sazio e disperato cittadino globale, segna la canonizzazione del godimento autistico come fine ultimo a cui l’umano parrebbe “naturalmente” destinato. Questa “eresia” sta portando la società al suo disfacimento più totale e al singolo sta regalando solo frammenti disarticolati di “godimento solipsistico” incapaci di organizzare un senso compiuto alla sua esistenza sempre più velocizzata, versatile ed incerta. Il tentativo di guadagnare se stesso in questo controproducente movimento sottolinea la prospettiva autodistruttiva del processo stesso, destinato alla deriva triste e vuota del nichilismo, che purtroppo sempre più accompagna l’esperienza del mondo giovanile[35].
    L’uomo invece avviene a se stesso e al suo compimento proprio solo attraverso una dinamica profondamente eucaristia: il duplice riconoscimento – di essere donati a se stessi e il conseguente compito della donazione ad altri – appaiono la struttura fondante dell’umano. Il retto principio che sta dunque alla base del divino e dell’umano è attestato una volta per tutte da Gesù attraverso la sua esistenza donata, la quale afferma che solo ciò che è donato è salvato e solo ciò che tenuto per sé è davvero perduto:
    «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?»[36].
    Romano Guardini – pensatore di grande spessore che vive sul crinale tra teologia, antropologia e pedagogia – ci restituisce una riflessione su questo testo che conviene risentire interamente, per porci nella corretta prospettiva antropologica ed educativa:
    «Nel Nuovo Testamento è riportato un detto di Gesù, che ci colpisce in maniera insolita. Suona così: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; (ma) chi la perde per amor mio, la troverà” (Mt 16,25). L’espressione sta in primo luogo in un contesto immediatamente religioso, e si riferisce al modo in cui un uomo entra in rapporto con Cristo, oppure a partire di lì affronta una situazione di pericolo. Quanto più a lungo ci si misura con essa, però, tanto più si riconosce che è una parola-chiave per la comprensione essenziale dell’esistenza umana. Il vocabolo che in greco dice “vita” (psychè) può significare anche “anima”. Il suo significato si muove attorno a questi due poli; così non andiamo di certo errati , se lo traduciamo con “il proprio io vivente”. Allora, la parola di Cristo dice: chi si tien stretto il proprio io vivente, lo perderà; ma chi se ne priva, lo troverà. Apparentemente, un paradosso; in verità, la perfetta espressione di un atteggiamento fondamentale nell’esistenza umana»[37].

    3. Temi-chiave di rinnovamento dell’antropologia

    Attraverso un breve percorso fenomenologico cerchiamo di mostrare come tutto ciò sia profondamente reale nell’esperienza del venire al mondo, per poi riposizionare alcuni temi antropologici maggiori in quest’ottica. A questo riguardo è necessario ripartire da quelle esperienze comuni che il nostro immaginario dominante ha inspiegabilmente rimosso per rimettere in moto una retta considerazione dell’umano, capace di renderlo di nuovo visibile nella sua semplice e normativa verità. A questo proposito bisogna dire che una delle restituzioni evangeliche che più colpiscono è il rimprovero di Gesù circa il fatto che i suoi contemporanei, pur avendo vista e udito in perfetto ordine, non vedono e non sentono affatto ciò che si presenta davanti al loro sguardo e al loro udito. Sembra assurdo pensare ad una possibilità del genere e che questo possa valere per un’intera epoca. Per Gesù, il cui sguardo è finissimo e penetrante, è normale pensare che i suoi contemporanei “vedono senza vedere” e “ascoltano senza comprendere”:
    «Diceva ancora alle folle: "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: 'Arriva la pioggia', e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: 'Farà caldo', e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?»[38].
    Porre le basi per esibire una proposta antropologica che sappia restituire all’umano, dal suo interno, l’interrogazione teologica, ed in particolare la pertinenza e la plausibilità di quella specificatamente dell’agape che viene dal Cristo, è l’obiettivo di questo affondo. Un’operazione che persegue il «pareggiamento umanistico della verità cristologica»[39], evitando quindi saldature e accostamenti estrinseci e correlativi, che troppo spesso hanno caratterizzato l’andamento del decisivo rapporto tra antropologia e teologia.

    LA PRATICA DELLA GENERAZIONE

    Il lungo ed elaborato processo affettivo e concreto della genesi umana, che vede il sorgere del soggetto attraverso la cura amorevole, è il primo, centrale e decisivo tema da affrontare con serietà.
    Nemmeno Gesù, figlio di Dio e figlio dell’uomo, si è sottratto a questo cominciamento. Anzi, lo ha fatto proprio in tutto e per tutto, entrando nel mondo attraverso un corpo reale custodito e cresciuto in un altro corpo, altrettanto reale. Si è inserito nel mondo mediante la fecondità, è passato attraverso l’esperienza della gestazione e della nascita; ha risposto al sorriso di sua madre come ogni figlio dell’uomo e si è sottomesso al volere dei suoi genitori, in un’obbediente cammino educativo. Gesù ha vissuto nella passività e nella sottrazione di sicurezza tipica di chi è portato, nutrito, accudito, portato in braccio e amorevolmente educato. Si è messo, come Dio, nelle mani degli uomini, molto prima del gesto eucaristico di consegna totale ed incondizionata all’umanità.

    L’amore è fecondo e generativo

    L’amore, da un punto di vista fenomenologico, si chiama generazione. Mentre “amore” è un termine teorico e malleabile, che può essere piegato ad ogni ermeneutica – anche la più anti-cristiana – la parola “generazione” dice dei passaggi concreti, afferma una serie di modalità affettive ed effettive reali, che non hanno nulla di concettuale, ma si riferiscono a gesti, atteggiamenti, parole e presenza, cioè ad una pratica di vita.
    La lotta contro l’escarnazione, che è «la costante disincarnazione della vita spirituale»[40], va combattuta senza sosta: «L’idea di fondo è che noi viviamo troppo nella nostra testa, siamo profondamente escarnati, e dobbiamo uscire da questa situazione»[41]. Contro il deleterio processo di escarnazione moderna la pratica della generazione ci riporta alla concretezza della vita così com’è, nella sua tanto semplice quanto insuperabile verità incarnata.
    Generazione è il contenuto primo della parola “essere”: sia per Dio che per gli uomini. L’agape è la sua stoffa concreta, senza la quale l’essere non può essere. Dio è se stesso solo generando; l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, è se stesso facendo altrettanto.
    Interrogarci a proposito della generazione non è per nulla fuori luogo, in virtù anche della sorprendente constatazione che la riflessione ereditata non l’ha mai inclusa tra i suoi temi maggiori. Anzi, annota con un pizzico di rammarico H.U. von Balthasar:
    «La metafisica occidentale, vista nel suo insieme, si è stranamente pochissimo interrogata sull’enigma della procreazione. Certo un bambino non emerge alla coscienza con questa domanda. E tuttavia essa è presente, incognita, ma vigile e netta, nel primo batter di ciglia del suo spirito»[42].
    La meraviglia di fronte all’emergere del Terzo è un incanto che la cultura nel suo insieme tende ad emarginare e quindi a rimanere impensato: una società come la nostra non si stupisce più davanti all’evento della fecondità. Dal fatto che dall’unione dell’uno e dell’altro emerga un “terzo”, un altro che proviene da “altrove” come nuova creazione indeducibile sia dall’uno che dall’altro, sia dalla loro unione.
    Certo, una società umana fatta di donne che non vogliono essere né vergini né madri non può accedere al mistero stupefacente della fecondità e al senso profondo della sessualità. Parimenti uomini che pensano alla prospettiva del godimento narcisistico e alla manipolazione della fecondità umana in vista del possesso luciferino del principio della vita, non hanno accesso a nulla di ciò che caratterizza l’evento sempre meraviglioso della fecondità.
    L’identità sia umana che divina è “generativa”. Come il Padre è se stesso generando il Figlio, e i due sono se stessi co-spirando lo Spirito, così l’uomo è veramente partecipe di Dio facendo altrettanto, sia dal punto di vista carnale che spirituale. Ciascuno accede alla sua identità riconoscendo di essere stato generato e concedendo disponibilità per continuare l’opera di generazione. La fecondità è una verità che si pone direttamente contro l’auto-generazione e l’auto-filiazione, che significa, in fondo, coltivare la fantasia di crearsi da sé, senza la necessità di essere legato a qualcuno. È vero invece, in maniera assoluta, che di se stessi si muore, alla maniera di Narciso: si vive invece ricevendo-si e trasmettendo-si.

