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    I temi negati dell’educazione. Introduzione a una nuova rubrica NPG


     

    I temi negati dell’educazione /0 

    Mario Pollo

    (NPG 2010-01-24)


    Nel loro percorso di formazione umana le nuove generazioni debbono affrontare alcune realtà sociali e culturali che influenzano profondamente e spesso negativamente il loro progetto di vita o, più semplicemente, il loro diventare se stessi e il loro inserimento attivo nella società.
    Alcune di queste realtà, in particolare quelle che saranno trattate negli articoli che comporranno la rubrica dallo stesso nome, sono: la violenza nelle sue forme velate ed esplicite, la notte con le sue fascinazioni e i suoi rischi, il desiderio che spesso esaurisce la propria potenza vitale nel consumo, la sessualità senza bussola, lo sballo attraverso le droghe e l’eccitazione del rischio e dell’eccesso, la strada come luogo in cui il controllo sociale sembra abolito, l’adorazione di idoli desacralizzati, la fatica del vivere nell’indifferenza e nella notte senza fine del nichilismo.
    Solitamente queste realtà sono oggetto di cronaca o di analisi psicologiche e sociologiche, ma quasi mai sono considerate come luoghi dell’educazione. Al massimo vengono considerate come pretesto di denuncia a posteriori dell’inefficacia dei processi educativi e, quindi, come motivazione all’invocazione di interventi di prevenzione o di recupero.
    L’animazione culturale considera invece quelle stesse realtà come «luoghi» in cui sono presenti non solo pericoli e minacce per la crescita del giovane ma anche potenzialità e risorse, in quanto la sfida educativa che sin dalle sue origini questo modello educativo propone, è quella della possibilità di far nascere l’amore alla vita autentica anche laddove ci sono condizioni che sembrano negarne la possibilità.
    Per l’animazione culturale, infatti, non vi sono luoghi che non siano potenzialmente educativi. e questo è l’assunto che l’ha distinta e ancora la distingue da altre forme tradizionali di educazione.
    A questo punto è però necessario ricordare che la formazione delle nuove generazioni avviene, da un lato, attraverso l’educazione e, dall’altro lato, attraverso la socializzazione, che è altrettanto importante e incisiva nella formazione del giovane.
    L’educazione è la relazione intenzionale che un adulto, cui la società attribuisce il ruolo di educatore, stabilisce con un giovane per far sì che questi acquisisca, coscientemente e criticamente, il patrimonio dei testi, dei codici, dei valori e delle regole istituzionali che costituiscono la cultura e il tessuto organizzativo della società in cui vive. La relazione educativa, per essere tale, deve essere strutturata secondo un metodo, e cioè secondo una sequenza logicamente coerente di azioni, e deve utilizzare i luoghi e gli strumenti che la società ha predisposto per tale scopo.
    La socializzazione, invece, è costituita tanto dalle modalità psicosociali che presiedono alla formazione della socialità dell’individuo in una società e in una cultura data, quanto dall’azione degli strumenti e delle agenzie attraverso cui l’individuo acquisisce quelle configurazioni comportamentali che gli consentono la progressiva appartenenza e partecipazione alla vita sociale.
    Osservando la distinzione tra socializzazione ed educazione, sorge il dubbio che oggi più che di un’emergenza educativa si sia in presenza di un’emergenza socializzativa, perché è proprio nei «luoghi» della vita quotidiana, dove si sviluppa la trama dei rapporti interpersonali e si svolgono le varie attività che disegnano la vita del giovane, che si manifestano quei fenomeni che agiscono negativamente sulla sua formazione umana.
    Ora questi «luoghi», pur essendo al di fuori delle istituzioni educative, hanno una forte valenza formativa, ma sono abbandonati a se stessi e privi di quei sistemi culturali di controllo che li rendono coerenti con l’azione promossa dalle istituzioni educative.
    È questo abbandono che sostiene l’affermazione che alcuni di questi luoghi, tra l’altro quelli potenzialmente più rischiosi, rappresentano i temi negati dell’educazione.
    Ma non vi è qui una palese contraddizione, come possono essere considerati temi negati dell’educazione questi luoghi se, di fatto, non le appartengono?
    La contraddizione può essere superata osservando che l’assenza di un controllo culturale forte di questi luoghi richiede che essi diventino oggetto di un intervento educativo che attivi in essi quei processi formanti che sono ritenuti necessari alla crescita umana, individuale e sociale, del giovane, e nello stesso tempo impedisca lo svilupparsi in essi di processi distruttivi e regressivi.
    Questa affermazione ha anche un’altra conseguenza, perché implicitamente indica che nell’attuale realtà sociale l’educazione non può più essere ristretta nell’ambito delle istituzioni educative, ma che essa deve diffondersi, permeandoli, nei luoghi della vita quotidiana delle nuove generazioni, come del resto sostiene da tempo l’animazione culturale.
    Ci si può anche legittimamente chiedere per quale motivo la realtà sociale odierna renda necessaria questa «espansione» dell’educazione, visto che in passato la separazione degli ambiti educativi e socializzanti funzionava, e ciò grazie alla loro complementarietà all’interno della condivisione di un identico progetto d’uomo.
    La risposta a questa domanda richiede l’analisi di alcune trasformazioni strutturali e culturali che la nostra società ha subito. Queste trasformazioni hanno profondamente modificato l’ambiente in cui gli esseri umani vivono e, quindi, influenzato il loro stesso modo di essere uomini.
    Occorre infatti ricordare che l’ambiente di vita dell’uomo, sin dalle sue origini, è sempre stato prodotto dall’intersezione tra natura e cultura, e ciò ha dato vita a un insieme, la società, che per l’uomo è diventata «natura». In altre parole, ciò significa che l’uomo non è mai entrato in contatto diretto con la natura, ma con la sua interpretazione culturale, simbolica, che gli era fornita dalla società in cui viveva.

