cf "Ritratto di un giovane cristiano"
Non cerco una soluzione per la passione curiosa da persona intelligente. La cerco per vivere e per sperare: per ritrovarmi un po' più uomo, con i tanti amici che hanno il mio stesso sogno.
Ho avuto la tentazione di isolarmi per cercare con più calma. Mi faceva paura il fragore di troppe risposte. Non ce la facevo a misurarmi con risposte troppo dissonanti rispetto a quelle che incominciavano a delinearsi nella mia ricerca. Mi è venuta voglia di dire: la domanda è mia; me la risolvo io, e basta.
Per fortuna, ho trovato la dolce compagnia di tanti amici. Condividevano con me il problema. Ci siamo detti: perché non cerchiamo assieme una sua soluzione?
Ci siamo accorti che dovevamo guardarci d'attorno, con atteggiamento disponibile: ascoltare coloro che hanno cercato prima di noi, misurarci persino con le risposte provocanti di coloro che ci ridono dietro, come gente che ha proprio del tempo da perdere.
Il modo tradizionale: dove l'attesa assomiglia molto alla fuga
Abbiamo interrogato prima di tutto i grandi credenti. Sono vissuti molto prima di noi, in ambienti e culture diversissime dalle nostre. Sepolti in un tempo ormai lontano, il loro ricordo non si è spento. Sono stati, innegabilmente, dei cristiani da ammirare.
La risposta che molto di loro hanno dato, ci ha lasciato però abbastanza perplessi. Se li prendevamo sul serio, avevamo l'impressione di ritrovarci con una esistenza rotta dentro, segnata da una divisione feroce proprio in quello spazio dove sentivamo prepotente l'esigenza di riconciliazione.
Alla loro scuola, vivere nella attesa e sperare nel futuro di Dio significava fuggire dal nostro presente, rinunciando a tante cose che condividiamo con gli altri uomini.
Misurati con il ritratto di cristiano da loro impersonato, avevamo paura di dover scegliere tra Dio e il nostro tempo.
Nel loro modello di spiritualità, infatti, la storia, la vita, il mondo sono collocati in uno spazio che non ha proprio nulla di sacro. Con una espressione che è già giudizio di valore, lo si chiama "il profano". Profano è tutto ciò che è "estraneo o contrario a quanto si ritiene relativo all'ambito della religione": così lo definisce un vocabolario della lingua italiana. Profano significa, in un certo linguaggio, lontano dalla salvezza di Dio.
Le cose non erano così nel progetto originale di Dio. Ma l'orgoglio presuntuoso dell'uomo ha rovinato tutto.
Dio non si è rassegnato a costatare la distruzione del suo capolavoro. Ha deciso di porci un rimedio solenne. L'uomo è stato richiamato alla salvezza: Gesù Cristo è il segno concreto del rinnovamento radicale che Dio vuole realizzare.
Purtroppo la storia, personale e collettiva, è ancora lontana da questo rinnovamento radicale. Due blocchi si fronteggiano e si escludono a vicenda. Da una parte c'è il mondo della salvezza; dall'altra quella del peccato. Il mondo del peccato è il nostro mondo quotidiano. Il mondo della salvezza è quello che Dio attua attraverso interventi progressivi.
L'uomo deve scegliere, decidendo una buona volta da che parte vuole stare.
Il cristiano "bravo" fa una scelta coraggiosa. Abbandona il mondo profano, che lo disturba nella sua esistenza spirituale e lo tiene lontano dalla salvezza; e si trasferisce coraggiosamente nello spazio del sacro.
I cristiani migliori sono quelli che hanno il coraggio di fare questo salto deciso. I veri cristiani sono perciò i monaci, che fanno il passaggio in forma istituzionale e pubblica: abitano in un luogo diverso da quello degli altri uomini; hanno ritmi di vita e occupazioni originali.
Purtroppo molti cristiani non possono permettersi una decisione così radicale. La loro casa è vicina a quella degli altri uomini. Hanno impegni e responsabilità comuni con tutti. Non possono proprio fuggire dal mondo profano.
Se non lo possono fare fisicamente, devono però tentare l'operazione affettiva. Si sottraggono alla morsa del profano in alcuni momenti forti e attraverso gesti speciali.
Preghiera, pratiche religiose, tempi di raccoglimento, celebrazioni liturgiche funzionano come recupero.