    La meraviglia della nascita

    La nascita è uno dei momenti più traumatici della vita di ogni uomo, così come lo è il momento del parto per la vita di una donna. I legami fisici si rompono, avviene una separazione scioccante e il bambino si trova in una situazione del tutto inedita, in cui comincia a sperimentare la sua radicale carenza e dipendenza in maniera diretta e apodittica. Pian piano fa l’esperienza della mancanza, di non essere una monade auto-riferita e autarchica. Necessita di altro rispetto a se stesso e soprattutto necessita di altri, senza cui non potrà mai essere se stesso.
    Siamo convinti che la natività è una dinamica essenziale dell’esperienza umana e che la modernità l’ha rimossa dal suo orizzonte tematico. Il motivo pare essere tanto profondo quanto semplice: la fenomenologia della natività non ci restituisce affatto un uomo attivo, libero, indipendente, razionale, auto-riferito, padrone di sé e autonomo. Esattamente, invece, ci invita a confrontarci con un figlio d’uomo assolutamente passivo, incapace, dipendente, debole, dominato dagli istinti e completamente disarmato e disorientato, in totale balìa degli altri. Insomma, l’esatto contrario rispetto alla folle fantasia coltivata per tutta l’epoca moderna da un uomo che ha rimosso le sue reali origini.
    La nascita attesta la nostra filialità. Il taglio del cordone ombelicale non elimina il nostro legame, ma lo trasforma. Lasciando però una memoria corporea indelebile: l’ombelico è infatti il sintomo di un’apertura originaria mai cancellata, una ferita primitiva la cui traccia rimane per sempre: è il segno perenne che non veniamo da noi stessi, ma che la nostra vita è dipesa totalmente dal legame con nostra madre. Questo concetto del cordone ombelicale è una idea universale che fa parte dei cosiddetti archetipi junghiani e fa parte del bagaglio culturale dell’uomo, dai chakra della filosofia orientale alle scienze educative più agnostiche. Forse non sarebbe fuori luogo una filosofia e una teologia che partisse dall’ombelico, inteso come rappresentazione corporea della nostra filialità ontologica, segno inequivocabile della nostra eccedenza rispetto a noi stessi.
    La scena della natività, in cui madre e figlio, che hanno condiviso il loro destino per un lungo periodo, si separano, è quindi altamente formativa per ogni uomo, perché lo pone nella situazione adatta a riconoscere la sua provenienza radicalmente gratuita e amorevole, costitutivamente filiale.

    Generazione ed educazione

    Lo sviluppo della generazione si innerva e si identifica con quello educativo, che accompagna il bambino fino alla giovinezza. Oggi l’educazione ristagna in una situazione di profonda confusione e di grande affanno: lo smarrimento del fine ultimo, sostituito da una pluralità sempre più contraddittoria di obiettivi di piccolo cabotaggio, ha creato le condizioni per una crisi educativa senza precedenti. L’educazione deve ritornare ad essere integrata, ovvero deve riferirsi a tutto l’uomo. Contro una laicità di stampo moderno che, per esempio, predica ancora la privatizzazione della questione affettiva e religiosa, vi è la necessità di ritornare ad una formazione del soggetto integrale, capace di farlo progredire integralmente e di prepararlo a vivere in una società che tenga conto di tutto il suo bagaglio personale, sia esso culturale, religioso, sociale, psicologico e affettivo. Senza nulla escludere di ciò che è vero, buono, bello, giusto e santo.
    Contro la riduzione procedurale dell’educazione si deve proporre di ripensare alla questione educativa in termini di generazione. Essa passa attraverso tutto il coinvolgimento esistenziale dell’educatore e del giovane. L’educazione, insomma, è questione di mente e di cuore, di sapere e di testimonianza, di competenza e sapienza, di organizzazione tecnica e di sacralità dell’esistere. I Vescovi italiani colgono questo nesso in maniera precisa quando affermano che
    «esiste un nesso stretto tra educare e generare: la relazione educativa s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli. L’uomo non si dà la vita, ma la riceve. Allo stesso modo, il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti. Si inizia da una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale. Il legame che si instaura all’interno della famiglia sin dalla nascita lascia un’impronta indelebile. L’apporto di padre e madre, nella loro complementarità, ha un influsso decisivo nella vita dei figli. Spetta ai genitori assicurare loro la cura e l’affetto, l’orizzonte di senso e l’orientamento nel mondo»[43].

    L’ECCEDENZA DEGLI AFFETTI

    La fenomenologia della generazione che abbiamo brevemente tracciato è trasversalmente attraversata dalla presenza degli affetti: essi segnano la vita fin dal suo accendersi, tanto che possiamo affermare che la loro presenza è quella sporgenza che ci fa essere.

    Affettività e sviluppo dell’umanità dell’uomo

    Una massa biologica diventa individuale, cioè non più divisibile, quando incomincia a percepire gli stimoli del mondo esterno e a cogliersi interiormente. In una porosità radicale tra interno ed esterno del corpo, che con gradualità va configurandosi, gli affetti sono i catalizzatori del soggetto, che gli permettono di avvertire e organizzare l’esperienza e di afferrarne i primi segnali di senso. Il piacere e il dolore sono i primi affetti fondamentali intorno ai quali si comincia a distinguere la specificità delle passioni che segnano ogni esistenza dall’inizio alla fine: gioia, mancanza, allegria, pace, angoscia, tristezza, terrore, ira, pienezza, serenità, invidia, orgoglio, e cosi via.
    Non essendo misurabili, non è possibile costruire una teoria scientifica sugli affetti, essi possono essere solo osservati e descritti. Sono un’insorgenza arcana. Essi sono, in un certo senso, “infondati”, vengono dal nulla, sono un’insistente sollevazione ex nihilo. Come un flusso ininterrotto dall’inizio alla fine della vita, gli affetti sono quell’eccesso che, per molti aspetti, coincide con la stessa esistenza. Senza una vita affettiva sarebbe per noi incomprensibile immaginarci come esseri umani: possiamo e dobbiamo quindi affermare che l’umano è affettivo.
    Quella che i moderni chiamano ratio e gli antichi logos al confronto degli affetti è una comparsa molto tardiva, che si inserisce e opera sempre in un alveo affettivo. Non bisogna quindi pensare che vi sia schermatura tra logos e affectus, perché entrambi questi modi d’essere sono presenti e si condizionano reciprocamente. È importante comprendere però che non vi è logos senza affectus, ma che vi può essere affectus senza logos: il logos è forma e configurazione dell’affectus, e l’affectus è fondamento e sostegno del logos.

