Mario Pollo [1]
(NPG 1981-10-04)
Partiamo dalla constatazione, ormai diffusa, che la comunicazione in questi ultimi anni è venuta assumendo un ruolo centrale nella definizione del metodo e dell'oggetto di molte discipline che, a vario titolo, vengono definite come scienze umane. Basti pensare a tutte le derivazioni che la psicologia relazionale, da Palo Alto in poi, ha prodotto in modo innovativo nei principali oggetti di studio della psicologia clinica e sociale. La pedagogia d'altronde non è da meno e tende sempre di più a strutturarsi intorno alla strumentazione fornita dalle scienze del linguaggio e della comunicazione.
Infine l'intreccio teoria dei sistemi/teoria della comunicazione sta svelando interessanti prospettive tanto nella sociologia quanto nell'antropologia culturale.
Oltre che negli statuti delle teorie che orientano le varie scienze umane, l'attenzione nei confronti della comunicazione viene imponendosi, quasi induttivamente, dalla lettura dei segni più significativi della cultura che permea di sé la cosiddetta condizione giovanile.
Infatti le letture più interessanti del mondo giovanile sono incentrate intorno ai processi linguistici e più generali di comunicazione che lo attraversano.
Rimane la constatazione che il mondo giovanile è attraversato da una profonda crisi che ha le sue uniche radici vere nel linguaggio.
Questa crisi che non riguarda solo i giovani ma l'intera società e la cultura contemporanea, può essere riassunta, anche se non esaurita, nelle seguenti considerazioni, che potrebbero essere chiamate le «piaghe» della comunicazione umana oggi.
Solo una comunicazione assordante, priva di significato
«Anche se non sai cosa dire, parla ». Sembra essere diventata la parola d'ordine, l'imperativo sociale. Non importa se non hai contenuti da esprimere: parla, lo richiede il tuo ruolo, la regola sociale, il tuo status-symbol e l'immagine che possiedi di te stesso. Parla e maschera il vuoto con le parole, anche se esse non richiamano più nulla, sono segni vuoti, semplici significanti il cui suono evoca altri significanti. Probabilmente è questa la prima piaga della comunicazione dell'uomo oggi, e quello che abbiamo saputo offrire ai giovani: parole logorate dall'uso, parole prive di cultura, parole come narcotici dell'essere. Abbiamo svuotato le parole, i segni, di un contenuto ricco e significante, per ridurle a specie di interiezioni il cui compito è quello di celare: il voler- comunicare ha soffocato il non-saperecosa-dire.
La crisi della capacità di narrare
I giovani sembrano diventati incapaci di narrare se stessi, la propria esperienza e la realtà sociale che più o meno drammaticamente vivono. Il loro linguaggio ha perso la dimensione spazio-temporale della narrazione del racconto, e, attraverso una struttura più arcaica e per molti versi tipica del mito, sta esplorando nuove frontiere che sono oltre i limiti della narrazione. La stessa letteratura rivela attraverso la caduta del mito e il posto preminente dato alla narrazione romanzesca, uno scadimento della ricerca dei reconditi sensi esistenziali.
La lingua appare così sempre più priva di quei modi e di quelle strutture che consentivano al simbolismo arcaico di fornire significato al presente. Essa tende a presentarsi, lo rileva abbastanza chiaramente l'analisi del linguaggio e della cultura giovanile, ma non solo giovanile, come luogo dell'eterno presente, come palude in cui nulla ha senso al di fuori della illusorietà dell'accadimento banale, partita a scacchi giocata da robot.
Dove il giovane troverà le sue radici? Dove troverà la profondità dei simboli che rimandano alle radici della vita? Come racconteranno di sé i giovani, come narreranno la salvezza dell'amore?
Ai giovani rimproveriamo di non saper narrare, e non ci accorgiamo che la lingua che abbiamo loro trasmesso sta attraversando una profonda crisi proprio perché essa stessa ha perso la capacità di narrare, in nome del presente e dell'immagine.
Il collasso linguistico
Se cerchiamo di passare da una semplice descrizione di quello che accade a livello di comunicazione, al tentativo di individuare i motivi più profondi di questa crisi, pensiamo sia facilmente rilevabile come i segni, le parole, abbiano perso la loro capacità di denotare, cioè di rimandare agli oggetti reali.