    LE TRASFORMAZIONI SOCIALI

    Alcune trasformazioni sociali appaiono particolarmente importanti.
    Tra l’altro esse sono strettamente interrelate, e in particolare quella che viene definita come «sistema tecnico» sembra essere la matrice di quella che è chiamata «complessificazione» della società. Dato che la trasformazione prodotta dal «sistema tecnico» è quella meno evidente, l’analisi comincerà dalla «complessificazione» che indubbiamente è la trasformazione più visibile e maggiormente analizzata.
    Infine, strettamente interrelata, con queste due trasformazioni vi è quella della temporalità umana che si manifesta in una profonda crisi della dimensione progettuale della condizione umana. Vi sarebbero altre trasformazioni che non possono essere descritte per i limiti di questo articolo. Ad ogni modo queste tre sono quelle più rilevanti per cercare di comprendere l’origine della crisi educativa aut socializzativa.

    La complessificazione della società

    L’espressione complessità sociale, che deriva dal latino complexus (tessuto insieme), viene utilizzata normalmente per indicare la cultura caratteristica delle società moderne che hanno vissuto al loro interno i processi di secolarizzazione e di modernizzazione, e nelle quali la stragrande maggioranza degli abitanti vive condizioni di libertà dai bisogni fondamentali e gode in misura sufficiente dei diritti sanciti dal moderno concetto di democrazia.
    La complessificazione è prodotta dal fatto che nella cultura sociale non c’è più un unico centro simbolico, ma ne esistono una pluralità. A questo punto è forse necessario ricordare che il centro simbolico, che non ha nulla a che fare con la geometria e con la geografia, concerne il dominio dei valori e delle credenze. Si può dire che ogni società è governata da un centro di tipo simbolico formato da valori, credenze e ideali [1] e che rappresenta ciò che c’è di supremo, di importante, di irrinunciabile in una società.
    In una società complessa il centro unico è sostituito da una sorta di zona centrale formata da più centri. Esso ha, quindi, una composizione eterogenea, esprimendo le diverse funzioni, desideri e credenze caratteristiche dei centri che lo formano. Non di rado questi centri sono in conflitto tra di loro per il predominio culturale nella società di cui fanno parte. Questo significa che in una società complessa il centro è costituito da una pluralità di centri che possono essere alleati, ma anche in conflitto e in competizione tra di loro. Nessuno di questi centri è in grado da solo di esprimere un’egemonia nei confronti degli altri centri, nel senso che in una società complessa ognuno di essi possiede pari dignità con tutti gli altri. Ci sono centri che grazie ad una alleanza con qualche altro centro diventano egemoni, ma di solito questa egemonia dura poco perché viene superata da nuove alleanze.
    Il centro, essendo strutturato intorno a un sistema di valori, possiede una potenzialità di carattere ideologico. Ora è bene ricordare che la potenzialità dinamica di una società è generata dal fatto che essa normalmente vive al di sotto dell’ordine dei suoi valori centrali, perché non riesce a compierli, a realizzarli e a tradurli in pratica. È, quindi, proprio il fatto di vivere al di sotto di questo sistema di valori ciò che crea la dinamica sociale: anzi è la dinamica sociale stessa.
    Se la vita della società e il suo ordine simbolico coincidessero pienamente, non si avrebbe nessun tipo di dinamica sociale, perché il sistema sarebbe perfettamente stabile, anzi, in stallo.
