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    Possiamo ancora sperare, oggi?

    Giuseppe Savagnone *



    1. Il suicidio di una società senza speranza

    Degli uomini e delle donne del nostro tempo si è tentati di dire ciò che un noto scrittore francese, Michel Houellebecq, scrive a proposito dei personaggi di un suo romanzo: «In pieno suicidio dell'Occidente, era evidente che non avevano alcuna speranza». [1]
    I sintomi di questo suicidio in atto sono tanti da non poter essere, in questa sede, oggetto di una analisi neppure sommaria: dalla paurosa crisi demografica dell'Europa, alla diffusione – soprattutto fra i giovani – di droghe sempre più micidiali; dalle guerre sanguinose, scoppiate dopo una fase di relativa quiete che durava dalla fine del secondo conflitto mondiale, all'incapacità di far fronte seriamente alla crisi climatica incombente; dalla chiusura sempre più accentuata dei paesi ricchi del Nord del pianeta nei confronti degli abitanti del Sud povero che inseguono il sogno di una vita più umana, all'assunzione della libertà di aborto come simbolo della emancipazione femminile – per citarne solo alcuni, più evidenti – lo scenario che ci si presenta è quello di una cultura di morte che non concede più spazio alcuno alla speranza.
    Dietro questi fenomeni sociali c'è la stessa tendenza a diffidare del futuro. È uno degli aspetti più inquietanti della cosiddetta «post-modernità». Nell'età moderna si scrivevano opere inneggianti al mondo che doveva venire. Scritti come Utopia, di Tommaso Moro, La città del sole, di Tommaso Campanella, Nuova Atlantide, di Francesco Bacone esprimevano questa immensa fiducia nell'avvento di una società ideale, dove la giustizia e il benessere collettivo avrebbero finalmente trionfato.
    Nell'età post-moderna questo ottimismo si è capovolto nel più cupo pessimismo. I due più noti classici di fanta-politica del Novecento –1984, di George Orwell, e Il mondo nuovo, di Aldous Huxley – delineano scenari di radicale disumanizzazione. E basta dare una scorsa al contenuto dei film che provano oggi a descrivere il futuro per avere la conferma di questa tendenza: vi si delinea un mondo che è stato distrutto da una catastrofe nucleare (The day after, di Nicholas Meyer), o dalle macchine (Matrix, dei fratelli Wachowski; Terminator, di James Cameron), o da una pandemia (L'esercito delle 12 scimmie, di Terry Gilliam). Sono solo degli esempi. È difficile trovare un solo film, prodotto in questi ultimi decenni, che pensi alla società di domani in termini positivi.
    La ricaduta di questo clima culturale sulle nuove generazioni è evidente. Il vuoto lasciato dalla fine delle ideologie, che pur in modo spesso distorto proponevano un futuro, non è stato riempito da nulla di meglio. In passato i ragazzi avevano degli obiettivi ideali – anche sbagliati – per cui erano pronti a dare la vita – la patria, la rivoluzione, la libertà... Oggi è difficile trovarne uno che sia disposto a credere in una causa più grande di lui, al punto di essere disposto a morire. E chi non ha nulla per cui morire, non ha neppure nulla per cui vivere.
    Quello che resta, allora, è abbandonarsi al presente nella sua fugacità (L'attimo fuggente, di Peter Weir), rinunziando ai progetti e alla speranza. Senza che questa ebbrezza di provvisorietà possa, però, riuscire a esorcizzare del tutto una sottile, più o meno conscia, disperazione. È un osservatore attento del mondo giovanile, Umberto Galimberti, a segnalare che quella che sembra pienezza di vita è in realtà solo un anestetico, assunto in dosi tanto più massicce quanto maggiore è la percezione del malessere: «Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l'angoscia». [2]
