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    Gesù e Pilato

    Bruno Maggioni

     

    18,28. Allora conducono Gesù dalla casa di Caifa al pretorio. Era il mattino. Ed essi (i Giudei) non entrarono nel pretorio per non contaminarsi e poter partecipare al banchetto pasquale.
    29. Pilato allora uscì verso di loro e disse: Che accusa portate contro quest'uomo?
    30. Gli risposero e dissero: Se non fosse un malfattore, non te l'avremmo consegnato.
    31. Allora Pilato disse loro: Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge. I Giudei gli dissero: Noi non possiamo condannare a morte nessuno.
    32. In tal modo si adempiva la parola di Gesù che aveva predetto di quale morte doveva morire.
    33. Pilato entrò nel pretorio e chiamò Gesù e gli disse: Tu sei il re dei Giudei?
    34. Gesù rispose: Questo lo dici da te stesso o altri te l'hanno detto?
    35. Rispose Pilato: Sono forse io giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?
    36. Rispose Gesù: Il mio regno non è da questo mondo. Se il mio regno fosse da questo mondo, i miei sudditi avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei. Ma il mio regno non è di quaggiù.
    37. Gli disse allora Pilato: Dunque tu sei re? E Gesù: Tu lo dici, io sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla parte della verità ascolta la mia voce.
    38. Gli disse Pilato: Che cosa è la verità? E detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e dice loro: Io non trovo in lui nessun motivo di condanna.
    39. Secondo la vostra usanza in occasione della pasqua libero un condannato: volete che vi liberi il re dei Giudei?
    40. Ma quelli cominciarono a gridare di nuovo: Non lui, ma Barabba. Barabba era un brigante.
    19,1. Allora Pilato consegnò Gesù e lo fece flagellare.
    2. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul suo capo, e lo rivestirono di un manto di porpora,
    3. e gli si avvicinavano dicendo: Salve, re dei Giudei. E lo prendevano a schiaffi.
    4. Pilato uscì di nuovo fuori e dice loro: Ecco, ve lo conduco fuori perché sappiate che non trovo in lui alcun motivo di condanna.
    5. Gesù uscì fuori, portando sul capo la corona di spine e rivestito del manto di porpora. E Pilato dice loro: Ecco l'uomo.
    6. Appena lo videro, i sacerdoti e le guardie si misero a gridare: Crocifiggilo, crocifiggilo! Pilato disse loro: Prendetelo e crocifiggetelo da voi, perché non trovo in lui nessun motivo di condanna.
    7. Risposero i Giudei: Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio.
    8. Allorché sentì queste parole, Pilato si impaurì ancora di più.
    9. Rientrò di nuovo nel pretorio e dice a Gesù: Di dove sei? Ma Gesù non gli diede risposta.
    10. Allora Pilato gli dice: Non mi parli? Non sai che io ho il potere di liberarti e il potere di crocifiggerti?
    11. Gesù rispose: Non avresti alcun potere sopra di me, se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha una colpa ancora più grande.
    12. Da quel momento Pilato cercava di liberarlo. Ma i Giudei gridarono: Se liberi costui, non sei amico di Cesare. Chiunque si fa re si oppone a Cesare.
    13. Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e si sedette sulla predella del tribunale, nel luogo detto "Lastricato", in ebraico Gabbata.
    14. Era la preparazione della pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: Ecco il vostro re.
    15. Ma essi gridarono: A morte, a morte, crocifiggilo. E Pilato: Devo crocifiggere il vostro re? I sacerdoti risposero: Noi non abbiamo altro re che Cesare.
    16. Allora Pilato lo consegnò perché fosse crocifisso.