    L’esistenza di un sistema centrale di valori, al di sopra della vita sociale, è dovuta a un’esigenza di base che gli esseri umani hanno: il bisogno di incorporarsi in qualcosa che trascenda e trasfiguri la loro esistenza individuale. Ogni uomo ha bisogno di identificarsi in qualcosa che trascenda, trasfiguri, nobiliti, arricchisca la sua esistenza quotidiana individuale. Ogni uomo sente, cioè, la necessità di porsi in contatto con un ordine simbolico superiore, rispetto all’angustia del proprio corpo e della propria vita, e che sia perciò eccedente rispetto al mondo delle sue credenze.
    La necessità di trascendenza è una necessità fondamentale dell’essere umano, ed è quella che fa sì che ogni società abbia sempre e comunque bisogno di un sistema di valori centrali. In ogni società la condivisione di questo sistema centrale è differenziata, perché non tutti condividono in eguale misura i valori, le credenze, i modelli che il sistema centrale propone. Nella società complessa c’è una condivisione del centro molto più ampia di quanto mai sia accaduto in tutte le società del passato; ma nonostante questo esiste ancora una differenziazione, una disuguaglianza nella partecipazione al sistema di valori centrale dovuta alle professioni, alla tradizione, alla normale distribuzione delle qualità umane, agli antagonismi, a tutta una serie di fenomeni che differenziano la partecipazione. Questo significa che ci sono certe persone più vicine (nel grado di condivisione) al centro, mentre altre ne sono più lontane.
    Il centro, in quanto ordine simbolico, struttura e costituisce una società, ed è evidente che il centro della società complessa va pensato come costituito da quei valori, da quelle credenze e ideali, da quel potere e da quelle norme e modelli che garantiscono la coesistenza non distruttiva di una pluralità di centri. Si potrebbe dire che il centro della società complessa è un «meta-centro» che tesse insieme i vari centri differenti in un tessuto sociale unitario.
    Connesso a quello di centro vi è il concetto di periferia, che indica un’area sociale formata da tutte quelle persone che hanno una condivisione minore del sistema centrale. Le periferie sono le zone più distanti in ordine alla condivisione dei valori, delle norme, degli stili di vita e dei modelli che caratterizzano il sistema centrale. Nel caso della società complessa, più che di periferia occorrerebbe parlare di periferie, nel senso che essendo molti i centri vi sono anche molte periferie, oltre alla periferia delle periferie, ovvero alla «meta-periferia».
    Una conseguenza evidente della complessificazione della società è l’emersione del cosiddetto relativismo, nel senso che non esistendo un unico centro non esiste alcun sistema di valori, di credenze e di ideali che possa essere considerato egemone. Ogni sistema di valori, anche il più marginale, pretende per sé pari dignità con gli altri, anche se più diffusi e dotati di una tradizione storicamente consolidata.
    Questo rende impossibile qualsiasi scelta o semplice gerarchizzazione, oltre che dei valori, dei bisogni e delle opportunità presenti nella società, ragion per cui nei «luoghi» della vita quotidiana il giovane incontra o una pluralità di proposte o, per elisione reciproca delle stesse, un’assenza di proposte. In una società non complessa il giovane incontrava nei diversi luoghi in cui si svolgeva la sua vita proposte di valori, di gerarchizzazione dei bisogni e opportunità che erano tra loro coerenti e dello stesso tipo di quelle presenti nelle istituzioni educative.
    L’altra trasformazione, che – come accennato – ha generato la complessificazione e continua a implementarla, è quella che ha prodotto la dominanza del sistema tecnico rendendolo il nuovo ambiente di vita degli abitanti della nostra società.