    Ontologia degli affetti

    L’ontologia è quindi cosa degli affetti prima che della ratio: l’essere è amorevole, prima che ragionevole; o meglio, non può essere ragionevole se prima non è amorevole. Non per nulla, solo quando l’essere non è amorevole si pone il dubbio metodico circa la sua esistenza, consistenza e ragionevolezza.
    Il lavoro psicanalitico – similmente a quello spirituale –, a questo proposito, esibisce sempre più e sempre meglio che il lavoro di ricomposizione e guarigione dell’Io è sempre di natura affettivo-relazionale più che logico-razionale. Anzi, non di rado l’armatura logico-razionale ha una struttura refrattaria che fa da impedimento al trattamento. La terapia psicanalitica infatti può portare a risultati solo se ha come premessa un “disarmo” dai dispositivi difensivi messi in campo da un logos che, il più delle volte, non si fida di niente e di nessuno, rinchiudendo tutto l’umano in una fortezza recintata e inaccessibile.
    La forma originaria affettiva dell’umano rimanda immediatamente al desiderio, che segnala un eccesso nell’umano, impossibile da eliminare e altrettanto impossibile da saturare. Esso è un punto interrogativo posto nel nucleo più profondo dell’uomo: rimanda al carattere sacro del suo esserci più profondo.
    Gli affetti non vivono in cattività. Nel momento in cui si tenta di imprigionarli l’umano ne è mortificato in tutto e per tutto. Quando la loro esistenza e dignità viene calpestata, non riconoscendo il ruolo e l’onore che si addice loro, l’energia potente degli affetti può vendicarsi in forme decisamente incontrollabili e devastanti. Di violenza inaudita.
    La perversione moderna sta nel tentativo di afferrare e conquistare questa irriducibilità strutturale dell’umano. In più va detto che la mutilazione degli affetti che ha caratterizzato tanti secoli di pensiero logico-sistematico – seguiti sempre da sforzi di ordinamento della società in base a rigidi sistemi razionali chiusi –, si è rovesciata oggi in una vendetta esplosiva degli affetti, tanto che il culto di un’emozione impazzita si impone in tutti i campi: al tentativo di eliminare ogni affectus in nome della ratio, segue il tentativo opposto di eliminare ogni ratio in nome dell’affectus[44]. Questo dominio affettivo irrazionale è causa di un disordine morale senza precedenti e, cosa peggiore di tutte, teoricamente giustificato: il sentire è diventato così la norma suprema del bene, nel senso che qualsiasi affetto, solo per il fatto che è percepito, è sempre considerato in linea di massima buono e lecito, cioè un diritto individuale acquisito sacrosanto e inalienabile.
    Mentre il sapere tecnico, oggi più che mai, ci permette una sopravvivenza dignitosa, la questione dei significati può essere affrontata solo affettivamente. Il riconoscimento di un senso dell’esistere passa attraverso un investimento affettivo che solo nei legami buoni può nascere, crescere e consolidarsi.

    Il proprium dell’umano

    Se il proprium dell’umano sta nella creazione dei significati, a ciò va aggiunto che il processo è determinato affettivamente: non è possibile entrare nel regno dell’insorgenza dei significati dell’esistenza a prescindere dalla connotazione emotiva e sentimentale dell’esistere.
    Una ratio può porre obiettivi immanenti, strumenti operativi, cammini e metodi, legami procedurali e burocratici. Tutti bisogni, lo sappiamo, assolutamente necessari all’esistere, di cui non possiamo fare a meno. Ma non sufficienti per una vita piena: il senso e il significato complessivo della vita, infatti, passa invece attraverso un percorso connotato affettivamente fin dall’inizio, di cui il processo della generazione rende ampiamente conto. È opportuna la creazione di una nuova grammatica che sostenga l’articolazione affettiva dell’esistenza e ne renda conto: un logos ampliato e dilatato infatti invoca e necessita un’adeguata grammatica, altrettanto allargata.
    La fantasia del post-umano arriva a sognare la piena disponibilità delle origini, il pieno controllo sull’umano attraverso la sua manipolazione genetica. Infatti il livello biologico dell’essere è considerato dalla “narrazione scientifica” l’unico esistente, nel quale tutti gli “altri” livelli troverebbero una spiegazione esauriente. È quindi logico pensare che il pieno controllo di esso significhi automaticamente il totale dominio dell’umano nel suo complesso.
    La struttura affettiva del soggetto afferma invece l’impossibilità di tale prospettiva. Essa ci porta a considerare che il livello biologico è solo un aspetto, seppur importante, della singolarità dell’individuo sociale. Tale singolarità infatti si riferisce ad altro rispetto al puro dato biologico: gli affetti, i legami, l’inconscio, il sociale-storico appartengono all’umano tanto quanto il biologico e sono irriducibili ad esso. L’identità non è concepibile partendo da una sola ontologia, ma necessita di essere pensata su livelli d’essere differenti, tanto irriducibili quanto inseparabili.

    La buona eccedenza affettiva dell’umano

    È quindi strategico, oggi più che mai, una seria riflessione sugli affetti che fanno la differenza e sono la differenza. Solo essi hanno la forza, l’energia e l’autorità per resistere all’omologazione biologica dell’umano, facendo emergere l’individuo come un autentico soggetto. Insieme con i legami, che ne sono la loro solida articolazione, gli affetti attestano l’assoluta singolarità del soggetto, la quale è sempre eccedente ed irriducibile, cioè definita da una buona indisponibilità.
    Gli affetti, insomma, sono una porta aperta verso il sacro e la trascendenza, che coincide con l’interrogazione mai conclusa circa la nostra origine e la nostra destinazione. Il sacro è così quell’interpellanza permanente che comincia dall’indisponibile eccesso affettivo che caratterizza ogni vita umana e termina con la questione della religione e di Dio come possibilità di un buon compimento dell’esistenza.
    La questione del sacro rimanda obiettivamente alla religione, che fin dai primordi è la sua tematizzazione sociale e istituzionale. In ultimo il sacro rimanda altrettanto obiettivamente a Dio, che ne è il referente privilegiato e il fondamento creduto. L’interrogazione su Dio è quindi interna all’uomo e ne è, per così dire, il nucleo duro e scioccante sì narcotizzabile, ma mai eliminabile. Essa rimanda ad una sua possibile iniziativa, ad un possibile evento capace di svelarne le articolazioni e l’identità: se esso avvenisse sarebbe percepibile solo attraverso il coinvolgimento della fede e non altrimenti, perché per vedere la verità bisogna infatti credere, cioè abbandonarsi ad essa.

    LA GIUSTIZIA DELLA FEDE

    L’irriducibilità degli affetti, l’eccedenza umana che ne segue e la successiva interrogazione del sacro, che coinvolge la religione e Dio, obbligano al confronto con la fede, da intendersi in prima battuta come quell’atteggiamento intimo complessivamente adeguato allo statuto irriducibile, eccedente ed interrogante dell’umano. “Fede” è la parola che segue logicamente, nel nostro itinerario. Proprio l’umano la richiede, la invoca, la cerca e non ne può fare a meno. La fede è quell’atteggiamento, quell’affetto che lega la promessa del buon compimento della vita al presente in cui esso manca, ma che appunto, in un certo senso, è vivo e attuale nella forma dell’anticipazione.