Sono stati studiosi come Peirce e Saussurre ad insistere per primi sul ruolo marginale ed irrilevante della denotazione nella definizione del segno. E di più, accanto ad uno strutturalismo teorico che caratterizza il dibattito degli addetti ai lavori, se ne è sviluppato un altro «pratico» utilizzato in modo inconsapevole nella vita di tutti i giorni, prevalentemente orientato al soddisfacimento dei bisogni legati all'arte del vivere, sganciandosi da ogni apertura di senso.
La lingua allora da strumento di orientamento e di mediazione della realtà, da bussola dell'agire umano nel reale, si sta trasformando in strumento di confusione e di nascondimento della realtà: essa perde la capacità di apertura all'esistenza, in nome di una chiusura che la restringe a gioco logico, puramente astratto e mentale. La vita si cela attraverso la lingua invece di svelarsi. Secondo le, disperanti conclusioni di Baudrillard, la lingua non aiuta ad « esplodere », ma viceversa « implode» verso un punto in cui non si dà più spazio-tempo, verso una indifferenziazione originaria del vissuto in cui l'intelligenza non ha ancora posto il proprio ordine. Lo strutturalismo diventa una forma di nichilismo: viene proposto ai giovani un linguaggio logorato, che non sa più aprire al mondo del reale, che invece di aprire verso la vita, stimola verso simulacri di morte.
La morte della cultura
Una riflessione centrata sull'identità della cultura e della lingua, in una parola sulla tradizione, indica un'ulteriore « piaga ». La crisi dei meccanismi di trasmissione culturale ha fatto sì che i processi educativi, socializzanti ed inculturanti, ancorassero il giovane assai labilmente alla tradizione ed alla cultura del gruppo sociale di appartenenza. L'esperienza umana è stata così privata del suo ancoraggio, della sua base, la lingua e la conoscenza hanno perduto la loro dimensione profonda.
I segni infatti si caricano lungo la storia di significati manifesti e latenti, che arricchiscono le dimensioni di ciò che è vissuto e conosciuto. È nella storia del segno, nelle sue esperienze di apertura e chiusura verso determinati significati, che va ricercata la profondità evocativa e quindi la possibilità di apertura all'esistenza. Un segno letto solo nella luce del presente viene miseramente impoverito.
L'impossibilità del futuro
Un'amara constatazione è la perdita dei significati «trascendenti» dei simboli. Una volta l'uomo, ad esempio, sapeva leggere nel sogno una previsione del futuro, una diretta comunicazione con Dio, come nel sogno biblico. Oggi al massimo il sogno è soltanto un guazzabuglio le cui fila si ritrovano all'interno delle nevrosi quotidiane.
Ecco un'altra «piaga »: la perdita della capacità di comprendere i profondi messaggi dei simboli, e soprattutto di rendere i loro significati credibili ed efficaci per la vita.
Dove trovare oggi simboli che aprano la finitudine verso la trascendenza, al di fuori delle sbarre di una prigione che rinchiude nel grigiore di un presente finito?
Morte della parola e solitudine senza fine
Trionfa l'immagine, muore la parola. Ma la negazione della parola, del pensiero lineare e consequenziale voluto dal nichilismo, celebrato dalle nuove teorie dei mass-media, non porta forse anche alla negazione della vita? Parole che girano su loro stesse in una spirale avvolgente e soffocante, in una negazione dell'essere: il raggio di questo cerchio che si chiude è la disperazione, la solitudine senza fine, un labirinto di cui è impossibile trovare l'uscita.
Anche i simboli religiosi non rimandano a un contenuto?
La crisi del linguaggio e della comunicazione ha anche un suo corrispettivo nel campo della dimensione simbolica della vita religiosa: ed è forse la settima piaga. Simboli, riti, contenuti sembrano non dire più nulla ai giovani, alla gente, sembrano espressi in un'altra lingua che suona straniera e incomprensibile. Anche per chi fa parte di una comunità ecclesiale. E così oggi si nota una certa tendenza ad elaborare esperienze di fede in nuove costruzioni simboliche, sovente estranee alla tradizione e al proprio patrimonio religioso- culturale, un'esperienza che forse riflette contenuti troppo soggettivi e troppo poveri per poter essere comunicata: il suo destino diventa allora quello di arenarsi in un soggettivismo senza sbocchi e senza futuro.
NOTA
[1] Appunti di una conferenza di Mario Pollo trascritti da Giancarlo De Nicolò.