    I nostri giovani non sanno più sperare. Perciò vogliono tutto e subito. La voracità ansiosa con cui «consumano» oggetti, esperienze, stati d'animo, rivela in fondo la disperazione di cui si parlava. Da questo consumismo selvaggio – dimensione dello spirito, prima che dell'economia – vengono alterati i rapporti con le persone e con le cose. Emblematico il cambiamento dei costumi sessuali. Tra uomini e donne non c'è più, spessissimo, quel lungo, paziente gioco amoroso, che si realizzava nel corso del corteggiamento, una storia fatta di attesa e di graduale avvicinamento, ma la pretesa «sincerità» di rapporti fisici sganciati dalla tenerezza dell'amore e che solo impropriamente vengono chiamati “storie”. Gli stessi oggetti, un tempo custoditi e «umanizzati», vengono svalutati, nella logica di un «usa e getta» che ne svilisce la bellezza e la funzionalità.
    Meno che mai si spera di costruire una società più giusta. Le ideologie erano fallaci, ma il loro tramonto ha lasciato dietro di sé le macerie di un'illusione perduta e di una rassegnata sfiducia. Quello che resta è la cinica corsa alla ricerca individuale di un'auto-realizzazione che tende ad assolutizzare sé stessa, prescindendo dal reale servizio alla società da cui essa dovrebbe scaturire.
    Emblematica di questa crisi della speranza è la famosa pièce teatrale di Samuel Beckett Aspettando Godot (1952). Ne sono protagonisti Vladimiro ed Estragone, due poveracci che aspettano, a un angolo di strada, un personaggio misterioso, Godot. L'allusione religiosa è trasparente: per Beckett, scrittore inglese che scrive in francese, Godot rimanda a Dio (God).
    Ma il dialogo tra i due – se di dialogo si può parlare – lascia trasparire la vanità della loro attesa senza certezze e senza tempo. «Estragone: "Dovrebbe già essere qui". Vladimiro: "Non ha detto che verrà di sicuro". Estragone: "E se non viene?". Vladimiro: "Torneremo domani". Estragone: "E magari dopodomani". Vladimiro: "Forse". Estragone: "E così di seguito". Vladimiro: "Insomma...". Estragone: "Fino a quando non verrà". Vladimiro: "Sei spietato". Estragone: "Siamo già venuti ieri". Vladimiro: "Ah no! Non esagerare, adesso". Estragone: "Cosa abbiamo fatto ieri?". Vladimiro: "Cosa abbiamo fatto ieri?". Estragone: "Sì". Vladimiro: "Be'... (Arrabbiandosi) Per seminare il dubbio sei un campione" [...1 Estragone: "Sei sicuro che era stasera?". Vladimiro: "Cosa?". Estragone: "Che bisognava aspettarlo?". Vladimiro: "Ha detto sabato. (Pausa) Mi pare" E.. Estragone: "Ma quale sabato? E poi, è sabato oggi? Non sarà poi domenica? O lunedì? O venerdi?"». [3]
    E quando, alla fine, un ragazzo viene ad avvertire che anche stavolta Godot non arriverà, Vladimiro dice all'altro: «Allora andiamo?». Ed Estragone: «Andiamo». Ma la didascalia conclusiva è: «Non si muovono».
    In ultima istanza, a venir meno è il concetto stesso di storia. Il grande ispiratore della post-modernità è Nietzsche, con il suo polemico ritorno alla visione pre-cristiana dell'«eterno ritorno», che nega al divenire qualunque senso – nella duplice accezione di «direzione» e «significato» –, rappresentandolo come un flusso caotico, ciclico, senza alcuna speranza di novità e di progresso. Su questo sfondo qualcuno ha parlato espressamente di una «fine della storia» (è il titolo di un celebre libro di Francis Fukuyama, del 1992).
    Da qui l'impossibilità di sperare. Come scrive Karl Löwith: «La teoria pagana è priva di speranza, perché speranza e fede sono per essenza legate al futuro, e non vi può essere un vero futuro se i tempi passati e venturi sono concepiti come fasi equivalenti entro una ricorrenza ciclica senza principio né fine». [4]

