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    Pubblicità e modello di sviluppo



    Mario Pollo

    (NPG 1977-04-38)

     


    Pubblicità e scuole psicologiche

    Domanda. Oggi si parla molto del rapporto tra pubblicità e psicologia. Sembra quasi che la pubblicità sia il terreno di verifica di una certa psicologia. Che ne dice?

    Risposta. Mi sono documentato, confrontando gli studi che analizzano il contributo che la psicologia può offrire alla pubblicità.
    Ho costatato che queste pubblicazioni sono di un livello scientifico molto basso. Da ciò mi è nato un sospetto: il richiamo alla psicologia da parte dei pubblicitari non potrebbe essere un tentativo di dare dignità scientifica ad un discorso le cui basi invece sono radicate nell'empiria? Ho l'impressione, insomma, che la pubblicità si fondi più sulla praticaccia e sulla creatività personale dei suoi operatori, sui dati di mercato che essi hanno sottomano, a proposito dei gusti del grosso pubblico, che non su di uno studio psicologico approfondito e sistematico.
    Il contributo scientifico della psicologia è di ordine generale e indiretto. Gli operatori pubblicitari si sono sensibilizzati ad alcune problematiche psicologiche e hanno utilizzato teorie psicanalitiche. Si tratta di dati che fanno parte del nostro patrimonio culturale; come sono utilizzati in vari settori, così lo sono anche nella pubblicità.

    D. Vogliamo approfondire questo aspetto. Ci pare interessante, anche in prospettiva educativa, se è vero che educare è, per molti aspetti, ripetere al rallentatore i processi esistenti, per comprenderne i meccanismi. Quali scuole psicologiche servono da supporto, indiretto almeno, alla pubblicità?

    R. Primo grosso fatto è la scoperta del «subconscio». Molti dati pubblicitari si riferiscono proprio a questa teoria psicologica. Faccio un esempio, classico.
    C'è una immagine pubblicitaria che rappresenta un bambino, seduto sul sedile posteriore di una lussuosa macchina, quasi avvolto da una spessa moquette. Il bambino ha il biberon in bocca. La dicitura afferma: è più facile eliminare la rumorosità dell'automobile di quanto lo sia togliere il biberon dalla bocca del bambino. Questo messaggio scritto è del tutto irrilevante ai fini della comunicazione pubblicitaria. Ad essa, infatti, interessa l'immagine della macchina lussuosa. Il messaggio serve solo per ipnotizzare chi vede l'immagine e catturargli l'attenzione e la reazione cosciente. Questo interesse lascia lo spettatore libero di cogliere, a livello subcosciente, l'altra proposta: quella relativa all'automobile lussuosa, da acquistare.
    Nell'esempio si avverte un processo di riferimento all'inconscio e al subconscio. La psicanalisi, e gli studi che l'hanno preceduta, hanno analizzato a fondo questi processi. La pubblicità se ne serve abbondantemente.
    Il secondo rapporto tra pubblicità e psicologia avviene sul piano dei processi «stimolo-risposta».
    Può sembrare cosa strana, perché è un connubio tra scuole psicologiche abbastanza lontane: quella della psicologia del profondo (psicanalisi e scuole derivate) e quella comportamentistica. Da questa ibrida confluenza nasce il codice psicologico che vene utilizzato normalmente dalla pubblicità.
    Certo, è possibile operare una sintesi di queste due scuole, cogliendo i reciproci influssi e contributi. Ma questo processo richiede un approfondimento tecnico che all'operatore pubblicitario interessa poco. Egli è molto più concreto e funzionalista. Gli interessa soprattutto conoscere l'esistenza di stimoli subconsci, che condizionano le reazioni esterne delle persone; gli interessa sapere quali siano, per attivizzare un processo di «risposta» a questi stimoli.
    In poche parole, sta a cuore più la reattività allo stimolo (che apre di conseguenza all'acquisto dei prodotti), che la conoscenza dei meccanismi psicologici che fondano e motivano questa risposta. I modelli pubblicitari sono costruiti in termini previsionali: dando certi stimoli al consumatore si ottengono, grosso modo, determinate risposte. E siamo in pieno comportamentismo.
    A monte ci sono studi di psicologia del profondo e di psicologia applicata alla motivazione. Tutto ciò fornisce gli elementi di base ai creatori del messaggio pubblicitario. Il momento della verifica è però solo sul piano di stimolo-risposta, per misurare se «quello» stimolo ottiene veramente l'effetto pensato (sul piano delle vendite e della promozione).

    Il ruolo della pubblicità nella nostra economia

    D. Si parla molto, oggi, della forza manipolatoria della pubblicità. Qualcuno l'ha definita la «persuasione occulta». Come avviene questo processo motivazionale?
    Lei ha l'impressione che sia un fatto solo culturale o invece esso ha riflessi anche sul piano economico, determinando un modello di sviluppo?