    Contro la narrazione classica della secolarizzazione

    Sulla giustizia propria della fede ci dobbiamo allora intrattenere. L’essenza della giustizia, lo sappiamo, sta nel dare ad ognuno il suo. Né più né meno, ma appunto il giusto. Rendere giustizia alla fede significa riconoscerle il corretto spazio di esercizio e la dignità propria ad essa dovuta.
    Tutto l’itinerario moderno della riflessione può essere considerato un tentativo di rimozione della fede come figura accreditata del sapere. La narrazione tradizionale della secolarizzazione asserisce che alla crescita della ragione corrisponde direttamente una diminuzione della fede. Tale narrazione classica prevede, sul lungo periodo, una liquidazione totale della fede e un avvento dell’uomo caratterizzato da un sapere totale.
    Ora, contro tutto questo itinerario, che oggi riconosciamo ingannevole e scorretto, si tratta di affermare – certamente in maniera non ingenua né superficiale, ma passando attraverso la fornace purificante della modernità – che è cosa legittima, onesta e doverosa per l’uomo vivere di fede.
    La fede è la figura di un sapere autentico che si addice all’uomo giusto, all’uomo che prende coscienza della sua costituzione irriducibile, eccedente e sacra. Il senso del nostro percorso è quello di offrire elementi decisivi per reintegrare la fede come figura pertinente ed adeguata del sapere, partendo da un punto di vista intimamente antropologico e non direttamente teologico.
    Un assunto morale della nostra epoca – che ha ancora un fascino enorme ed una forza attrattiva di tutto rispetto – considera l’uomo che ha finalmente abbandonato il mondo irrazionale della fiducia e della fede come riuscito e maturo, perché completamente inserito nel mondo della ragione. Avrebbe lasciato la condizione infantile della fede per entrare nello stato adulto del sapere. È evidente come, in un modello teorico di questo genere, la giustizia appartiene al sapere e non alla fede: la fede, inserita in questa cornice di senso, non si addice all’uomo autonomo, finalmente maggiorenne; o meglio, gli si addice in quanto rimane ancora immaturo, infantile o ingenuo. Il nostro immaginario sociale occidentale è plasmato a partire da questo assunto tanto taciuto quanto tremendamente attivo. Affermare apertamente la propria fede in un ambiente pubblico o intellettualmente impegnato, oggi sembra una dichiarazione di minorità che, in maniera politicamente corretta, non conviene compiere per nessun motivo, perché Il risvolto pratico di una tale attestazione consiste nell’ostracizzazione più o meno immediata da quell’ambiente.

    La fede come sapere della promessa

    La fede è innanzitutto indispensabile: è logico pensare che eliminando il nucleo traumatico/creativo dell’umano si perde la sua specificità. Ora, se tale nucleo fosse saputo razionalmente, non sarebbe più eccessivo ed eccedente, e in tal modo l’umano sarebbe perso. La fede invece – in quanto sapere non comprensivo – è quella forma singolare di sapere che rispetta e custodisce il modo proprio di essere dell’uomo, la sua specifica forma d’esistenza. È da riconoscere allora che la fede, in prima battuta, deve essere definita come quella forma di sapere adeguata allo statuto eccedente dell’umano.
    Contro un sapere che ricerca assicurazione e certezza nella comprensione di ciò che circonda l’uomo, la fede sa che questo, per quanto riguarda l’origine prima e il compimento ultimo – ma anche gli affetti e i legami ordinari della vita – non è possibile. In tutti questi ambiti la sicurezza è sottratta: invece il sapere e la fede convivono intimamente.
    La fede è quella promessa di pienezza il cui adempimento è tanto desiderato quanto sottratto alla possibilità di chi crede. In questo senso possiamo affermare che la fede è sottrazione di sicurezza. È una possibilità più che plausibile che la madre torni, e la fede lo afferma con la sua certezza singolare, generando così la sua pace; ma non è in suo potere la realizzazione di questo ricongiungimento, ma totalmente nell’iniziativa dell’altro. In questo preciso senso la fede è un relazione affettivamente istituita che non è in nostro potere far giungere a pienezza, ma il cui compimento ci è radicalmente sottratto e ci rende dipendenti dall’altro, di cui abbiamo somma necessità per essere in pienezza noi stessi.
    Dichiarare che la fede è umile e che rende umili non è quindi fuori luogo. Perché solo così si attesta la nostra totale insufficienza ad essere noi stessi con le nostre proprie forze e in maniera autonoma, senza la necessità degli altri: solo già dal punto di vista umano «la fede esclude da sé l’auto-fondazione come il proprio contrario»[45].
    La fede dunque non assicura, ma promette; non offre certezza, ma credibilità; non è auto-centrata, ma eccentrica; non è garantita, ma affidabile; non offre compimento immediato, ma ne anticipa la presenza. Vero dunque affermare che la fede, nella sua articolazione intrinsecamente relazionale, vede l’invisibile presenza dell’altro nella parola data circa il suo ritorno. La parola è quindi promettente, capace di saldare il desiderio alla realtà del ritorno atteso ma non ancora realizzato. La fede è allora da considerarsi un investimento affettivo che colma una distanza, che riempie un vuoto, che vede al di là del visibile, che è certa della realizzazione della parola data. Essa è quindi intrinsecamente rischiosa e avventurosa, perché non tiene nulla in mano, al di là di una parola data tanto affidabile quanto incompiuta.
    Un secondo passaggio, logicamente legato alla considerazione della fede intesa come sottrazione/donazione di sicurezza, si impone. Il compimento, così come l’origine, non sono immediatamente disponibili e accessibili. Se così fosse, saremmo in presa diretta con la verità senza mediazione alcuna. E avrebbe ragione sia la “narrazione scientifica”, sia, per altro verso, il fondamentalismo religioso, determinati da un sapere diretto, oggettivo e indiscutibile, da mettere letteralmente in atto sine glossa.
    Va riconosciuto invece, contro il delirio di onnipotenza generato dalla modernità, che l’uomo non è in grado di abbracciare il principio e la fine della sua esistenza sociale-storica in maniera comprensiva. La decisione finale sulla questione del senso complessivo e finale della realtà è possibile solo nella forma della fede, intesa qui come uno slancio in avanti che anticipa le conclusioni, in una prospettiva che, razionalmente parlando, rimane indecidibile.
    La struttura della fede, che sostiene qualsiasi opzione circa il senso ultimo dell’esistere – quindi una posizione sia di credenza che di incredulità, sia di agnosticismo che di nichilismo – fa da base comune per tutti. L’anticipazione fiduciale fa parte dell’umano-che-è-comune, appartiene di diritto a quello strato universale di funzionamento che caratterizza l’esistenza umana in quanto tale nei confronti del sapere circa la verità. L’atto proprio della fede cristiana, come ogni altra fede religiosa che si riferisca ad un contenuto oggettivo, non è quindi da intendersi come un atto estrinseco rispetto all’umano, ma come una richiesta esplicita che gli viene dalla sua struttura fiduciale e anticipatoria, cioè radicalmente storica e simbolica. Il sapere della fede cristiana non può presumersi in modo diverso rispetto a questa struttura antropologica comune: infatti esso sa la verità nella forma dell’anticipazione fiduciale del compimento che gli viene offerto dalla “storia di Gesù”, considerata appunto degna di fede.
    L’evidenza non appartiene al soggetto in proprio, ma gli conviene appunto solo nel modo di una libertà che si pone nelle mani dell’altro e attende da lui che gli venga il desiderato adempimento. In ciò colui che crede sa benissimo che il compimento ha una sua evidenza – perché è oggettivamente sostenuto da una parola e da gesti affidabili –, ma sa anche altrettanto bene che non è in suo potere attuarlo, ma solo attenderlo, anticipandone l’attuazione nella pratica della fede.