    2. Vivere per la morte?

    Questa ricaduta del futuro nel nulla indica in realtà la ricaduta nel nulla della stessa vita umana e il trionfo della morte. Il filosofo che forse più di ogni altro ha segnato la riflessione del secondo Novecento, Martin Heidegger, aveva scritto, in Essere e tempo, che per l'essere umano «la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile» e che il suo è, costitutivamente, un «essere-per-la-morte». [5]
    Questo quadro può apparire in contrasto con lo scenario di una società divorata da una frenesia attivistica che spinge le persone a una corsa incessante contro il tempo. A spiegare questo apparente paradosso sono le considerazioni di un pensatore del XVII secolo, Blaise Pascal, più attuali che mai nella nostra realtà odierna.
    Al centro dell'analisi pascaliana è quello che l'autore chiama «divertissement», «distrazione». «Gli uomini» – spiega il filosofo francese – «non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l'ignoranza, hanno deciso di non pensarci per rendersi felici». [6] E, per non pensarci, si gettano in un vortice di impegni che costituisce il loro «divertissement».
    «Così si spiega perché sono così ricercati il gioco, la conversazione delle donne, la guerra, le grandi cariche. Non già che in queste cose ci sia effettivamente della felicità, né che si pensi che la vera beatitudine consiste nel possedere il denaro che si può guadagnare al gioco, oppure nell'inseguire una lepre; queste cose, se ci fossero offerte, non le vorremmo. Noi non cerchiamo né il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione, né i pericoli della guerra, né la preoccupazione delle cariche, ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte. Questa è la ragione per cui si gusta più la caccia che la preda. Per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto [...]. Questo è tutto quello che gli uomini hanno potuto inventare per diventare felici. E quelli che fanno i filosofi su questo e credono che il mondo è troppo poco ragionevole nel passare tutto il giorno a correre dietro a una lepre che non accetterebbero se comprata, non conoscono la nostra natura. Quella lepre non ci garantirebbe dalla e delle miserie, ma la caccia, che ce ne distoglie, ci garantisce». [7]
    Se la sola prospettiva del trascorrere del tempo è il nulla della morte, non c'è posto per la speranza. E la sola cosa da fare è stordirsi, per evitare di trovarsi davanti a quello che, secondo Albert Camus, è il solo «problema filosofico veramente serio: quello del suicidio». [8]

