Roma
Franco Cassano
La nostra cultura affonda le sue radici in quella greca e in quella romana, ma di queste radici oggi noi riconosciamo volentieri solo la prima. Non è difficile capire perché i Greci continuino a parlarci dopo più di duemila anni. La Grecia è terra di confine tra i continenti: che la si guardi sullo sfondo dell'Oriente asiatico, su quello dell'Africa (come suggeriscono gli studi di Martin Bernal) oppure come inizio dell'Occidente, essa risulta sempre decisiva, non cessa mai di suggerire storie, interpretazioni, prospettive.
La Grecia è l'incontro frastagliato e plurale di terra e mare, un paese pieno di luoghi che suggeriscono e impongono il viaggio, di momenti in cui la fedeltà alla terra e al gruppo inizia a indebolirsi sotto la spinta del mare, di quell'infedeltà dei marinai che preoccupava tanto Platone. La Grecia è quindi sin dall'inizio pluralità, l'impossibilità di ridurre ad unum la molteplicità delle prospettive: se il politeismo celebra la ricchezza di dimensioni che compongono l'uomo, la tragedia, con la sua secca e feroce impossibilità di conciliazione, mostra gli effetti perversi e l'unilateralità rovinosa annidati in ogni decisione, in ogni scelta anche nobile e sofferta. E c'è infine la filosofia.
Filo-sofia vuol dire amore e tensione per la sapienza, non il suo possesso, ma il contrario, il continuo e mai appagato tendere verso di essa. La filosofia è logos in quanto è, sin dall'inizio, dia-logos, confronto dialettico tra le prospettive. La verità non è data, ma nasce dall'incessante discussione, non è verticale, ma orizzontale, è il risultato dello scontro discorsivo. Questa verità che nasce dalla discussione salda in modo indelebile la filosofia alla democrazia, perché entrambe si fondano sull'idea che l'autorità debba nascere dal confronto e vada riverificata continuamente.
Sin qui la Grecia. Ma che cosa invece ci ha lasciato Roma? Perché quella di Roma sembra oggi un'eredità minore, anche a settori cospicui della cultura italiana? La risposta non è difficile. L'ultima «retorica» romana nella nostra storia è stata quella del fascismo con il suo esito rovinoso, che sembra aver trascinato con sé anche l'interesse per Roma. Ma si può ridurre Roma alla tarda e goffa riedizione dell'impero, alle avventure coloniali? E questa rimozione non corre il rischio di risultare una perdita grave, proprio quando la prova della globalizzazione impone di ridefinire la specificità dell'identità italiana?
Noi riteniamo che alcuni temi forti della tradizione romana tornino oggi di grande attualità. In primo luogo il diritto, come mediazione razionale e discorsiva dei conflitti, tecnica che permette di armonizzare la tutela del singolo con le esigenze della comunità: il diritto quindi come limitazione pratica e argomentata del potere, come forma necessaria della coesistenza dei diversi, come rimedio al rovescio negativo della pluralità greca, al suo disperdersi anarchico e conflittuale. In secondo luogo l'idea di impero come opposto dell'imperialismo, del dominio dell'uno sui molti, della sopraffazione. Proviamo a chiederci: se l'espressione mare nostrum non volesse dire «mare dei romani», ma di tutti noi, se essa potesse essere pronunziata in molte lingue e non solo in latino, se impero volesse dire universalismo come apertura, con imperatori nati nelle province e con la pelle di ogni colore, se impero volesse dire casa comune e orizzonti larghi, se esso fosse il correttivo globale del locale, l'antidoto contro il rischio municipalista, se esso fosse l'impegno per la pace capace di fede- ire i popoli del Mediterraneo e dell'Europa?
E se Roma volesse dire contenere il mondo, se fosse stata essa a suggerire alla Chiesa di dover contenere il mondo intero, di essere cattolica, siamo sicuri che non tornerebbe a dire qualcosa che vale per il futuro?