    R. È ormai assodato che, nel nostro sistema economico, il ruolo della pubblicità non consiste nell'informare sulle doti dei vari prodotti. Magari qualcuno lo dice ancora... ma nasce il sospetto che sia un discorso ben finalizzato. D'accordo: è vero che il messaggio pubblicitario «informa» sul prodotto e sulla gamma dei prodotti. Ma è un fatto irrilevante, rispetto agli altri obiettivi e quindi si tratta di un motivo solo formale.
    Se la pubblicità non ha come scopo principale quello di informare i consumatori, a cosa serve, allora?
    Serve a far vendere i prodotti, questo è scontato. Ma la domanda si approfondisce: perché pubblicizzare i prodotti, per poterli vendere? Nell'esistenza di un individuo, i prodotti necessari sono pochi. Un uomo, che vive in un rapporto armonico ed equilibrato con la natura, utilizza certamente «prodotti», ma essi sono molto meno di quanti attualmente sul mercato. Faccio un esempio, tra i più pacchiani. Alcune regioni hanno adottato il «prontuario» dei medicinali, necessari ai vari ospedali. Questi farmaci si aggirano attorno ai 500/600. Essi coprono tutta la gamma dei possibili bisogni. Invece i farmaci in commercio superano attualmente i 15.000... Si vede chiaramente che i farmaci necessari sono molto di meno di quelli prodotti. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri ambiti dell'economia: ci sono prodotti indispensabili, utili; ma ce ne sono molti altri inutili e persino nocivi per la salute dell'individuo (si pensi, per esempio, alle varie bombolette spray).
    C'è un grosso problema economico a monte. La nostra economia cresce sulla base di ciò che riesce a collocare sul mercato. Solo così crea degli utili, dei profitti. Anche del lavoro. Un lavoro, però, che non è risposta ai bisogni fondamentali dell'uomo, costruzione del progresso; ma fine a se stesso. Si lavora per consumare: lavoro-soldi-consumo-lavoro; e il cerchio si chiude. L'economia è conclusa in se stessa, con un rapporto distorto nei confronti della natura e dell'umanità nella sua globalità. Si tratta di un chiaro processo schizofrenico.
    Questo sistema, per potersi perpetuare, deve necessariamente collocare sempre nuovi prodotti, per allargare, dal suo interno, il ciclo. Per collocare questi prodotti, non si può fare riferimento ai bisogni naturali; quindi non basta dare agli individui le informazioni necessarie per notificarne l'esistenza.
    Se, come avviene nella stragrande maggioranza dei casi, i prodotti non rispondono a bisogni reali, per reggersi, devono far riferimento ad altri bisogni.
    Quali bisogni? Per esempio, quelli di tipo sociale, mutuati nei rapporti interpersonali. Così il prodotto perde la sua identità di manufatto (non è più una saponetta), ma diventa un simbolo di status, il simbolo del prestigo sociale, il simbolo della bellezza, dell'amicizia... L'oggetto viene scaricato della sua reale funzione e assume su di sé una carica di natura sociale. L'operazione motivazionale avviene a questo livello di trasferimento. L'uso dell'oggetto non è relativo al bisogno fondamentale (non si usa la saponetta per pulirsi), ma per acquistare il simbolo sociale di cui il prodotto si è rivestito (si usa la saponetta per ottenere bellezza). Come la pubblicità riesce ad ottenere questo trasferimento?
    Gli operatori pubblicitari mettono in cantiere una ricerca, destinata a cogliere, in un determinato momento, le «aspirazioni» della realtà sociale, il suo polso (qualcuno ha scritto che nessun sociologo conosce la situazione meglio dei pubblicitari, per la rete capillare di informazioni che essi possiedono).
    Vengono rilevati i «simboli di status» e le mode emergenti, i gusti e le frustrazioni, gli stessi «spazi» non ancora coperti. Al prodotto sono fornite le caratteristiche necessarie per potersi integrare in questa realtà.
    Faccio un esempio. Se in una determinata epoca il prestigio sociale è legato all'andare al maneggio per farci una cavalcata, il collocare il prodotto in quel contesto significa attribuire al prodotto la funzione di promozione sociale.
    Questo è il meccanismo più semplice e più diffuso, per «motivare» il prodotto. Altri utilizzano tipi diversi di valori emergenti. La «sessualità» è uno dei campi preferiti. Non tanto il richiamo sessuale nella sua evidenza ma l'allusione corrispondente a comportamenti che stanno riscuotendo consenso sociale.
    Non può terminare così il nostro discorso.
    La pubblicità non si limita solo a verificare l'esistenza di determinati bisogni sociali, per collocare i prodotti come risposta ad essi.
    A volte, nelle campagne pubblicitarie più spregiudicate, vengono creati nuovi valori, nuovi simboli di status, fino a quel momento inesistenti. Questa affermazione ci permette di fare un'importante costatazione.
    C'è una circolarità: la pubblicità si inserisce nei simboli sociali, e, nello stesso tempo, li crea. Non credo sia possibile determinare un prima e un dopo, in questa prospettiva. Nella visione marxista la pubblicità è una sovrastruttura, per cui il primo rapporto (e la causa del processo) è nell'economia. Non credo che si possa leggere la realtà in forma così determinata. Con Weber penso che sia qualche volta il politico a determinare l'economico; anche se resta valido, evidentemente, il processo inverso (l'economia condizionante la politica).
    Qualche volta si nota come sia un dato sociale (e quindi un fatto politico) a determinare l'economia; alcuni valori (o disvalori) definiscono la traduzione economica pratica, e non viceversa. Questo vale anche sul versante positivo. Partendo da determinati valori si può costruire anche un modo diverso di fare economia; mentre non è necessario partire dall'economico per avere determinati valori.
    In questo processo, bisogna abbandonare la tradizionale visione deterministica, di causa-effetto, che porta a concludere a certi effetti da determinate cause. In ogni fatto umano c'è una circolarità. Ciò che io faccio condiziona l'altro e me stesso, come ciò che fa l'altro, condiziona lui e me stesso. E così non posso mai affermare che il mio comportamento è determinato solo dal comportamento dell'altro. L'interrelazione è stretta. Questo è molto importante, secondo me, per comprendere il ruolo della pubblicità nel nostro sistema economico e politico e per cogliere, al suo interno, le responsabilità di ciascuno di noi e, quindi, gli itinerari di intervento educativo.

