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    Che cosa dobbiamo fare?


    Sguardi pastorali

    Michele Falabretti

    (NPG 2014-02-7)

    Che cosa dobbiamo fare? Domanda intrigante e decisiva, se non fosse che è già stata anticipata dal vangelo in un contesto di particolare attesa: quella del Messia.
    Domanda che torna, spesso, di fronte alle questioni che la pastorale giovanile di ogni ordine e grado pone quotidianamente. Attenzione, perché è la stessa domanda che ci si fa ogni volta che si apre un gioco in scatola che non si conosce. E oggi, forse, stiamo rischiando di prendere la pastorale giovanile come un gioco in scatola: qualcuno studia una strategia, mette a punto delle regole, disegna uno scenario et voilà - il gioco è fatto.
    Forse non è al "che cosa", che dobbiamo tornare. Ma all'attesa. Quando ero un bambino aspettavo una cosa come se fosse l’ultima cosa al mondo da desiderare e un istante dopo averla ricevuta era già abbandonata sul pavimento della cucina. Era immensamente più bello aspettare. Perché le cose avute si rivelavano oggetti piccoli. Il mio desiderio invece restava grande. Questo mi sembrava veramente misterioso. Il desiderio è ostinato. Non impara nulla dai fallimenti. Mettiamo gli occhi, mentre cresciamo, su cose sempre più grandi. Ma il desiderio non si riempie mai.
    Fare pastorale giovanile significa incrociare questo desiderio profondo che abita ogni bambino, ragazzo, adolescente e giovane che incontriamo. Sapendo che il loro desiderio può placarsi soltanto attraverso la relazione con gli altri che in definitiva sanno mostrarci la possibilità di incontrare l'Eterno.
    La questione della cura educativa non è legata solo al tema del saper fare, ma prima ancora a quello del saper essere. Chi si ritrova ad avere a che fare con i giovani ne respira gli slanci, ma anche i facili entusiasmi; i sogni, ma insieme anche illusioni e abbagli sempre in agguato. E così l’educatore rischia di cadere facilmente nella tentazione di non avere tenuta di fronte a questi continui sbalzi di tensione.
    C’è bisogno di una passione profonda che torni senza paura alla domanda: “Perché lo facciamo? E perché lo dobbiamo fare?”. È una frase scontata, ma vera: vogliamo bene ai nostri ragazzi e vogliamo il loro bene. Ci dispiace e soffriamo nel vederli sbandati, in balìa di sé, senza futuro, implicati in problemi e drammi più grandi di loro. Ci dispiace e soffriamo nel vederli alla deriva sul fronte dell’impegno e della speranza, prigionieri di un materialismo soffocante e senza ideali; a volte persino nel giro di circuiti di morte. Sicuri che dal Vangelo viene ancora la parola buona che permette di incontrare il cuore della vita e il suo senso.
    A febbraio la pastorale giovanile italiana sarà a convegno a Genova. Per scoprire che prima di ogni altro passo, c'è bisogno di tornare alla sorgente di ogni educatore: la passione e la cura che Dio esprime e manifesta per ogni uomo. Perché chiunque si metta sulle spalle il bellissimo compito di accompagnare i piccoli nei loro processi di crescita, abbia ogni giorno la volontà di farlo con lo stesso cuore.


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