    3. La scoperta della storia e la speranza

    In questo contesto acquista un nuovo valore la prospettiva cristiana della speranza, riproposta dal Giubileo. È significativo che il concetto stesso di «storia» come regno dell'uomo, distinto dal corso della natura, emerga solo grazie all'influenza della Bibbia.
    Nella civiltà arcaiche e in quella classica le vicende umane sono sì registrate e studiate – si pensi ai grandi storici greci Erodoto, Tucidide... – ma le si concepisce solo come un aspetto di quelle del cosmo. È la natura l'orizzonte ultimo entro cui si collocano le vicissitudini degli esseri umani, intrecciandosi con quelle delle piante, degli animali, degli stessi dèi, i quali non sono altro che la personificazione delle forze di questa natura.
    In questo cosmo divinizzato non c'è posto per una differenza radicale dell'essere umano dagli altri che popolano l'universo. E le leggi che regolano la vita di questi ultimi dominano anche il suo divenire, che perciò non ha una fisonomia propria, rispetto al corso dei fenomeni naturali.
    E poiché questo corso appare rigorosamente ciclico – fondato com'è sul continuo ripetersi del giorno e della notte, delle stagioni, delle maree –, anche le vicende umane sono lette nella prospettiva di un «eterno ritorno» (a cui poi si è ispirato Nietzsche), che esclude l'apparire mai di qualcosa di veramente nuovo. Tutto ciò che potrà accadere è già accaduto. L'apparente progredire in avanti è in realtà, come nel circolo, un tornare al principio, per ricominciare sempre da capo identico.
    La prospettiva inaugurata dalla Bibbia, «dissacrando» la natura e trasformando le divinità che la impersonavano – il sole, la luna, il mare – in altrettante realtà create, interamente sottoposte al governo del loro Creatore, da un lato ha messo in luce la trascendenza di Dio, dall'altro ha consentito di scoprire la «sporgenza» dell'essere umano, l'unico fra tutti gli esseri fatto a sua immagine, rispetto a tutti gli altri che popolano l'universo. A questo punto il destino dell'uomo si è profilato come radicalmente distinto e diverso rispetto al loro, regolato da altre leggi, compatibili con la sua libertà.
    Proprio alla libertà – evidenziata già nel racconto del primo peccato – si riferisce la prima, fondamentale differenza tra gli atti umani e i loro effetti, caratterizzati dall'unicità e irripetibilità che li rende «eventi», e i processi fisici, sempre uguali e ripetibili, che sono perciò solo «fenomeni».
    Da qui una seconda differenza: mentre ciò che si verifica nella natura si ripresenta incessantemente in forme simili, dando luogo a un percorso ciclico in cui il «nuovo» non è altro che una riproposizione del «vecchio» già conosciuto, le vicende della storia umana sono irreversibili e determinano un cammino lineare, proteso verso l'ignoto. La storia ha una direzione. Diventa possibile l'idea – a noi familiare, ma sconosciuta nel mondo antico – di «progresso».
    Ciò ha comportato anche la valorizzazione di una categoria che era sempre stata svalutata rispetto allo spazio: quella del tempo. Nella storia della salvezza Jahvè, a differenza delle divinità cananee, non si manifesta nei fenomeni ricorrenti della natura, ma irrompe nel tessuto degli avvenimenti aprendo nuove prospettive e dando una direzione al corso degli eventi. Nelle sue apparizioni, l'essenziale è il risuonare di una parola di promessa, nella cui luce il presente si apre al futuro della speranza. «Seguendo la stella della promessa non si fa l'esperienza della realtà presente come di un cosmo divinamente stabilizzato, ma come una storia che avanza, lascia le cose vecchie dietro di sé e si spinge verso orizzonti nuovi e mai visti prima». [9]
    Ad Abramo, ormai anziano e segnato dalla morte, Dio giura una discendenza numerosa come le stelle (cf. Gn 12,5); a Mosè, anche lui vecchio e stanco, affida la missione apparentemente impossibile di liberare il suo popolo (cf. Es 3,7-10). E la missione di Gesù segna l'inizio di un mondo nuovo.
    E ciò avviene nel tempo della storia, nell'intreccio di scelte, di vicende, di situazioni che costituiscono l'ambiente dove crescono i singoli e le società umane. È questo contesto problematico, contingente, che Dio ha scelto come luogo privilegiato del suo incontro salvifico con noi. Lo sottolinea, nel suo Vangelo, Luca: «Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturea e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilene, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto» (Lc 3,1-2).