Gli "intervalli" felici si allungano, fino a cercarne una progressiva riproduzione nel ritmo dell'esistenza quotidiana.
L'attesa dell'uomo presuntuoso
Possiamo non condividere il tipo di risposta, offerto da questi grandi cristiani. Non possiamo però non ammirare la passione con cui l'hanno espressa e l'impegno coraggioso con cui l'hanno trasformata in vita quotidiana.
Non hanno fuggito il quotidiano per un gusto sadico e triste. E neppure l'hanno fatto per paura di sporcarsi le mani.
La loro vita ci grida proprio il contrario.
Hanno agito così per dire forte che solo Dio è il Signore; non possiamo permetterci il lusso di piegare le nostre ginocchia agli idoli.
Per essi, affermare la signoria assoluta di Dio comportava immediatamente un grande rispetto per l'uomo. Sapevano - e lo gridavano - che il nostro Dio non è il signorotto presuntuoso, che vuole tutti stesi ai suoi piedi e pronti ai suoi cenni. Al contrario, chi lo adora viene restituito alla pienezza di vita, di libertà e di felicità.
Nell'esistenza di questi grandi cristiani vibrava la stessa passione che inquieta la nostra vita: possedere la vita in pienezza. Prendevano tanto sul serio la testimonianza inquietante di Gesù, da mostrare che solo perdendo la propria vita, rinunciando fisicamente ad essa, la possiamo possedere totalmente.
Oggi è troppo facile capovolgere frettolosamente la logica. Vogliamo fare dell'uomo l'unico signore, piegando persino il mistero di Dio al suo volere.
Abbiamo imparato a giocare con la natura, come se fosse solo per i nostri trastulli. L'abbiamo smontata e rimontata come il bambino curioso fa con i suoi giocattoli, per divertirsi di più; e ogni tanto ci esplode tra le mani. Non riusciamo a controllare la potenza energetica prodotta. Non sappiamo ormai dove assemblare le scorie che restano sul tappeto dopo i nostri esperimenti. Facciamo i conti di quello che possiamo ancora consumare e ci consoliamo se scopriamo che almeno la nostra generazione è sicura di avere energia sufficiente. Abbiamo diviso violentemente gli uomini in ricchi e poveri, con un fossato che si allarga sempre di più; e ci ripuliamo la coscienza, noi ricchi, devolvendo ogni tanto le briciole del nostro superfluo.
L'uomo saccente e presuntuoso si è messo al centro dell'universo. Quando va in cerca di Dio, lo fa a testa alta, dallo sgabello della sua arroganza.
Noi cristiani non abbiamo certo le mani pulite in tutta l'operazione. Non possiamo gridare infastiditi contro questo modo di fare, come se non centrassimo per nulla.
Troppe volte abbiamo ridotto Dio al rango di concorrente geloso della voglia di vivere dell'uomo. Qualche volta l'abbiamo persino invocato per giustificare soprusi e ingiustizie. Abbiamo parlato del mistero di Dio e dell'uomo come gente che sa tutto ed è pronta a spiegare tutto. Facevamo nascere il sospetto di avere la chiave dei segreti: era sufficiente ascoltare le cose che dicevamo per possedere tutta la verità.
Abbiamo così costretto uomini, saggi e pensosi, a combattere questo Dio, ingiusto e vendicativo, che sta sempre dalla parte dei potenti e che svela i suoi segreti solo a qualche privilegiato. Nel loro grido di rivolta hanno cercato di liberare l'uomo da Dio per restituirlo a se stesso e alle sue responsabilità.
La situazione triste però resta.
Non c'è più tempo per piangere, cercando responsabilità.
Sotto la minaccia pesante dei grossi disastri che ci incombono, l'interrogativo ritorna, più bruciante che mai: O Dio, chi sei tu per me? E io, chi sono per te?
Un po' di mistero non guasta proprio
Con la trepidazione di ci sa di manovrare questioni di vita e di morte, ho preso in mano la Bibbia alla ricerca di suggerimenti. Mi sono scontrato con pagine dure, di quelle che danno da pensare senza pietà.
Impressiona, per esempio, l'abisso di solitudine e di tristezza che fa gridare a Gesù, nell'atto supremo e sognato di tutta la sua vita: "Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mt 27, 46).