    LA LIBERTÀ RICONDOTTA AI LEGAMI

    La generazione, gli affetti e la fede, di cui abbiamo trattato, sono pratiche sociali, avvengono nei legami, come legami, e mai senza di essi. Restituire quindi ai legami la loro dignità ontologica, la loro necessità strategica e la loro radicale irriducibilità è un’operazione di onestà e rettitudine, oggi più che mai necessaria.
    I quattro temi si richiamano e si innervano, sono pensabili solo uno nell’altro, in una continua e profonda compresenza e inclusione vivente. In un certo senso sono un’unica sinfonia, impossibile da separare se non formalmente. Solo in sede metodologica ciò è possibile, con tutte le cautele del caso, mai pensando che uno di essi possa sussistere senza gli altri.

    L’individuo istituito dai legami buoni

    Ogni aspetto di senso della nostra esistenza rimanda alla loro concreta e vivente conformazione, ogni volta inedita e originale: soprattutto le pratiche sociali che ci definiscono e ci istituiscono nella nostra identità relazionale e quindi storico-narrativa sono impossibili da pensare al di là dei concreti processi generativi, affettivi e fiduciali che storicamente si vengono a creare di volta in volta. La visione dell’individuo come immediatamente sociale, ovvero istituito dai legami e vivente nei legami ci spinge a ripensare ad alcune istituzioni dell’umano che affondano le loro radici nella costituzione pratica e patica dell’uomo.
    La liquefazione del fine ultimo ha portato il soggetto individuale moderno ad acquisire un ruolo capitale, che mai prima aveva avuto. La sua libertà, intesa in prima battuta come possibilità di scelta, ha ottenuto una potenza mai vista prima, tanto che nell’immaginario contemporaneo “soggetto” e “libertà” sono concetti quasi identici, sovrapponibili perfettamente.
    L’esaltazione della libertà individuale e dei diritti che ad essa si riferiscono è un tratto caratteristico di tutta la modernità – sia essa alta, media e bassa. Non c’è molta differenza e nessun rovesciamento tra modernità classica, postmodernità e ipermodernità su questo aspetto: nelle loro economie interne tutte e tre mirano al massimo di libertà possibile, anche se in modi diversi e talvolta opposti. Che la libertà sganciata dai legami sia diventata il fine potrebbe essere riconosciuto come il denominatore unico di tutto il progetto della modernità, che poi si realizza in forme differenti.
    Ora questa visione è da contestare, riconoscendo invece nella libertà auto-referenziale non un fine, ma una condizione necessaria in vista della costituzione dei legami buoni. Il fine sono i legami buoni, ovvero la comunione, l’agape; la logica della donazione. E la libertà è un presupposto imprescindibile, la conditio maior ed insostituibile perché i legami siano veri, buoni, belli, giusti e santi. Ma fraintendere la libertà, comprendendola come il fine ultimo dell’esistenza, è totalmente fuorviante. La libertà non è il fine dei legami, ma la condizione insostituibile che li rende possibili e li mantiene nella loro giustizia:
    «La libertà non è istituita come fine, ma come mezzo, per rendere possibile l’espressione; il suo obiettivo non è l’auto-realizzarsi, va garantita perché è l’unico mezzo per auto-rappresentarsi, per essere in condizione di entrare in rapporti consapevoli con gli altri. Per i greci, il fine non era la libertà, ma il bene e la bellezza. […] Si può istituire consapevolmente una società soltanto se si istituisce un modello educativo, in cui si trasmetta il processo di socializzazione, e si educhino gli individui ad amare la libertà, in quanto funzionale al bene e alla bellezza»[46].
    Se si vuole davvero uscire dalla modernità va abbandonata quella concezione condivisa per cui la libertà è considerata il fine dell’esistenza. La libertà va ricondotta ai legami. Va rimessa al suo posto, cioè al servizio dei legami buoni. Una libertà per se stessa o fine a se stessa è insensata e mortifera, come quella di Narciso.

    La libertà in ordine alla filialità

    Solo una libertà ricondotta ai legami buoni può andare a compiersi nell’agape offerta da Dio nell’evento di Gesù, in cui bisogna riconoscere il vero fine ultimo dell’uomo. La stessa Sacra Scrittura non ci restituisce mai una libertà fine a se stessa, ma sempre orientata alla verità – che sola rende liberi –, alla carità – che sola compie la libertà nei buoni legami sia della carne che dello spirito – e al cammino di discepolato – che ne è l’attuazione storica. La liberazione che il Figlio ci ha portato è una chiamata alla libertà in ordine ad una vita di carità: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri»[47]. La libertà è da considerarsi originariamente filiale e solo così può essere compresa con verità e in questo il dettato neotestamentario è particolarmente eloquente, tanto che
    «se c’è un punto comune a tutta la tradizione neo-testamentaria della libertà, è il fatto che essa è intimamente legata all’esperienza della “filiazione”: “i figli sono liberi” (Mt 17,26), afferma Gesù a Cafarnao nella scena in cui viene interrogato sulle imposte e le tasse; e Paolo confida ai romani: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi” (Rm 8,15) – “la libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21) è qui sottintesa. Essere di Dio, e scoprirsi tali, è liberante»[48].
    Per meno di questo viene tradita l’essenza, la vocazione e il ruolo concreto della libertà, che è generata nei legami iniziali della vita e si afferma fin da subito nel desiderio nuziale. Viene plasmata nell’affetto amorevole di un legame e si compie nondimeno nell’amore, in ogni stagione della vita. Non è dunque la prima e l’ultima parola dell’umano e del divino, ma la condizione per la realizzazione sia dell’umano che del divino, che del loro compimento comunionale.
    L’idea feconda che l’uomo sia per sua natura figlio, e che non smetta mai di esserlo, deve trovare ancora un posto adeguato nella riflessione del nostro tempo, ancora afflitto da un delirio di onnipotenza che ha nell’assurdo tentativo dell’auto-generazione una delle sue espressioni più chiare: in sintesi, alla libertà va riconosciuta una configurazione filiale e un destino nuziale. Solo tra questi due termini, che formano una netta e precisa inclusione, si può cogliere la sua essenza propria: la libertà non è autonoma né eteronoma, ma originariamente filiale; non è auto-referenziale né etero-referenziale, ma ha una destinazione nuziale.
    La ricomprensione filiale e nuziale della libertà in sede antropologica – la quale quindi diviene se stessa nei legami e non in opposizione ad essi – ha in sé tutti gli elementi per una rivoluzione culturale. Qui è depositata la forza per ribaltare l’immaginario condiviso contemporaneo che, strutturato sull’ideale moderno, oscilla continuamente tra il registro monistico e quello dialettico, eludendo così la provocazione portata da Gesù, quella dell’agape, che ci chiede di ripensare radicalmente, oltre che la fede, anche la libertà, che ne è la sua condizione intrinseca e mai eliminabile.


