Un pastore che dà la vita
IV domenica di Pasqua B
Sabino Chialà
In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:" 11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio»
Giovanni 10,11-18
Nelle scorse domeniche, le prime del tempo di Pasqua, abbiamo meditato sulle manifestazioni del Risorto ai discepoli, raccontate in episodi in cui paura, stupore e timida gioia hanno fatto da sfondo a un dialogo che, interrotto dalla morte del Maestro, riprendeva, ridando a quella comunità disorientata nuova forza per ricominciare.
Più volte in quei testi abbiamo sentito annunciare il Signore risorto che si fa presente al cuore della comunità, che “sta” in mezzo ai discepoli. Del come di questa presenza – nei quaranta giorni successivi alla resurrezione e ancora oggi – ci parlano le immagini che le pericopi evangeliche ci propongono in questa domenica e nella prossima. Due immagini tra le più ricorrenti nelle Scritture, e che rievocano i due contesti per eccellenza del mondo antico: la pastorizia del nomade, nell’immagine del pastore, e quella dell’agricoltura del sedentario, nella metafora della vigna.
Nella prima immagine, di cui ci parla il vangelo di questa domenica, il Signore risorto sta in mezzo ai suoi come il pastore tra le pecore. Non un qualsiasi pastore, ma quello “buono”, di cui l’evangelista Giovanni racconta i modi e i gesti, perché la comunità credente possa riconoscervi i modi e le azioni del Risorto che non cessa, ancora oggi, di accompagnare e di prendersi cura della Chiesa e dell’umanità intera.
Quella del pastore è una delle metafore che la Scrittura applica a Dio stesso (cf. Gen 48,15-16; Is 40,11; Ger 31,10; Ez 34,11-16; Sal 23,1; 80,2; Sir 18,13). Pastori, in origine, sono anche alcune delle figure più significative della storia della salvezza: il giusto Abele (cf. Gen 4,2); il misericordioso Giuseppe (cf. Gen 37,2), il liberatore Mosè (cf. Es 3,1), il re David (cf. 1Sam 17,15) e il profeta Amos (cf Am 7,14-15). L’immagine infine è applicata ai capi del popolo, soprattutto nelle critiche mosse loro dai profeti che li accusano di mostrarsi cattivi pastori, abusando del gregge anziché servirlo (cf. soprattutto Ez 34).
Gesù qui si propone come il “pastore buono” (v. 11), cioè come il pastore secondo il cuore di Dio. Tale, innanzitutto, perché capace di “dare la propria vita per le pecore” (v. 11). La prima qualità del pastore buono non si esprime in un’azione specifica, ma in un atteggiamento che è alla base della bontà e dell’efficacia di tutti quegli atti di cura concreta con cui egli assisterà le sue pecore. “Dare la vita” è infatti un’espressione che si ripete come un ritornello, con il verbo títhemi (che noi traduciamo con “dare”), riferito al “dare la vita”, che in questi pochi versetti ricorre ben cinque volte.
La disponibilità a dare la vita è il cuore del messaggio evangelico di questa domenica e il cuore dell’evento pasquale che ora assume lo statuto di fondamento della comunità credente. Gesù è il pastore buono perché ha dato e continua a dare la propria vita per il gregge. La sua capacità di pascere il gregge, di prendersene cura senza servirsene, ha qui la sua origine.
Per spiegare il concetto, Giovanni ricorre all’immagine opposta, quella del mercenario, descritto nei vv. 12-13. Costui porta nel suo stesso nome ciò che gli è di impedimento per essere un “pastore buono”: è lì per un salario. Ciò che lo lega al gregge non è un rapporto di intimità, di coinvolgimento nella vicenda delle pecore a lui affidate. Dice Giovanni: non sente quelle pecore come “sue”. Cioè come parte di sé e della propria storia. Gli sono estranee; sono per lui solo una fonte di guadagno: “Non gli importa – dice ancora Giovanni – delle pecore” (v. 13). Per cui, all’insorgere di un pericolo, abbandona il gregge e fugge. Tra la propria vita e quella delle pecore, stima più preziosa la propria.
Gesù invece, proprio perché non è un mercenario, può prendersi davvero cura del gregge. Una cura possibile grazie all’intima conoscenza tra il pastore e le pecore: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (v. 14). Una conoscenza che dice autenticità di relazione, partecipazione alle vicende dell’altro, cioè compassione.
Un’intimità, però, che non chiude, che non diventa settaria. Infatti, Gesù subito aggiunge: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare” (v. 16). Mentre si prende intima cura della pecore vicine, pensa e porta nel cuore quelle lontane. Si tratta di un pastore dagli orizzonti ampi, capace di uno sguardo che sa andare oltre i recinti che noi esseri umani costruiamo e nei quali spesso ci rinchiudiamo.
Ma com’è possibile una tale libertà, rispetto a se stessi e rispetto agli altri? Rispetto a se stessi, perché questo pastore sa prendersi cura del gregge senza pretendere un salario, come il mercenario. Rispetto agli altri, perché non si lascia rinchiudere nei recinti eretti da noi esseri umani. Gesù rivela l’origine di tale capacità nei versetti finali del nostro brano, dove parla di una strana “autorità (exousía)”: “Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho l’autorità (exousía) di darla e l’autorità (exousía) di riprenderla di nuovo” (vv. 17-18).
Il pastore certo è colui che ha autorità. Anche nella Chiesa, la funzione di guida è associata a quella dell’autorità. Ma di quale autorità si tratta? Nei Sinottici Gesù è riconosciuto tale perché parla e agisce con autorità, essendo la sua parola e la sua azione efficaci (cf. Mc 1,22 e 27). Qui Giovanni ci parla di un’altra autorità: quella su se stessi, che è alla radice di ogni autorità a servizio degli altri, che si esprime cioè in una parola e in azioni che siano davvero efficaci. Vera autorità e fondamento – autorità del pastore buono che si distingue da quella del mercenario – è questa: la libertà da se stessi, dal voler salvare se stessi, che qui si esprime nella capacità/autorità di deporre la vita.
Gesù è il pastore “buono”, esercita l’autentica autorità, perché è libero da se stesso al punto da “deporre la vita” per “riprenderla di nuovo”. Qui è la radice di tutto. Questo è il modo di presenza del Risorto in mezzo ai suoi: Gesù è libero da se stesso – cioè ha autorità sulla propria vita - e dunque è capace di servire gli altri senza servirsene. Gesù è libero da se stesso, e dunque non teme gli altri ma se ne prende cura.
La forza di questa libertà e di questa autorità vivificante, Gesù la trova nella sua relazione con il Padre. Dice infatti: “Per questo il Padre mi ama” (v. 17); e alla fine del nostro brano: “Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (v. 18). Gesù è libero perché resta legato a colui che continua a renderlo libero: il Padre che lo ama.
Ecco il pastore buono, che resta capace di risanare le sue pecore; il pastore che non si comporta da mercenario, che ha un unico desiderio: che quelle pecore “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza”, come aveva appena detto, nel versetto immediatamente precedente alla nostra pericope (v. 10).
Il Risorto è il pastore buono che dimora tra i suoi per consegnare loro, ogni giorno, la vita che è in lui, perché anch’essi possano viverne e vivere in pienezza.