    Nel vangelo di Giovanni il racconto del processo di Gesù davanti a Pilato occupa più di un terzo dell'intero racconto della passione. Già questo è un segno dell'importanza che l'evangelista gli ha attribuito. Ma questa importanza è ancora maggiormente evidenziata dalla costruzione scenica molto accurata [1]. I Giudei non entrano nel pretorio per evitare di contrarre una impurità che avrebbe loro impedito di poter celebrare la pasqua (18,28). D'altra parte, il processo di Gesù deve svolgersi all'interno del tribunale. Pilato è così costretto a fare da tramite, in un continuo andare e venire tra l'esterno, dove stanno i sacerdoti e la folla, e l'interno, dove sta Gesù. Pilato esce quattro volte e rientra tre volte. E così questo andare e venire divide l'episodio in sette quadri, in cui si alternano le scene esterne (nella quali il dialogo è fra Pilato e i Giudei) e le scene interne (nelle quali il dialogo è fra Pilato e Gesù). Non c'è dialogo diretto fra Gesù e i Giudei, ma solo fra Gesù e Pilato, i Giudei e Pilato. Al centro sta la scena muta degli oltraggi.
    Possiamo tracciare questo schema, che mostra non solo la successione delle scene, ma il parallelismo che le lega:

    pilato3

    Come in tutti gli altri racconti di Giovanni, anche in questo le figure sono al tempo stesso storiche e kerigmatiche, personaggi reali e simbolici [2].
    I Giudei diventano, come già nei capitoli 8 e 9, i rappresentanti del mondo incredulo, primo esempio e simbolo di un rifiuto che continua a manifestarsi nel mondo. Nei discorsi di testamento (capitoli 13-17), dove appunto la storia di Gesù è descritta come prolungantesi nella Chiesa, si parla ripetutamente di mondo: qui invece, nei racconti della passione, il termine mondo è quasi scomparso e il suo ruolo è assunto dai Giudei (il termine ricorre ventidue volte). È dunque chiaro che i Giudei sono i rappresentanti della potenza ostile a Gesù. All'evangelista non interessa tanto riferire chi precisamente essi siano (se i capi del popolo, questo o quel gruppo, il popolo stesso), quanto piuttosto che cosa rappresentano.
    Se i Giudei assurgono al ruolo di tipo, lo stesso si deve dire di Pilato. Egli è il simbolo del potere politico. I Giudei consegnano Gesù nelle mani del rappresentante politico dell'impero, e con questo il processo del mondo contro Gesù assume il carattere di una questione pubblica e ufficiale. I Giudei e Pilato – il lettore se ne accorge anche da una rapida lettura –si ricattano vicendevolmente, e il ricatto è possibile perché ambedue sono ricattabili. La loro personale salvezza (o i loro interessi) è più importante della verità. Qui sta la loro contraddizione e, al tempo stesso, la loro nascosta connivenza.
    Il racconto si svolge contemporaneamente su due piani, permettendo in tal modo due letture, quella secondo le apparenze e quella secondo la fede. Per ottenere questo effetto, l'evangelista ricorre al mezzo stilistico dell'inversione di ruolo. I Giudei sono gli accusatori e Pilato il giudice, ma in realtà è Gesù l'accusatore e il giudice. L'evangelista è molto abile nel far emergere la verità di Gesù dai suoi stessi avversari, a loro insaputa, facendo loro persino dire materialmente la verità che ignorano o che, addirittura, combattono.