    CONCLUSIONE
    PER UN'ALLEANZA TRASVERSALE TRA CREDENTI E NON CREDENTI

    I temi qui affrontati sono chiaramente antropologici, anche se si innervano radicalmente con la rivelazione portata da Gesù: se ben condotti e ben compresi, mostrano con chiarezza la rilevanza antropologica della fede cristiana. Incontrarsi sul terreno dell’umano, riconoscendolo come “il punto naturale di inserzione della fede” che “può diventare il luogo privilegiato dell’evangelizzazione”, significa offrire una base antropologica condivisa anche con chi non si dichiara credente pur interrogandosi in forma autentica circa l’umano[49].

    Laicità interrogante e religione umanistica

    Qui ci sono già molti motivi per proporre e accogliere un’alleanza in grado di opporsi alla desertificazione spirituale e alla conseguente disumanizzazione. Il nostro mondo, che sta uscendo faticosamente dalla modernità, non può più pensare di utilizzare gli ingenui ed ideologici schemi ereditati – quelli che contrappongono credenza e incredulità – semplicemente perché non ci aiutano a cogliere le minacce che ci vengono dall’oggi. Dobbiamo invece convenire con un pensatore lucido come Charles Taylor, il quale ci assicura che il campo di battaglia è molto più articolato del previsto e necessita di un più ampio e complesso paradigma interpretativo, di una mappa non solo bidimensionale, ma tridimensionale e addirittura quadridimensionale, dove è possibile intessere “alleanze trasversali” per una qualche causa comune: oggi
    «vi sono i sostenitori di un umanesimo secolare, vi sono i neonietzscheani e vi sono coloro che riconoscono un bene che va oltre la vita. Qualunque gruppo può allearsi con un altro gruppo contro il terzo su qualche importante questione. I neonietzscheani e i fautori di un umanesimo secolare condannano la religione e respingono ogni idea di un bene che vada oltre la vita. Ma i neonietzscheani e chi riconosce il trascendente sono accomunati dal distacco con cui assistono ai continui scacchi dell’umanesimo secolare, e concordano anche sul fatto che la sua visione della vita manca di una dimensione cruciale. In un terzo scenario, i fautori dell’umanesimo secolare e i credenti si alleano nella comune difesa di un’idea di bene umano contro l’antiumanesimo degli eredi di Nietzsche.
    Tenendo conto del fatto che coloro che riconoscono il trascendente sono anch’essi divisi, si potrebbe introdurre in questo quadro anche un quarto partito. Alcuni ritengono che l’intera transizione verso l’umanesimo secolare sia stata soltanto un errore che va corretto: è necessario ritornare a una precedente visione delle cose. Altri, tra i quali mi colloco anch’io, ritengono invece che il primato pratico della vita sia stato una grande conquista del genere umano e che vi sia stato qualcosa di vero nell’autonarrazione illuminista. Potremmo essere persino tentati di dire che l’incredulità moderna sia stata provvidenziale, ma questo modo di porre la questione potrebbe forse apparire troppo provocatorio»[50].
    Ci troviamo quindi con quattro posizioni in due raggruppamenti distinti: il blocco dell’immanenza, composto di un umanesimo esclusivo di stampo illuminista e di un antilluminismo antireligioso, e il blocco della trascendenza, composto da una prospettiva restaurativa e da una innovativa. Emergono incroci, alleanze trasversali e veti incrociati molto interessanti e complessi, che certamente rendono maggiormente avvincente la partita.
    Al di là della considerazione circa le singole posizioni e i tanti incroci possibili, ciò che in questo quadro mi pare importante estrarre con precisione è l’alleanza che qui ci interessa: quella tra una laicità che definirei “interrogante” e una credenza “umanistica”. Questi due mondi hanno il dovere di resistere insieme con tutte le proprie forze all’alleanza tra uno scientismo “monistico” ed un fondamentalismo di matrice “religiosa”.

    Scientismo monistico e fondamentalismo religioso

    Il discorso della “narrazione scientifica” che sta conquistando l’immaginario delle masse si presenta, ufficialmente, come il regno del sapere non mediato, della ragione, del calcolo preciso che non lascia alcuno spazio al dubbio. Insieme alla scienza, nello stesso modello teorico, agisce il fondamentalismo religioso, che si presenta anch’esso sempre nella forma del sapere indiscutibile, cioè nella forma di una gnosi, piuttosto che della fede autentica, minando così il nucleo stesso dell’esperienza credente. Vi è così una curiosa identificazione tra uno scientismo orizzontale e un fondamentalismo verticale, perché, in entrambi i casi, la “verità” si mostra in forma immediata e diretta attraverso, ad esempio, la lettura del testo sacro di riferimento, sia esso scientifico o religioso, come se si trattasse di una formula matematica immutabile da applicare senza necessità di alcuna mediazione interpretativa culturale, storica, sapienziale, spirituale ed ecclesiale. Entrambi questi mondi sono accomunati dalla forza di un sapere e non con la vulnerabilità, l’umiltà e da quella sottrazione di sicurezza che accompagna sempre ogni fede degna di questo nome. Addirittura, ci istruisce S. Žižek, uno dei pensatori più acuti del nostro tempo,
    «si è obbligati a trarre la conclusione paradossale che nell’opposizione fra i tradizionalisti umanisti laici e i fondamentalisti religiosi, siano gli umanisti ad appoggiare la credenza, mentre i fondamentalisti appoggiano la conoscenza. Questo è quanto possiamo imparare da Lacan a proposito dell’ascesa del fondamentalismo religioso: il suo vero pericolo non sta nella minaccia che esso pure comporta per la conoscenza scientifica laica, ma nella minaccia per la credenza autentica stessa»[51].
    Assistiamo così a un curioso rovesciamento di prospettive tra il dominio della scienza, che si presenta come rifugio dall’incertezza, e le chiese, che invece sembrano divenire i santuari del dubbio. Scienza e religione si sono scambiate di posto: rispetto al passato, pare che oggi la scienza fornisca quella certezza che una volta era la religione a garantire. La religione rimane uno degli ultimi spazi disponibili in cui esprimere dubbi critici sulla società odierna, uno dei pochi luoghi di resistenza, che, insieme ad un sapere squisitamente umanistico, si contrappongono allo scientismo e al fondamentalismo religioso.
    Siamo interessati a stringere alleanza con tutti coloro che intendono la vita umana come una promettente – seppur altamente drammatica e talvolta tragica – eccedenza che va custodita, garantita e coltivata. Contro ogni riduzione di sorta operata dall’ideologia del post-umano, che sopprime l’uomo come soggetto irriducibile di ragioni e passioni, di affetti e storia, di libertà e responsabilità. In fondo, non siamo che all’ultimo stadio cancerogeno del nichilismo:
    «come conseguenza estrema della volontà di uccidere Dio, oggi, con le teorie post-umane, neuroscientiste e cognitiviste, siamo di fronte a un tentativo di “uccidere l’uomo”, mettendo in crisi la dimensione della “soggettività storica” che ne ha accompagnato la vicenda storica»[52].
    Il clima culturale che si respira richiede una decisa ed energica reazione: una vera e propria mobilitazione intellettuale, capace di risvegliare una società narcotizzata dal continuo inseguimento di espedienti per obbedire all’imperativo dell’illimitato godimento narcisistico, che è il rinnovato vincolo di cattività che il capitalismo selvaggio continua ad aggiornare a ritmi vertiginosi per ottundere i cuori e distogliere le menti dall’evidente assurdità di questo circolo vizioso, che minaccia di auto perpetuarsi all’infinito.
    Si tratta, in fondo, di un unico ed ultimo totalitarismo, che trova nella coalizione tra false promesse di uno scientismo arrogante e un mercato eticamente irresponsabile un patto d’acciaio, che solo un’alleanza di responsabilità sociale su larga scala può cercare di scalfire.