    Il sistema tecnico

    Con l’avvento della modernità e dello sviluppo industriale vi è stata l’emersione, all’interno della società quale fattore determinante, del «sistema tecnico». Si è trattato di un cambiamento radicale perché ha riguardato la conformazione e la natura dell’ambiente in cui la storia dell’uomo si era sin allora svolta. La radicalità di questa trasformazione è dovuta al fatto che, come osserva Ellul

    il nuovo ambiente agisce per penetrazione e scissione rispetto ai precedenti: non c’è abbandono del vecchio ambiente (Naturale) a vantaggio del nuovo (Tecnico). Il nuovo penetra l’antico, lo assorbe, lo usa, ma per farlo lo fagocita e lo disintegra. Come un tessuto canceroso che prolifica su un precedente tessuto non canceroso […] L’ambiente tecnico non potrebbe esistere se non si appoggiasse e ricavasse le proprie risorse da quello Naturale. Ma mentre lo esaurisce e lo estenua, lo elimina in quanto ambiente e vi si sostituisce.[2]

    Uno degli effetti più evidenti della sostituzione dell’ambiente tecnico all’ambiente naturale è la divisione e la frammentazione delle realtà naturali e culturali, con effetti che riguardano la vita di tutte le persone nella loro interezza. L’effetto di questa scissione sulla vita delle persone è disastroso, perché esse hanno la sensazione di vivere in un universo scisso, frammentario e la loro stessa vita appare scissa e incoerente.
    La complessità della società non è che un volto di questa frammentazione che si manifesta nella mancanza di un unico centro e nella pluralità estremizzata dei sistemi di valore, dei modelli di vita, delle concezioni del mondo e dei bisogni che sono presenti nella società e, quindi, nell’ambiente di vita delle persone.
    A questo punto è necessario precisare che il «sistema tecnico» non deve essere confuso con il semplice utilizzo da parte degli uomini dei mezzi tecnici. Infatti, se nel passato l’uomo viveva in un ambiente naturale e utilizzava strumenti tecnici per vivere meglio, per difendersi dalla natura e per sfruttarla, oggi la natura gli fornisce esclusivamente lo spazio e la materia prima necessari allo sviluppo dell’ambiente tecnico.[3]
    Questo accade perché nel sistema tecnico la tecnica è divenuta l’unica ed esclusiva mediazione del rapporto tra l’uomo, la natura e gli altri uomini: ciò è successo perché le tecniche sono diventate sempre più numerose e consistenti e hanno finito per ricoprire un po’ alla volta tutti gli ambiti dell’attività umana.
    Quando si parla di «tecniche» è necessario ricordare che esse non sono solo le macchine ma anche attività umane come, ad esempio, l’organizzazione, la gestione delle relazioni e dei gruppi umani. La stessa comunione e partecipazione degli esseri umani alla vita sociale è divenuta oggetto dell’attività tecnica. Baudrillard sottolinea come la comunione oggi non avvenga più attraverso un mezzo simbolico ma attraverso tecniche divenendo, quindi, comunicazione.
    Si tratta indubbiamente di un impoverimento notevole della vita sociale, perché la comunione non è più fondata su una dimensione profonda, come quella simbolica, ma esclusivamente sul contatto, sullo scambio, sulla comune partecipazione a un evento senza la condivisione del senso esistenziale e/o religioso.
    L’esempio più chiaro ed evidente del cambiamento di senso e di statuto della «comunione» nella vita sociale attuale è costituito dai giochi e dai quiz televisivi, che sono divenuti dei riti che assicurano la comunione tra le persone che li guardano allo stesso modo in cui nelle società arcaiche la assicuravano i riti sacrificali e, per i cristiani, la messa. I mass media sono diventati gli strumenti attraverso i quali si costruisce la comunione tra le persone.
    Tra l’altro, la riduzione della comunione alla comunicazione e, quindi, la mediatizzazione tecnica della relazione umana, sta producendo, paradossalmente, un crescente sentimento di solitudine individuale in un mondo della comunicazione generalizzata.