    D. La circolarità tra proposte pubblicitarie e norme- valori sociali è un dato molto importante. Veramente sta suggerendo, anche se indirettamente, un grosso intervento educativo. Lei crede che questo fenomeno sia diffuso largamente, tanto da coinvolgere massivamente il popolo italiano?

    R. Per poter vendere bene un determinato prodotto, è necessario che esso abbia un mercato molto largo. Vale la legge: pochi possibili consumatori, pochi prodotti venduti.
    Quando non c'è una base allargata, la pubblicità fa di tutto per crearla.
    Da questa costatazione nasce uno dei presupposti fondamentali della pubblicità: l'omogeneizzazione culturale, per offrire al prodotto una massa di acquirenti. Omogeneizzazione significa l'operazione culturale che tende a creare livellamento e convergenza di valori, gusti, bisogni, attese. In Italia, questa omogeneità è ancora molto scarsa, anche perché non esiste omogeneità economica; ci sono infatti culture molto diverse, stadi di sviluppo diversi, distribuzione molto diseguale del reddito.
    La pubblicità «registra» questo dato di fatto e opera per allargare la base di omogeneità. Il processo avviene attraverso il tentativo di proporre valori e tendenze di un gruppo ristretto più omogeneo (quello normalmente più permeabile alla proposta pubblicitaria) ad una massa sempre più diffusa. La pubblicità non vende prodotti ma «cultura», per creare omogeneità. Per esempio, non si vendono bleu-jeans, ma il costume sessuale utilizzato come supporto pubblicitario.
    In Italia, quello che ho chiamato gruppo emergente, quello che dà il polso della situazione culturale, è un gruppo molto composito. Non esiste in esso una comunanza ideologica o di classe. È determinato principalmente dalla predisposizione ai consumi. Fanno parte di questo gruppo industriali e ambienti ad essi collegati, intellettuali di successo, leaders politici di estrazione borghese di cui alcuni militano anche nella sinistra, persone abituate ad uno standard di vita consumistico...
    È tipico il processo di omogeneizzazione relativo alla «seconda casa». Questa esigenza è nata in un ambito molto ristretto. Con un attento lavoro di sensibilizzazione pubblicitaria, essa ha ormai investito anche i lavoratori, i ceti meno abbienti. Così l'abitudine per lo week-end, le ferie nei vari Clubs...
    Per essere efficace, il messaggio pubblicitario diventa raffinatissimo, perché deve distruggere tutta una serie di valori culturali, profondamente radicati in alcune categorie sociali. Si pensi all'atavico senso del risparmio, tipico del mondo contadino...
    La pubblicità non raggiunge da sola questo scopo: troppo radicati sono i valori che invece vorrebbe sfrattare. Stiamo lentamente giungendo all'omogeneizzazione sulla proposta pubblicitaria, attraverso i grandi rivolgimenti di questo nostro tempo, non ultime alcune «battaglie per la libertà»... che hanno così poco dell'umano e del promozionale.
    La pubblicità riesce perciò ad avere effetto omogeneizzante soprattutto in un tempo di anomie, come è, per molti versi, il nostro. Essa ottiene il massimo di risultati, in una cultura priva di «norme» e di valori, socialmente validi e riconosciuti universalmente, là dove la gente ha perso il contatto con il passato, la propria storia e cultura.