    Per questo tutta la rivelazione giudaico-cristiana non contiene una enunciazione di verità, di princìpi o di comandi, ma è costituita da una grande narrazione di storie. Di esse Dio stesso sI fa protagonista, abbandonando il trono regale in cui lo si immaginava assiso come un impassibile spettatore e giudice, e lasciandosi coinvolgere in situazioni contingenti. È lì, in queste manifestazioni legate a luoghi e tempi particolari, che ormai bisogna cercarlo.
    È questa la peculiarità, ma anche la difficoltà della fede giudaica e, ancor più, di quella cristiana. Le religioni dell'antichità erano centrate su una rivelazione cosmica che trovava il divino nei fenomeni della natura. Da qui una universalità religiosa che è quella del movimento degli astri e del corso delle stagioni, uguali per tutti gli esseri umani di ogni tempo e dí ogni luogo. La divinità, in questa prospettiva, non prende partito per nessun individuo e per nessun popolo, perché è di tutti allo stesso modo.
    Il Dio della Bibbia, invece, non è super partes, fa delle scelte, peraltro discutibili e a volte molto strane. Sceglie un uomo, Abramo, vecchio e deluso, e ne fa il fondatore di un popolo, accompagnandolo anche nelle vicende meno edificanti della sua avventura. Sceglie un popolo, Israele, piccolo e debole, rispetto a tanti altri che nei libri di storia hanno molto più spazio – egiziani, babilonesi, assiri, persiani, greci, romani... –, e stabilisce con questo popolo una intimità che trova la sua metafora più adeguata nell'amore nuziale. Jahvè ama Israele come uno sposo la sua sposa, è ferito dai suoi tradimenti, litiga con esso, lo castiga, lo perdona.
    Ma la svolta più stupefacente di questa storia si registra quando la parola di Dio non si limita più a entrare in essa rivolgendosi agli uomini, ma vi partecipa personalmente facendosi «carne» (Gv 1,14), una espressione che indica, nella dimensione umana, non soltanto la corporeità, ma ciò che vi è di più fragile ed esposto al male.
    Dio, secondo il Nuovo Testamento, si è fatto uomo e ha avuto una storia. È nato in Palestina al tempo di Augusto e là è vissuto, in un paesino chiamato Nazaret. Al tempo di Tiberio ha cominciato la sua attività pubblica di rabbi, entrando in conflitto con le autorità religiose del suo popolo e finendo la sua avventura sul patibolo, risuscitando però al sepolcro e manifestandosi poi ai suoi discepoli non in puro spirito, ma fisicamente, sulla strada per Emmaus, nel cenacolo, in riva al lago. È questo racconto, non un testo sacro contenente massime eterne, la fonte ultima di tutto il cristianesimo.
    E sarà poi ancora un racconto – narrato negli Atti degli apostoli – che dirà come i seguaci di quest'uomo si siano uniti in comunità e, negli ultimi decenni di quello che ormai verrà chiamato il primo secolo dopo Cristo, abbiano diffuso il suo messaggio, attraverso tappe successive, prima nel vicino Oriente, poi in Macedonia, poi in Grecia, poi a Roma.
    In questo modo la storia è diventata – in quanto anche storia di Dio – il luogo della salvezza. Essa non ne è una mera cornice, bensì la dimensione imprescindibile, perché questa salvezza non è inscritta nei corsi e ricorsi della natura, ma nella unicità e irripetibilità degli eventi di cui Lui, come uomo, è protagonista.
    Ma, più alla radice, è la storia stessa a essere salvata: «La "storia della salvezza" si costruisce sulla possibilità di una "salvezza della storia", fondata nel mistero dell'avvento col quale il Dio vivente ha fatto sua la storia degli uomini». [10]
    E, attraverso di essa, è l'intero universo ad avere una storia protesa alla salvezza: «L'ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio [...]. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino a oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,19-23).
    Ora il tempo ha una direzione, tende a un compimento. La speranza è diventata possibile. Perché il Dio della storia, il Dio di Abramo, è colui «che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono», il futuro. È in questo Dio, creatore dal nulla di novità imprevedibili, che Abramo credette, «sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: così sarà la tua discendenza» (Rm 4,17-18).