    Effetti del sistema tecnico sull’umano

    Il fatto che la tecnica sia divenuta l’unico mediatore riconosciuto comporta alcune rilevanti conseguenze nella cultura e nel fondamento antropologico dell’uomo contemporaneo.
    Per quanto riguarda l’effetto della tecnica sulla cultura, occorre tenere conto che essa:
    – sfugge ad ogni sistema di valore;
    – è essenzialmente sterile e sterilizzante, contrariamente a tutti i sistemi di mediazione «naturali»;
    – esclude la mediazione del pensiero e della cultura e fa si che la coscienza divenga un semplice riflesso dell’ambiente tecnico.
    Emerge dunque chiaramente che la cultura prodotta dal dominio della tecnica nega o perlomeno banalizza la ricchezza e il mistero umano, ne riduce la complessità e oscura il senso della presenza dell’uomo nell’orizzonte del mondo producendo una socializzazione esclusivamente funzionale all’adattamento dell’uomo all’ambiente della società tecnica.
    Basta osservare che oggi si è in presenza di un uomo che riesce a vivere nella società tecnica solo se riceve un determinato numero di gratificazioni complementari che gli consentono di superare gli aspetti negativi prodotti dalla società tecnica. Queste gratificazioni sono delle compensazioni degli effetti alienanti prodotti dallo sviluppo tecnico. Esse sono sentite come dei veri e propri bisogni che se non fossero soddisfati impedirebbero all’uomo, abitante della società tecnica, di vivere in essa. Questo significa che il fenomeno che solitamente viene definito come consumismo non è che il luogo della produzione sociale delle compensazioni delle condizioni alienanti che l’uomo vive nella società tecnica.