    La pubblicità come fatto politico

    D. Qualcuno dice: aboliamo la pubblicità...
    Lei crede che possa esistere un sistema economico senza pubblicità?

    R. È un problema interessante.
    A volte, mi domando: la pubblicità serve ancora agli scopi originari o invece ha ormai una sua vita autonoma?
    I bilanci pubblicitari di una grossa impresa multinazionale equivalgono alle spese dello stato per l'istruzione.
    La pubblicità serve a vendere i prodotti o piuttosto essa è una scuola di formazione, a varie dispense, messa in atto per formare i cittadini? Visto che i bilanci si equivalgono... non è forse una «scuola di formazione-istruzione parallela»? Nella economia dei grandi paesi capitalistici non c'è più libero mercato. È assurdo parlare di libero mercato oggi. Ci sono invece dei grossi oligopoli: poche società si sono spartiti tutti i mercati, lasciando solo alcuni interstizi liberi. C'è un tacito accordo di non pestarsi troppo i piedi, di non rubarsi il mercato.
    Gli spazi liberi (pochi e controllati) sono occupati dalle piccole imprese, destinate a fallire alla prima crisi.
    La pubblicità non serve ad assicurare la vendita del prodotto. Essa è già consolidata dalla spartizione del mercato.
    A cosa serve, allora, la pubblicità?
    Serve a consolidare le posizioni, ad erodere un poco lo spazio della concorrenza, a coprire gli spazi interstiziali ancora vuoti... Ma la sua funzione principale è un'altra. La chiamerei «interaziendale»: mantiene la gente nella predisposizione culturale al consumo. La pubblicità educa al consumo. Non viene reclamizzato il prodotto specifico. Ma viene venduto un modello d'uomo, l'uomo che ci vuole per una economia di consumo, pronto ad acquistare i prodotti dell'azienda A o B.
    Questo processo favorisce l'omogeneizzazione e quindi l'espansione dei prodotti pubblicizzati. La vendita aumenta nei termini in cui sono condivisi i motivi usati come supporto dei vari prodotti: quindi aumenta in rapporto alla crescita dell'omogeneizzazione.
    Questo è l'aspetto più preoccupante: l'omogeneizzazione produce frustrazioni in coloro che non sono in grado di risolvere i bisogni che hanno introiettato e produce regressione, perché si fa strada, vanificando i valori culturali tradizionali, l'assunzione di responsabilità sociali e politiche, l'esperienza religiosa, il senso di serietà della vita.

    D. Se le cose stanno così, cosa è possibile fare? Può suggerire prospettive concrete di intervento?

    R. Si richiede una reale inversione di tendenza. Non è possibile abolire la pubblicità. Ma va ridimensionata. E mi spiego.
    Finché la proposta pubblicitaria è su queste direzioni, i tanto conclamati «modelli alternativi di sviluppo» resteranno lettera morta: ad un tipo di pubblicità di questo genere corrisponde necessariamente un modello di sviluppo.
    Le alternative reali sono poche. O si arriva ad un modello economico unidirezionale, che produce solo i prodotti necessari o prodotti unici per i diversi bisogni. In questo caso la pubblicità non serve. Ma questo è un modello impossibile e alienante.
    Se ci sono prodotti diversi per gli stessi scopi, compito della pubblicità dovrebbe essere quello di informare adeguatamente sui vantaggi reali, in rapporto al costo, all'uso, nella difesa del consumatore (attraverso istituzioni specializzate). Questa è una alternativa seria e possibile.
    Per far ciò si richiede una drastica diminuzione dei prodotti in commercio e quindi l'elaborazione di modelli economici alternativi. Sono «modificate» le scelte economiche e quindi la pubblicità. L'intervento «politico» è l'unico capace di influenzare le decisioni economiche. Questo è l'obiettivo globale: il nuovo modello di sviluppo. Esso si prepara anche mediante interventi di fase intermedia: nella educazione. Non basta insegnare alla gente i meccanismi del linguaggio e della comunicazione pubblicitaria. L'intervento è molto più alla radice. Esso investe la «cultura» reale. Si tratta di radicare nella cultura propria, abilitando le persone a non lasciarsi espropriare da questo grande bene: radicare nei valori tradizionali riletti criticamente e aperti a processi di liberazione. Si tratta di educare a valori più significativi e promozionali di quelli del consumo e del possesso.
    Solo dando all'individuo un altro orizzonte di vita, egli può avvertire la stridente dissonanza tra la proposta pubblicitaria e il suo progetto di esistenza e di presenza nella storia collettiva.


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