    Un’alleanza in difesa dell’eccedenza

    Mi pare che solo un autentico pensiero della differenza e dell’eccedenza sia adeguato oggi per intraprendere un corretto cammino di custodia dell’umano. Per questo l’appello che ci viene dal sacro – inteso qui in prima battuta come ciò che sfugge strutturalmente ad una possibile conquista da parte della ragione procedurale – va apprezzato e valorizzato come autentica istanza sabotatrice del monismo scientista e fondamentalista. Esso custodisce una volta per tutte quella felice e benedetta eccedenza dell’umano che non è mai gestibile a piacimento da qualsivoglia laboratorio di ingegneria genetica o governo illuminato, e che fa dell’uomo da sempre un’esistenza radicalmente e profondamente indefinibile e sempre sporgente sul mistero.
    Così diventa necessario riscoprire la ricchezza di alcune esperienze umane universali come luogo di interpellanza del sacro: la memoria grata della generazione e della nascita come radicale dipendenza dalla cura e dall’amore di altri, la continua insorgenza degli affetti che manifestano quell’esuberanza creativa mai riducibile a banali reazioni chimiche del cervello, l’esperienza della sofferenza e del dolore che ripropongono ogni volta singolarmente l’enigma del senso ultimo dell’esistere, il desiderio di amore e di pienezza che interpella il cuore ogni uomo degno di questo nome, la potenza inaudita dell’inconscio che irrompe con il suo linguaggio invadente e sconvolgente, mostrando come l’alterità è parte dell’identità ed è insopprimibile. Tutti beni di prima necessità per l’ominizzazione che stiamo barattando con un alcuni scampoli di fine stagione moderna: benessere materiale e godimento narcisistico, entrambi in fondo mortiferi se lasciati a loro stessi.
    Senza un recupero di questa istanza siamo destinati a cedere senza un soffio di opposizione all’idea per cui non siamo nient’altro che – per usare l’immagine tanto chiara quanto sconvolgente di M. Ferraris – dei complessi e articolati girarrosti[53]!
    La partita, come si può intuire, ha un puntata piuttosto alta, e ci pone davanti una biforcazione netta circa le visioni del mondo che si stanno configurando con una certa nitidezza. Ecco perché è doveroso ascoltare – semplicemente in veste di uomini, prima ancora che di laici o di credenti – l’appello di un Papa che solleva la questione dell’ultimo e radicale nome di Dio, quello di Agape, come l’unico caso serio per cui vale la pena di combattere con tutte le energie disponibili. L’idea di dare rilievo ad un uomo che dalla cattedra di Pietro imposta la missione sui temi della speranza e dell’amore – partendo dalla profonda convinzione che tali questioni trovano la loro condizione di esercizio in virtù di una ragione e di un diritto esaltati come fonti universali da custodire e promuovere –, non può che suscitare simpatia, interesse e attenzione agli occhi della moltitudine di coloro che hanno caro al loro cuore il destino di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
    E in tutto ciò, è bene ribadirlo infine con decisione, non c’è nulla di confessionale, perché, come Benedetto XVI ha recentemente riaffermato davanti al parlamento tedesco il 22 settembre 2011, «contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante dalla Rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto». Il legame originario tra logos, ius ed ethos non è direttamente fondato a partire dalla rivelazione, ma è da essa confermato nella sua intrinseca bontà e rettificato laddove ha perso il suo originario splendore: per questa precisa ragione le esigenze etiche fondamentali non prescrivono la fede cristiana come condizione vincolante in chi le difende e le promuove.

