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    Carlo Nanni

    (NPG 2000-01-05)

    1. Quest’anno è l’anno del Giubileo. E, come si dice negli ambienti ecclesiali, è per eccellenza tempo di grazia, tempo di misericordia, tempo di salvezza.
    Credo che sia importante, dal punto di vista della pastorale giovanile, approfondire gli esiti educativi di questo evento.
    Ma non so dire bene perché, in prima battuta, a me è venuto in testa, di collegarlo alla canzone di Jovanotti, quella che inizia con i rintocchi di un orologio a pendolo, seguito da un’esclamazione: «Tempo!»; e poi dalla frase: « e no, che non mi annoio, non mi annoio!».
    Purtroppo penso che, invece, ci sono tanti giovani che si annoiano e che hanno paura o sono ossessionati dal tempo, da questo nostro tempo; giovani per i quali la fine del secondo millennio e l’alba del duemila non sono iniziate proprio sotto il segno della vita, dell’impegno gioioso e fattivo; per i quali non c’è molto orizzonte di futuro davanti ai loro occhi; e che – forse senza troppa coscienza – sentono piuttosto la pesantezza dei giochi già fatti, dei «truschinamenti» politici, dei bombardamenti della propaganda economica e degli spot commerciali, veicolanti «parole d’ordine» collegate alle ferree logiche di mercato, soprattutto quello internazionale: quello che cavalca la tigre della globalizzazione e del presentismo, quello che si serve della «persuasione occulta» mass-mediale.

    2. Come si potrà «giubilare», allora, con questi giovani? Come si potrà togliere dal loro cuore la pesantezza della vita, la tristezza del presente, l’assenza del futuro?
    Vorrei per questo, previamente, soffermarmi un poco a riflettere e a cercare qualche suggestione pedagogica a riguardo del tempo.
    Sul giubileo come evento religioso e come particolare momento storico, ritorneremo in un prossimo intervento.
    * Nella tradizione occidentale, quella che Aristotele e la ricerca scientifica moderna hanno codificato e utilizzato nella loro attività di pensiero e di azione, il tempo è soprattutto «cronologia», cioè codificazione controllata del divenire delle cose, dei processi materiali che circondano la vita e l’esistenza umana, distendendoli spazialmente secondo una linea di prima e dopo («tempus est mensura motus secundum prius et posterius», recita la filosofia scolastica tradizionale). È piuttosto esterno all’esistenza personale: c’è da agguantarlo, perché «fugit irreparabile tempus» (=il tempo se ne va e se non lo si cavalca… si è belli che «giocati»).
    L’ossessione del tempo, la preoccupazione di non essere all’altezza del tempo, di non partecipare dei benefici del momento, è diventata una questione di vita e di morte – soprattutto per i giovani e per i rispettivi genitori – in un’epoca in cui, più di tutto, importa avere, possedere, essere presente, contare oggi o mai più.
    All’opposto altri non ci badano più di tanto. Vivono alla giornata: forse perché è quello che fa meno male e quello che alla fin fine si può vivere senza troppi pensieri e «arzigogolature» intellettuali, etiche o religiose.
    * Con il cristianesimo si è dato spazio all’interiorità, al tempo interno, vissuto. S. Agostino, nelle sue Confessioni (libro XI), dopo aver «confessato» di considerare il tempo un mistero, crede tuttavia di poter dire che è quasi una «distentio animi» (= un estendersi e un dilatarsi dello spirito): attraverso la memoria ci si allarga sul passato; attraverso l’attenzione ci si mette a fuoco sul presente, attraverso l’attesa ci si prolunga sul futuro.
    Forse questo tempo psicologico è abbastanza avvertito oggi da molte persone (anche da molti giovani?): quasi come un rifugio di fronte all’imperversare dei messaggi, della chiacchiera e del pettegolezzo privato e pubblico, della ciarla inconcludente e fallace di quei «nuovi sofisti» che sono i politici quando parlano o appaiono sui telegiornali e soprattutto nei «talk-show».
    Ma il rischio della chiusura nel privato e nell’intimistico è grande.
    * Con Bergson e con la fenomenologia di Husserl appare l’idea del tempo come «durata», vale a dire come fluire del mondo e della vita, che segna le cose ma anche l’esistenza personale; che trasporta con sé il passato e proietta il presente sul futuro, con movimenti inerziali, con trascinamenti pesanti, ma anche con spinte in avanti e con intenzionalità progettuali più o meno coscienti.
    La coscienza ci fa avvertiti di questa compartecipazione ai processi e alla vita del mondo, del nostro essere presi talora nel vortice degli eventi, di momenti che non passano mai o di istanti in cui tocchiamo il cielo col dito. E non c’è orologio che tenga! O meglio, c’è un orologio interno sintonizzato con quello esterno; non spazializzato sulla sfera; senza lancette standardizzate o meridiane a raggi di sole; non riportabile indietro o in avanti come si vuole o per l’ora solare. È il tempo della vita, nostra e delle cose, interno ed esterno, oggettivo e soggettivo, quantitativo e qualitativo, evolutivo e catastrofico: quello che non finisce mai e quello che ha interruzioni e stacchi tremendi, che segnano il corpo e lo spirito, il soma e la psiche, le persone individuali, i gruppi e le collettività.
    * A loro volta gli esistenzialisti (Heidegger, Jaspers, Marcel, Merleau-Ponty…) hanno reso evidente il fatto che oltre ad «avere tempo», «siamo tempo»; che esistiamo nel tempo come spiriti incarnati. La nostra carne e il nostro sangue, ma anche i nostri pensieri e i nostri propositi, i nostri ricordi e le nostre attese, sono intrisi di tempo, sono codificati in culture storiche, sono distesi nello spazio. Non ci sono elevazioni spirituali senza basi materiali; non ci sono intuizioni intellettuali senza le spinte delle sensazioni empiriche o gli stimoli delle rappresentazioni concettuali. Questo vivere il tempo va dai mondi del privato a quelli dello «spettacolo» sociale e pubblico (in cui si può oggettivare ed essere oggettivati, dominare ed essere dominati: dall’organizzazione sociale, dagli altri, da noi stessi, come ha messo bene in risalto Sartre).
    Vivere il proprio tempo; dare spazio e valore ai mondi vitali e non solo alla prestazione efficace richiesta dal mondo dell’organizzazione socio-economica; e peraltro sentirsi parte di un mondo culturale, per quanto differenziato e disorganico esso possa risultare; consolidare il senso della personale appartenenza ad una storia sociale comune: sono alcuni percorsi pedagogici che scaturiscono da certe insinuazioni teorico-filosofiche.

    3. Il Signore afferma che lo spazio-tempo passa (e con essi la loro «figura» storico-culturale), ma la sua Parola non passa. Egli stesso ci assicura che è con noi «tutti i giorni fino alla fine del tempo/mondo» (nel linguaggio biblico le due realtà sono dette con un unico termine: «aevum», in latino, e «aion», in greco, che significano anche «età», «civiltà», «generazione»). S. Paolo ci dice che con l’incarnazione del Verbo di Dio è stata superata la divisione tra uomo-donna, ebreo-greco, schiavo-libero, ma anche il tempo è stato «riconciliato» con l’eterno. Gesù stesso afferma nel Vangelo che, con la sua venuta, «oggi» (= nel tempo, in ogni tempo, nel nostro tempo) si è compiuta e si realizza la salvezza. Per questo, ormai, ogni tempo è tempo favorevole (= kairos), tempo di vita.
    Non sarà questo un modo di fare il «giubileo»?


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