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    Note a margine del convegno "Tra il porto e l'orizzonte"

    Michele Falabretti

    (NPG 2014-03-7)

     

    È calato il sipario sul convegno di pastorale giovanile di Genova a febbraio 2014. Anche i convegni finiscono e a tutti viene su, da dentro, la solita domanda: e adesso, cosa facciamo?
    Prima, però, vorrei fare un piccolo esercizio di immaginazione. Supponiamo che di domande, durante il convegno, ne siano sorte altre. Sono quelle che emergono quando veniamo messi un po' in crisi, quando si vanno a toccare i nervi più scoperti, quando ci sentiamo un po' in ritardo sul centro delle questioni. Un convegno pastorale non può mai essere risolutivo: non ha forza "legislativa" perché non ha un mandato esplicito da parte di chi è responsabile del governo delle diocesi (i vescovi) di consegnare delle linee operative.
    Però un convegno può indicare delle direzioni. E lo può fare affrontando proprio le domande più scomode, quelle che ci mettono in crisi, quelle che vorremmo evitare e - se proprio ci vengono spiattellate davanti - quelle che si cerca di aggirare.
    La forza del Convegno di Genova, a mio parere, è stata proprio in questo: nel coraggio di andare al cuore di una questione come quella della cura educativa. Noi, preti, religiosi e laici impegnati nella vita quotidiana della chiesa, abbiamo molta fretta di sapere "come si fa". Siamo affascinati dai libri di ricette, come se fosse sufficiente mettere insieme degli ingredienti.
    Negli ultimi anni il fascino delle forme è stato un vero e proprio virus nella vita pastorale: la sua manifestazione più forte è stata quella legata alle pratiche liturgiche, dove spesso un vuoto ritualismo (che fosse almeno) un po' "vintage" è diventata la ricetta pronta da propinare anche al mondo giovanile. Queste forme hanno fatto l'occhiolino anche ad altre comunque di moda, ma non meno - bisognerebbe dirlo - "trendy": aperitivi, cene e notti più o meno bianche; organizzazione di eventi a tema che hanno succhiato molte energie nella preparazione, lasciando poi praterie e deserti di tempi lunghi necessari per respirare. Perché non si può sempre andare a mille, perché gli eventi che si accumulano non sono più eventi, perché dobbiamo respirare prima di poter immaginare la prossima avventura.
    E intanto continua la vita quotidiana; nel frattempo i nostri giovani hanno a che fare con il problema dell'occupazione, o forse delle scelte scolastiche o ancora con gli affetti che fanno le bizze e non lasciano in pace il cuore. Tutte cose che un po' di tempo fa, a noi educatori, scaldavano il cuore perché ci riportavano immediatamente a quella questione che è la vocazione di ciascuno. E lì, nei luoghi del quotidiano, siamo spariti. Non siamo più significativi. Se devono decidere o affrontare la questione, vanno da qualcun altro. Il convegno di Genova ha tentato di aprirci gli occhi su questo: sul fatto che la partita della vita, per ciascuno, è giocata nella quotidianità. Che, almeno in Italia, ha per i vescovi una collocazione unica: la parrocchia, casa tra le case, e il suo legame con il territorio. Collocazione che si declina in forme diverse: da qualche parte è la strada, da qualche altra è una casa con un bel cortile.
    Ma non importa il luogo, come è fatto, come è organizzato. Importa chi lo abita, se ci sono dei ruoli riconosciuti (cioè se i bambini possono giocare da bambini, se gli adolescenti possono fare gli scemi come se fossero dei sedicenni veri, se dei giovani possono cominciare ad occuparsi della loro vita che sogna un lavoro, un percorso scolastico, una relazione) - (e non solo: se ci sono quelli che vogliono fare gli educatori, che hanno un cuore che batte davvero e per i loro ragazzi sono pronti a dare la vita. Perché non è che si chiama a un convegno la suor Carolina Iavazzo per sentire una bella storiella, ma perché - forse - il racconto del cuore di don Pino Puglisi è davvero qualcosa che fa venire il sudore freddo a tutti: c'è qualcuno che pensa di esserne all'altezza?).
    Davvero il Convegno ha provato a istruire la questione: la cura educativa è una faccenda mai superata, che ci chiede di rimetterci in gioco con la consapevolezza che lo scenario è completamente cambiato.
    Sarebbe bello, allora, mettere da parte i mal di pancia che questi pensieri possono persino averci provocato (o, insomma, sopportarli un po') e provare a prendere le direzioni che il convegno ci ha consegnato e farle diventare un lavoro di verifica e discernimento nei nostri territori. Proprio perché un convegno non è mai risolutivo, c'è bisogno di questo lavoro: portare a casa le provocazioni e metterle a confronto (con sincerità, ma anche con il coraggio di chi mette insieme le sue storie, il suo territorio, i volti delle persone che lo abitano) con tempi di paziente verifica e confronto. È sempre difficile poter aprire dibattiti seri in assemblee di seicento persone; ma è molto più bello e opportuno farlo nelle consulte regionali e diocesane. Anche perché la titolarità di animare un territorio appartiene a chi lo abita.
    Ecco: lo sforzo fatto per pensare il convegno non sarà vano se qualcuno lo raccoglierà. Sarà come tornare a casa con un sacchetto di semi che possono essere gettati nel terreno delle nostre comunità e portare frutto con il lavoro di tutti.
    Accanto al desiderio e alla richiesta, però, avrei anche un sogno.
    Mi è tornata spesso in mente, in questi giorni, mentre ascoltavo e seguivo i lavori in streaming davanti al computer, la riga del salmo 8 dove si dice "cosa è mai l'uomo perché Dio se ne prenda cura?".
    Se c'è un innesco che il convegno ha provato a far esplodere è questo: è finito il tempo in cui dire all'uomo come si fa a fare l'uomo. Lo sappiamo, è da un po' che ce ne siamo accorti, lo ripetiamo spesso, ma ci comportiamo come se non fosse così. Forse è arrivato il tempo in cui anche noi, con stupore, siamo chiamati a tornare a questo chinarsi di Dio sull'uomo per prendersene cura. Se Dio, in Gesù, ci ha mostrato tutta la sua tenerezza per l'uomo, allora lo faccio anch'io. Allora sono pronto a metterci su la vita, chiedendomi ogni giorno cosa ha di così affascinante questa umanità per cui Dio si spende. È qui, è soltanto qui che nasce la più vera e profonda passione educativa. È questo, credo, l'orizzonte più bello che Genova ci lascia nel cuore.


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