    4. Vivere la speranza oggi

    Il Giubileo viene celebrato in un momento storico in cui è più evidente che mai che la scelta decisiva oggi è tra una sterile attesa di Godot e la speranza. Dio non vuol essere solo a creare ma, fin dalla fondazione dell'Eden, chiede la cooperazione dell'uomo alla sua opera. Certo, bisogna sempre ricordarsi che, «se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori» (Sal 127,1). Ma non si può neppure ignorare l'invito di Gesù ai suoi apostoli, quando gli presentavano i bisogni delle folle affamate: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mt 14,16).
    Questo invito interpella innanzitutto i cristiani. Non si tratta di costruire una società che porti impresso il sigillo della croce in ogni sua istituzione e in ogni sua espressione. Il tempo della «cristianità» è finito per sempre e non lo rimpiangiamo, perché troppo spesso queste costruzioni umane hanno preteso di sostituire il regno di Dio, offuscandone l'immagine e indebolendo la tensione verso di esso.
    Ai cristiani spetta, piuttosto, l'umile compito di essere lievito della storia degli uomini (Mt 13,33) e la regalità che a essi è conferita dal loro battesimo non è quella dei «dominatori di questo mondo» (1Cor 2,8), ma quella di Cristo, il quale, alla domanda di Pilato se egli fosse re, ha risposto: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37).
    La sola regalità cristiana è quella, inerme, della verità. E quale altra speranza potrebbe essere più appropriata a un mondo che spesso vede trionfare la deformazione sistematica, volontaria o involontaria, della verità dei volti, delle relazioni, delle esigenze più autentiche del cuore umano?
    Ma questa «regalità della verità» non garantisce il successo, anzi spesso viene manifestata sulla croce. Come quella di Gesù. E così sarà oggi. Essa, infatti, si dovrà esprimere come sfida a una cultura, ormai dominante in Occidente, che – al di là delle superficiali contrapposizioni tra «liberai» e «conservatori», tra «sinistra» e «destra» – , vive sotto il segno dell'individualismo possessivo di matrice neocapitalista e misconosce perciò la dignità delle persone, o prima della nascita (libertà di aborto assunta come apice dell'emancipazione femminile) o dopo di essa (difesa a oltranza dei privilegi sociali dei ricchi e rifiuto di accoglienza dei migranti).
    A questa cultura sarebbe sterile, da parte dei cristiani, contrapporsi costituendo a loro volta un nuovo fronte ideologico. La sfida della speranza è di poter sviluppare, attraverso un leale confronto, una ricerca condivisa con tutti gli uomini e le donne interessati alla verità. Oggi, nella complessità dei problemi suscitati dagli sviluppi della tecnica (si pensi all'intelligenza artificiale) è vero più che mai che «la Chiesa […] non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola questione» (Gaudium et spes, n. 33). Diventa così indispensabile l'esplorazione di vie nuove, che tengano conto del passato, ma per comprendere il presente e soprattutto preparare il futuro.
    In questo arduo cammino, il credente non dovrà aver paura delle domande. Anche la Madonna restò perplessa di fronte all'angelo e non comprese la risposta del figlio ritrovato nel tempio. Ella, che noi onoriamo col bel titolo di «Sede della sapienza», non disdegnò di condividere in qualche modo gli interrogativi che attraversano tutta la storia della salvezza, dal libro di Giobbe al Qohelet (libri sapienziali!), e che nascono dal prendere veramente sul serio le provocazioni della nostra storia.
    Prendere sul serio l'invito alla speranza significa oggi dare spazio a questo stile di riflessione, di ricerca e di dialogo nella vita ecclesiale concreta. Valorizzando quei «semi di verità», di cui già alla metà del II secolo parlava s. Giustino – che avrebbe testimoniato col sangue la sua fede – e che ovunque «si possono scorgere», [11] e accogliendo così l'invito rivolto ai credenti dal concilio Vaticano II a «conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti» (Ad gentes, n. 11).
    Perché tutto questo avvenga, però, è necessaria, come in passato, la capacità di avventurarsi verso mondi diversi, apparentemente inabitabili (il deserto). Così ha fatto Tommaso d'Aquino, utilizzando Aristotele, che era guardato con sospetto dalla Chiesa. Così hanno fatto tutti i santi che, nella sfera intellettuale o nella vita pratica, hanno aperto nuove strade, attirandosi, all'inizio, diffidenza, se non addirittura ostilità, da parte di tutti.
    La speranza a cui il Giubileo ci chiama passa attraverso questo rischioso cammino. Avremo il coraggio di percorrerlo?


    * Responsabile del sito www.tuttavia.eu dell'Ufficio della pastorale per la cultura, l'educazione e la comunicazione della diocesi di Palermo


    NOTE

    1 M. HOUELLEBECQ, Le particelle elementari, tr. it. S.C. Perroni, La nave di Teseo, Milano 2021, p. 285.
    2 U. GALIMBERTI, L'ospite inquietante: il nichilismo e i giovani, Feltrinellí, Milano 2008, p. 11.
    3 S. BECKETT, Aspettando Godot, tr. it. Einaudi, Torino 2000, pp. 24-25.
    4 K. LÖWITH, Significato e fine della storia, tr. it. F. Tedeschi Negri, Il Saggiatore, Milano, 1989, p. 189.
    5 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 1969, pp. 378 e 398.
    6 B. PASCAL, Pensieri, Edizione Brunschvig, n.168, ed. it. a cura di G. AULETTA, Edizioni Paoline, Milano 1961, p. 215.
    7 Ivi, n.139, ed. it. cit, pp. 200-201.
    8 A. CAMUS, Il mito di Sisifo, tr. it. A. Borelli, Bompiani, Milano 2020, p. 5.
    9 J. MOLTMANN, Teologia della speranza. Ricerche sui fondamenti e sulle implicazioni di una escatologia cristiana, tr. it. A. COMBA, Queriniana, Brescia 1981, p. 102.
    10 B. FORTE, Teologia della storia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Ml) 1990, p. 17.
    11 GIUSTINO, Apologia prima pro christianis 44 (PG 395).


    FONTE: Orientamenti pastorali 11/2024, pp. 18-28


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