L'urlo di Gesù dà voce alle angosce di tanti credenti. Spesso ci troviamo sprofondati nell'imprevedibile silenzio di Dio. Anche noi gridiamo, con le parole del Salmo: "Dio, esci dal tuo silenzio, non rimanere muto e inattivo" (Sal. 83, 2).
Non è una situazione eccezionale. È invece il rischio quotidiano di ogni esistenza che cerca di sfondare il confine del mistero. Lo testimonia una bellissima pagina della lettera agli Ebrei. L'autore vuole spiegare la fede. Prima ne dà una definizione: "La fede è un modo di possedere già le cose che si sperano, di conoscere già le cose che non si vedono" (Eb 11, 1). Poi, per farsi capire meglio, racconta una serie di storie di vita.
Abramo sale, in silenzio, il monte Moria sotto il peso della sua disperazione. Dio, che confessa il suo Signore e Salvatore, lui che gli ha dato una patria e gli ha promesso una generazione più numerosa delle stelle che punteggiano i bellissimi cieli orientali, questo Dio meraviglioso gli ha chiesto di sacrificare in suo nome il figlio della promessa. Abramo dice di sì, ma il suo cuore grida: O Dio, chi sei tu?
Mosé, la mano potente di Dio, fa il vuoto di ogni nemico e deve fermarsi, inesorabilmente, alla soglia della terra promessa. L'ha sognata ardentemente. L'ha sofferta fino al sangue. Verso essa ha trascinato un popolo, testardo e pieno di nostalgie per quello che ha dovuto abbandonare. E adesso che c'è arrivato, deve fermarsi. Bloccato ai confini della patria desiderata, anche Mosé ha gridato: Dio, perché?
La pagina della lettera agli Ebrei fa solo degli esempi, scegliendo tra i personaggi illustri del popolo ebraico. Con loro ci sono però tanti altri uomini, consegnati al loro Dio e spesso lasciati soli, nel dolore e nella morte.
C'è Maria, di certo, lei che diventa madre di tutti gli uomini nel momento in cui perde il Figlio suo. Ai piedi della croce Maria ha pagato un prezzo alto, ingiusto, per essere mamma di tanti figli, che non conosceva, che gli rubavano l'unico Figlio, veramente figlio. Nel grido di Gesù c'era anche il suo di madre tradita: O Dio, perché?
Ci siamo anche noi. Ogni giorno lo invochiamo il Padre che manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi; e sappiamo delle tremende carestie che fanno morire di fame tanti nostri fratelli e conosciamo la sofferenza che attraversa la nostra vita. Ormai nessuno riesce a farci credere spassionatamente che il giusto vive della sua giustizia e il malvagio muore nella sua perfidia. I giornali ci raccontano di segmenti di storia dove le cose vanno ben diversamente.
Dio riempie la nostra vita quotidiana. Essa è il luogo della sua presenza di salvezza. Ma il nostro è un Dio imprevedibile: è il Dio del silenzio che si fa parola e resta silenzio e mistero.
La presenza di Dio non è solo diversa da qualsiasi altra presenza di amici perché è una presenza giocata tutta tra visibile e mistero. La sua è la presenza dell'ineffabile.
È una presenza, vera intensa reale, che è nello stesso tempo e con la stessa verità "assenza": perché è un possesso mai totalmente posseduto, è una vicinanza mai pienamente vicina.
Nel vocabolario con cui descriviamo le nostre esperienze, il contrario di vicinanza è lontananza, quello di presenza è assenza, come quello di possesso è privazione.
Il Dio di Gesù ha un vocabolario tutto suo. Quando si fa parola per noi, riesce a coniugare nello stesso gesto vicinanza e lontananza, assenza e presenza, possesso e privazione. Egli è Dio-con-noi; ma resta sempre l'ineffabile e l'indicibile.
Confessarlo presente non è mai un sottile esercizio della nostra intelligenza. È sempre una scommessa di vita perché è un atto di fede confessante. È il rischio di chi accetta di misurarsi con l'imprevedibile.
Chi si interroga su Dio e sull'uomo, di fronte all'avventura dell'esistenza quotidiana e alla ricerca di fondamenti sicuri, sa di sprofondarsi nel mistero di Dio. Lì tutti gli uomini sono davvero fratelli, credenti e non credenti, cristiani e gente delle altre grandi esperienze religiose. Le loro strade finiscono sempre sulle sponde di un mistero che dà le vertigini.