    La crisi della progettualità

    Questa dimensione è quella più direttamente connessa con l’educazione e la socializzazione in quanto riguarda un aspetto costitutivo della natura umana.
    La crisi della progettualità nasce dalla crisi profonda della nootemporalità, ovvero della capacità degli esseri umani «di comprendere il mondo nei termini di un futuro e di un passato distanti, e non solo nei termini delle impressioni sensoriali del presente»,[4] e che le loro azioni nel presente sono influenzate dalla consapevolezza della morte, che appare come «un ingrediente essenziale del tempo dell’uomo maturo, i cui orizzonti si estendono senza limiti nel futuro e nel passato».[5]
    Il tempo che dal futuro attraverso il presente scorre verso il passato è il telaio che tesse l’ordito della vita umana nel mondo e che orienta tutte le domande e le risposte di senso degli uomini maturi emersi alla coscienza. Infatti, almeno nell’orizzonte dell’Occidente, la vita umana trova il suo senso nella storia, cioè nella memoria e nel progetto di futuro.
    Ora, nella società attuale disegnata dalla tecnica si assiste ad una profonda crisi della nootemporalità, che è il risultato dello sviluppo dei mezzi di comunicazione che hanno prodotto una percezione sociale del tempo come una scansione meccanica funzionale esclusivamente alla regolazione della vita sociale. Questa percezione del tempo è anche caratterizzata dalla frammentazione del fluire del tempo in una sequenza di istanti, in cui ogni istante è separato ed è autonomo da tutti gli altri. La solitudine di ogni istante è il segno dell’impossibilità del tempo di proporsi come un flusso dotato di un senso globale, in cui ogni istante assuma la funzione di un particolare. Ogni istante, infatti, propone il suo significato, irrimediabilmente relativo e soggettivo, senza avere la pretesa di essere un passo del cammino che prende il nome di storia.
    Questa trasformazione del vissuto del tempo si è verificata a causa della rottura dell’equilibrio tra sociotemporalità e nootemporalità e del predominio della prima.
    La sociotemporalità è null’altro che la socializzazione del tempo che si esprime nella sincronizzazione e nella pianificazione delle azioni collettive senza cui nessuna società può esistere. Il tempo sociale è fondato sull’esistenza del presente sociale, che è l’intervallo di tempo necessario a consentire alle persone di agire di concerto. Il presente sociale si forma e si mantiene attraverso la comunicazione che interrela i membri di un determinato gruppo sociale e l’ampiezza dell’intervallo temporale che lo costituisce dipende dalla velocità dei processi di comunicazione. La sociotemporalità è tanto più sviluppata nella vita delle persone che fanno parte di una società quanto più esse sono in relazione. Più la sociotemporalità è sviluppata più gli stili di vita, i valori e le condotte delle persone divengono omogenei.
    La sociotemporalità mantiene il suo valore solo se si armonizza con la nootemporalità, ovvero solo se le esigenze della sincronizzazione sociale non entrano in conflitto, o ostacolano, il progetto particolare di vita dell’individuo, non mettono cioè in pericolo la sua unicità, la sua differenza particolare, ovvero non minano la sua identità personale e storico culturale.
    Oggi si assiste, invece, ad una dilatazione della temporalità sociale prodotta dai bisogni delle economie e delle culture delle società complesse della seconda modernità.
    Secondo alcuni studiosi [6] questo fenomeno è prodotto dalla «spazializzazione del tempo» che non sarebbe altro che il risultato della supremazia nell’attuale vita sociale delle coordinate spaziali su quelle temporali che, di fatto, anestetizza l’idea del tempo e della storia, del vissuto diacronico a favore della sincronicità spazializzante.
    Si è, cioè, in presenza di quello stesso fenomeno che faceva dire a Baudrillard che la cultura non è più fatta per durare perché è destinata ad un consumo immediato.
    Immersi in questo tempo spazializzato, gli individui perdono la coscienza della propria appartenenza alla storia e, quindi, anche la propria capacità di produrre storia e divengono delle comparse prive di memoria e di sogni di futuro.
    Questo fa sì che solo ciò che è immediato e simultaneo venga vissuto come reale. Le dimensioni del passato e del futuro sono espulse dalla coscienza, la memoria e il sogno sono esiliati. L’istante diviene un punto nello spazio in cui non vi è durata ma solo l’appartenenza atemporale ad un insieme spaziale.
    Questa trasformazione della temporalità ha degli effetti profondi sull’identità delle persone, sulla loro coscienza e sulla possibilità di dare un senso alla propria esistenza.
    Non è casuale che oggi il percorso di conquista dell’identità che le nuove generazioni debbono percorrere sia frammentato, accidentato e che spesso conduca a quelle forme che vengono definite «deboli».
    Allo stesso modo la vita priva del tessuto del progetto e della storia appare sempre di più come un caotico susseguirsi di opportunità a volte positive ed a volte negative, piacevoli o spiacevoli ma in cui comunque il paradigma del consumo compensatorio e consolatorio si manifesta come dominante. La coscienza della propria responsabilità personale e sociale risulta indebolita e la persona sembra avere responsabilità, spesso illusoria, solo verso se stessa e le persone che le sono spazialmente ed affettivamente prossime.
    Il risultato è una persona che vive senza un’etica che non sia quella dell’utilità personale e dell’adattamento alla realtà sociale ed alla sua cultura. Di una persona che non sa assumere impegni a medio e a lungo termine, che non sa sacrificarsi e rinunciare alle gratificazioni che il presente offre in nome della coerenza a un impegno di costruzione di un futuro personale e sociale.
    Questa incapacità delle persone di governare la propria vita lungo l’asse storico del tempo si manifesta in una concezione di vita a-progettuale, di una vita cioè che si costruisce, all’interno della sociotemporalità, attraverso la capacità di cogliere con un atteggiamento pragmatico e utilitaristico le occasioni e le opportunità che la vita quotidiana offre, senza la necessità di porsi domande se queste stesse occasioni sono coerenti o meno con il proprio progetto di vita, ovvero se sono compatibili con i propri sogni di futuro e con la propria storia, individuale e sociale.
    L’incapacità di assumere impegni di lunga durata è una conseguenza di questa crisi della progettualità, essa però rivela anche l’opacità dello sguardo verso il futuro che sembra affliggere l’uomo contemporaneo.
    Opacità che si ascrive necessariamente alla crisi della nootemporalità ma che ha alla radice, tra le altre cause, la fine delle grandi narrazioni o delle ideologie che ha attraversato l’ultima parte del secolo scorso.
    Ideologie che hanno rappresentato una sorta di messianismo scientifico che postulava un futuro luminoso e felice prodotto dallo sviluppo della scienza e della tecnica che avrebbe progressivamente condotto alla sconfitta delle malattie, della povertà e delle condizioni che rendevano degradata e infelice la vita di molte persone. Non ultima delle speranze era addirittura quella di vincere la morte.