    NOTE

    [1] Conferenza Episcopale Italiana (Commissione Episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali - Commissione Episcopale per la famiglia e la vita), “Il laboratorio dei talenti”. Nota pastorale sul valore e la missione degli oratori nel contesto dell’educazione alla vita buona del Vangelo, Roma 2013, n. 1.
    [2] Ivi, n. 28.
    [3] 20 maggio 2013, n. 13.
    [4] G.K. Chesterton, La Chiesa Cattolica. Dove tutte le verità si danno appuntamento, Lindau, Torino 2010, 19.
    [5] Lettera A Diogneto, 5,1-2.4-5.9;6,10.
    [6] J.L. Moral, Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, LDC, Leumann (TO) 2010, 216.143.
    [7] P. Sequeri, Charles de Foucauld. Il vangelo viene da Nazareth, Vita e Pensiero, Milano 2010, 21.
    [8] E. Voegelin, Hitler e i tedeschi (Grandi saggi 1), Medusa, Milano 2005.
    [9] Ivi, 16 (dall’introduzione di R. De Benedetti).
    [10] Ivi, 54-55.
    [11] Ivi, 64.
    [12] Ivi, 131.
    [13] Ivi, 133.
    [14] Ivi, 134.
    [15] Ivi, 165.
    [16] Ivi, 174.
    [17] Ivi, 176.
    [18] Ivi, 178-179.
    [19] Gv 10,11-18.
    [20] Gv 3,16.
    [21] Mc 10,45.
    [22] Ef 5,1-2.
    [23] Gv 13,34-35.
    [24] Col 3,14.
    [25] J-L. Marion, Dio senza l’essere, Jaca Book, Milano 1987, 194.
    [26] C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità. I (Nuovi saggi teologici 78), Edizioni Dehoniane, Bologna 2009, 140.
    [27] Utilizziamo il termine “adonato” nel preciso senso in cui lo utilizza il filosofo francese J.-L. Marion, soprattutto al termine del suo testo Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione (Mistero e verità 1), SEI, Torino 2001, 304-390, in particolare 327-331. Analizzando il dipinto della Chiamata di Matteo del Caravaggio egli afferma: «Così nasce l’adonato, che la chiamata fa succedere al “soggetto” come colui che riceve se stesso interamente a partire da ciò che riceve» (ivi, 327).
    [28] C. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità. I, 276.
    [29] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 77.
    [30] Cfr. Gaudium et spes, n. 24.
    [31] Gli approfondimenti in questa precisa direzione sarebbero moltissimi. Cfr. almeno P. Ricoeur, Sé come un altro (Di fronte e attraverso 325), Jaca Book, Milano 1993; E. Lévinas - G. Marcel - P. Ricoeur, Il pensiero dell’altro, Edizioni Lavoro, Roma 2008; J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione; Id. (a cura di U. Perone), Dialogo con l’amore, Rosenberg & Sellier, Torino 2007; Id., Il fenomeno erotico. Sei meditazioni; Id., Riduzione e donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia; Id., Dio senza essere; Id., Credere per vedere. Riflessioni sulla razionalità della Rivelazione e l’irrazionalità di alcuni credenti; M. Henry, Io sono la verità. Per una filosofia del cristianesimo (Biblioteca di cultura 16), Queriniana , Brescia 1997; Id., Incarnazione. Una filosofia della carne (Mistero e verità 3), SEI, Torino 2001; J.-Y. Lacoste, Esperienza e assoluto. Sull’umanità dell’uomo, Cittadella, Assisi 2004; J.-L. Chrétien, La ferita della bellezza (I rombi - Nuova serie 64), Marietti, Genova 2010; S. Currò, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Lévinas e Marion (Biblioteca di Scienze Religiose 189), LAS, Roma 2005; J.D. Caputo - M.J. Scanlon (ed.), Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione, Mimesis, Milano - Udine 2012.
    [32] K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano (Contributi di teologia 1), Città Nuova, Roma 19962; P. Coda, Dalla Trinità. L’avvento di Dio tra storia e profezia, Città Nuova, Roma 2011; Id., Dio che dice amore. Lezioni di Teologia, Città Nuova, 2007; E. Salmann, Passi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede, Cittadella, Assisi 2009; R. Maiolini, Tra fiducia esistenziale e fede in Dio. L’originaria struttura affettivo-simbolica della coscienza credente (Dissertatio - Series Romana 41), Glossa, Milano 2005; F. Ceragioli, «Il cielo aperto» (Gv 1,51). Analitica del riconoscimento e struttura della fede nell’intreccio di desiderio e dono (Studia taurinensis 38), Effatà, Cantalupa (TO) 2012; C. Bazzi - R. Amici, Donare. Esegesi, teologia e altro, Urbaniana University Press, Roma 2012. Cfr. anche i tre numeri monografici della rivista Teologia sul rinnovamento dell’antropologia teologica: Antropologia e teologia: un ripensamento urgente, in «Teologia» 34/3 (2009) 319-519; Gesù Cristo e l’uomo: il caso serio della libertà, in «Teologia» 35/3 (2010) 323-504; Lineamenti di antropologia teologica: interpretazioni, in «Teologia» 36/3 (2011) 315-520.
    [33] Cfr., ad esempio, G. Gasparini (ed.), Il dono. Tra etica e scienze sociali (I grandi piccoli 25), Edizioni Lavoro, Roma 1999; P. Gilbert - S. Petrosino, Il dono. Un’interpretazione filosofica (Opuscola 116), Il melangolo, Genova 2001; J.T. Godbout (in collaborazione con A. Caillé), Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 20072; Id., Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare, Vita e Pensiero, Milano 2008; E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2005; A. Pelli (ed.), L’essere come amore. Percorsi di ricerca (Idee - Filosofia nuova serie 158), Città Nuova, Roma 2010; M. Aime - A. Cossetta, Il dono al tempo di internet (Vele 52), Einaudi, Torino 2010; L. Sandonà (ed.), La struttura dei legami. Forme e luoghi della relazione, La scuola, Brescia 2010; M. Hérnaff - M. Anspach - E. Sarnelli - D. Falcioni (a cura di D. Falcioni), Che cosa significa donare? (Strumenti e ricerche 66), Guida, Napoli 2011; F. Brezzi - M.T. Russo (ed.), Oltre la società degli individui. Teoria ed etica del dono (Temi 201), Bollati Boringhieri, Torino 2011.
    [34] Caritas in veritate, n. 34.
    [35] Cfr. U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Serie Bianca), Feltrinelli, Milano 201014, di cui condividiamo alcune analisi ma non certamente la prospettiva globale.
    [36] Mt 16,24-26.
    [37] R. Guardini (a cura di C. Fedeli), Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica (Emmaus - Scritti di spiritualità e cultura religiosa), La Scuola, Brescia 1987, 41.
    [38] Lc 12,54-57.
    [39] P. Sequeri, Sensibili allo spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti (Sapientia 5), Glossa, Milano 2001, 53.
    [40] C. Taylor (a cura di P. Costa), L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2010, 965.
    [41] C. Taylor, L’età secolare, 769. «Lo sviluppo moderno è ciò che abbiamo chiamato “escarnazione”, in particolare l’esaltazione della ragione distaccata quale strada maestra verso la conoscenza, anche nelle faccende umane» (ivi, 935).
    [42] H.U. von Balthasar, Gloria. Un’estetica Teologica. V: Nello spazio della metafisica. L’epoca moderna (Già e non ancora 35), Jaca Book, Milano 19912, 549.
    [43] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 27.
    [44] Cfr. M. Lacroix, Il culto dell’emozione, Vita e pensiero, Milano 2002.
    [45] E. Jüngel, Dio mistero del mondo (Biblioteca di teologia contemporanea 42), Queriniana, Brescia 19912, 225. «Abbandonare veramente se stessi significa: rinunciare all’autofondazione. La fede è infatti quell’autodeterminazione dell’uomo in cui questi […] rinuncia all’autofondazione» (ivi, 240). Per tutto il tema antropologico della fede come “sottrazione di sicurezza” (applicato però immediatamente nel suo risvolto teologico), si vedano le pertinenti argomentazioni del teologo evangelico nel § 12: “La certezza della fede come sottrazione di sicurezza” (ivi, 225-244), dove si afferma che «un uomo completamente assicurato smetterebbe di essere uomo. Essere uomo è di più e qualcosa di molto diverso dall’essere assicurato. Un uomo totalmente assicurato sarebbe una mera parte del mondo, un sosia dell’uomo, affine a un robot, una spaventosa caricatura dell’uomo. Infatti l’uomo è uomo nel fatto di fidarsi di un altro che non sia se stesso. In ciò rientra anche il fatto che egli sappia fidarsi. Essere uomini significa: sapersi fidare» (ivi, 239).
    [46] P. Barcellona, L’oracolo di Delfi e l’isola delle capre. Le conversazioni greche sul Ruolo Terapeutico (L’eco 50), Marietti, Genova 2009, 83. Una libertà senza limiti, aggiunge il pensatore catanese, rischia anche di identificarsi con il desiderio: «Si è persa l’idea di confine e si è persa l’idea del limite, tutto può essere fatto, al posto della libertà è subentrata un’ideologia del desiderio. […] Credo che si debba mettere in discussione questa idea smisurata del desiderio, in cui si è perso il senso del limite, perché perdendo il senso del limite si ha una rimozione, una negazione delle passioni. La libertà senza vincoli è il contrario della relazione, è la negazione dei legami sociali» (Id., La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Dedalo, Bari 2007, 80).
    [47] Gal 5,13.
    [48] C. Theobald, Trasmettere un Vangelo di libertà, 43.
    [49] Cfr. P. Barcellona - P. Sorbi - M. Tronti - G. Vacca (ed.), Emergenza antropologica. Per una nuova alleanza tra credenti e non credenti, Guerini e Associati, Milano 2012.
    [50] C. Taylor, L’età secolare, 799-800.
    [51] S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, 133. «Nell’opposizione tra tradizionali umanisti e fondamentalisti religiosi sono gli umanisti a stare dalla parte della fede, mentre i fondamentalisti stanno da quella della conoscenza» (Id., In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Ponte delle Grazie, Milano 2009, 47).
    [52] P. Barcellona, Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Dedalo, Bari 2010, 125.
    [53] Cfr. M. Ferraris, Anima e iPad. E se l’automa fosse lo specchio dell’anima?, Guanda, Parma 2011, 28.130.141.


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