    «Il futuro non era allora nient’altro che la metafora di una promessa messianica. Nelle nostre culture occidentali non era solo il giorno dopo a venire… No, quella di essere il proprio messia, il proprio redentore era davvero una promessa che l’umanità aveva fatto a se stessa: così futuro faceva rima con promessa, era la promessa».[7]

    Il sogno prometeico dell’uomo di essere il proprio salvatore per mezzo della scienza e della tecnica si è dissolto e la speranza di un futuro migliore è stata sostituita da una radicale pessimismo che lascia intravedere un futuro pieno di minacce e angoscianti incognite: inquinamento e degrado ambientale, disuguaglianze sociali, disastri economici, nuove malattie, terrorismo, ecc.
    Il sapere tecnico scientifico, pur essendosi enormemente sviluppato, sembra incapace di offrire speranza per il futuro e nello stesso tempo molte persone hanno smarrito i saperi esistenziali e religiosi che erano in grado di aprire alla speranza verso il futuro.
    Questa asimmetria tra sapere tecnico scientifico e sapere umano è il varco attraverso cui passa la fuga dal futuro, il rinchiudersi nel presente nel tentativo di esorcizzare l’angoscia evitando di osservare l’orizzonte da cui in ogni istante possono provenire minacce impreviste e imprevedibili.

    I PROCESSI FORMATIVI E LA NECESSITÀ DELL’EDUCAZIONE OGGI

    Queste trasformazioni hanno messo in crisi i processi formativi delle nuove generazioni, ma non la necessità dell’educazione e della complementare socializzazione, anzi l’hanno resa più forte e urgente. C’è, tuttavia, una precisazione da fare. L’educazione non deve essere confusa con la didattica. Per comprendere questa affermazione occorre tenere conto che uno degli effetti della trasformazione dell’ambiente naturale in ambiente tecnico sull’educazione è stata la perdita della sua gratuità e la tecnicizzazione dell’educazione.
    Al centro dell’educazione e soprattutto dell’istruzione non vi è più la realizzazione del potenziale umano delle persone e il loro inserimento sociale in qualità di cittadini in grado di partecipare pienamente alla vita sociale e politica democratica, ma solo l’inserimento professionale. Questo aspetto è ogni giorno più accentuato. Basta osservare, ad esempio, le ultime riforme dell’università e il valore preminente che nella valutazione di un ateneo ha assunto l’esistenza di un sistema di Job Pla­cement efficace. Allo stesso modo nelle scuole secondarie superiori un ruolo sempre più importante è giocato dalla possibilità di attuare stage presso enti e aziende.
    La tecnicizzazione indica, invece, che l’educazione è divenuta essenzialmente un metodo e un insieme di tecniche, didattiche, psicologiche e pedagogiche. La stessa relazione che, come è noto, è il cuore dell’educazione, è stata tecnicizzata con i contributi provenienti dalla scienze psicologiche. L’esempio più eclatante è fornito dalla scuola che è certamente ammalata di didattichese, oltre che essere divenuta ampiamente portatrice di una cultura fondata sullo strutturalismo.
    Anche la lingua è divenuta oggetto di questa azione del pensiero strutturalista, perché gli studi sul linguaggio contemporanei tendono a ridurla a un certo numero di strutture, funzioni e meccanismi, facendo perdere ad essa il mistero, la magia l’incomprensibilità: «La lingua non è più espressione di sogni; anzi diviene, attraverso la decrittazione a cui è sottoposta, il modo per far rientrare anche sogni, aspirazioni e deliri nell’ambiente tecnico»8.
    Oltre che nello strutturalismo la deriva filosofica funzionale al sistema tecnico si è sviluppata anche attraverso le filosofie e le psicologie di stampo cognitivo che tendono anch’esse a ridurre il mistero e la complessità dell’umano a dei processi e meccanismi di funzionamento della macchina uomo. Anche in questo caso il progetto è di far rientrare la psiche umana nell’ambito tecnico.
    Questo orientamenti delle scienze umane indicano come l’educazione da incontro dell’umano nell’umano stia divenendo semplicemente un processo di adattamento dell’uomo all’ambiente del sistema tecnico.
    A questo punto sembrerebbe impossibile un’educazione autentica e un’uscita dalle spire soffocanti del sistema tecnico che restituisca l’uomo ad un ambiente naturale/culturale in cui la tecnica abbia un ruolo solo strumentale. Tuttavia l’umano è caratterizzato dalla possibilità di cambiamenti che sembrano, a prima vista, appartenere alla sfera dell’impossibile, e ciò fa sì che la storia non sia una sorta di binario in cui il passato determina il presente e questo il futuro in modo rigido e irrevocabile, ma il luogo in cui l’inatteso irrompe e ciò che era improbabile sopravanza ciò che era probabile. Ciò significa che esperienze minoritarie, apparentemente marginali e/o irrilevanti diventano il seme del futuro e, come Davide, abbattono la potenza di Golia. Per fortuna la storia è piena di esempi in cui ciò che appariva debole e negletto diventa ciò che apre l’uomo alla speranza e ne realizza, almeno in parte, i sogni.
    Questa constatazione, che nasce dal realismo del sogno, induce a dire che l’educazione alla partecipazione e all’emancipazione dalla schiavitù del sistema tecnico è possibile.
    Essa deve però ancorarsi a alcuni obiettivi/fondamenti antropologici come quelli indicati dall’animazione culturale (di cui diciamo qualcosa nell’articolo che segue), senza i quali il rischio di divenire funzionale al sistema tecnico sarebbero estremamente elevati.

    NOTE

    [1] E. Shils, Centro e periferia. Elementi di microsociologia, Morcelliana, Brescia, 1984.
    [2] J. Ellul, Il sistema tecnico, Jaca Book, Milano 2009, p. 68.
    [3] Ivi.
    [4] Fraser J.T., Il tempo una presenza sconosciuta, Feltrinelli, Milano 1993, p. 17.
    [5] ivi, p. 22.
    [6] D. Gross, Space, Time and Modern Culture, Telos, 1981, p. 50.
    [7] M. Benasayag e G. Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005, p.19.


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