    Se non fosse un malfattore

    Nella prima scena (18,28-32) si possono già scorgere alcune dinamiche che poi lungo l'episodio emergeranno con ancora maggiore chiarezza. I personaggi sono tre: Gesù, i Giudei e Pilato.
    Gesù è qui un personaggio, per così dire, «passivo». Non è Lui che va da Pilato, ma sono i Giudei che ve lo conducono. E non partecipa allo scontro verbale che subito si accende fra i Giudei e Pilato. Egli è come assente. E tuttavia è proprio Lui che costringe i Giudei e Pilato a litigare, obbligandoli a svelare la loro segreta ipocrisia.
    I Giudei appaiono subito come persone insincere. La loro risposta alla prima domanda di Pilato (18,30), e ancor più
    la risposta alla seconda (18,31), mostra che essi hanno già formulato un giudizio preciso e irrevocabile. Non portano Gesù da Pilato per chiedere un giudizio, ma per costringere il procuratore romano – quasi ingannandolo – a ratificare una condanna. Non vogliono un vero processo. Questi Giudei, poi, appaiono tanto osservanti da non entrare nel pretorio per non contaminarsi. Ma non esitano a portare contro Gesù un'accusa che poi saranno costretti a cambiare: «Se non fosse un malfattore...». In realtà sanno bene che Gesù non è un malfattore, ma questa è l'unica accusa – assieme alla pretesa di essere re dei Giudei – che poteva interessare Pilato.
    Pilato si presenta come un giudice imparziale e comprensivo. Guarda con rispetto i motivi religiosi che impediscono agli ebrei di entrare nel tribunale; perciò egli «esce». E pone una domanda che sembra esprimere un'intenzione di obiettività: di che cosa accusate quest'uomo? Ma la sua obiettività è subito inquinata da due atteggiamenti. Anzitutto, da un malcelato contrasto tra lui e gli ebrei, ben visibile nella risposta stizzita dei Giudei e nella controrisposta altrettanto stizzita di Pilato. Nel processo di Gesù si scatenano le rivalità tra il procuratore e i Giudei. E poi è ben visibile l'ipocrisia dello stesso Pilato. Egli apre il processo con un'intenzione di obiettività, ma soltanto perché ritiene che la questione non lo riguardi personalmente. Appena se ne accorgerà, mostrerà il limite della propria obiettività.

    Io sono re

    Il dibattito entra nel vivo con la seconda scena (18,33-38). Oggetto dell'interrogatorio è la regalità di Gesù, che senza dubbio è il tema essenziale dell'intero episodio.
    Per tre volte Gesù dice a Pilato: «il mio regno», e per due volte si preoccupa di chiarire che questo suo regno è completamente al di fuori dagli schemi mondani: «Il mio regno non è da questo mondo», «il mio regno non è di quaggiù». Mondo e quaggiù indicano una «provenienza», non certo unluogo in cui il regno di Cristo è assente. Non dunque: il mio regno riguarda unicamente le realtà spirituali e future e non il mondo e le realtà presenti; quindi il potere politico non ha nulla da temere. Non è così: Gesù afferma che il suo regno – già presente ora e fra gli uomini – non trae la sua origine dal mondo e, perciò, non si modella sul suo schema di valori; viene da altrove e si modella, di conseguenza, su un diverso schema di valori. È proprio questa diversità che fa paura sia al potere religioso sia al potere politico.
    Se ci fermassimo qui, il discorso resterebbe generico. D'accordo: la regalità di Gesù non ha nulla da spartire con la filosofia del potere. Ma dove sta precisamente il contrasto? E perché il potere se ne è allarmato? La risposta al primo interrogativo è contenuta in due affermazioni. La prima: «Se il mio regno non fosse da questo mondo, i miei sudditi avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei». Ecco, dunque, la prima differenza: Gesù rifiuta di utilizzare per se stesso la potenza regale di cui dispone. E questo non semplicemente perché rifiuta di ricorrere alla violenza, ma perché – più profondamente – Gesù non considera la propria sopravvivenza come bene supremo da salvare, come la «ragion di stato» di fronte alla quale ogni altro valore deve cedere il passo. La seconda affermazione ripete il medesimo concetto, ma in termini positivi: «Io sono re: per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità». Gesù è re ed è venuto nel mondo per manifestare la sua regalità, ma anziché usare questa espressione – che logicamente ci si poteva aspettare – preferisce sostituirla con un'altra, che considera equivalente (e che per noi è illuminante): «rendere testimonianza alla verità». La regalità di Gesù, in altre parole, è completamente sottomessa all'esigenza della verità, termine che nel linguaggio giovanneo – come sappiamo – indica il disegno di Dio sull'uomo, tutto quel complesso di valori – umani e religiosi insieme – che costituiscono il contenuto dell'annuncio evangelico. La nostra parola «verità» è incapace di esprimere tutti i contenuti che l'evangelista Giovanni ha impresso a questo vocabolo, che andrebbe perciò tradotto con diversi termini simultaneamente, quali verità, giustizia, libertà, amore, obbedienza a Dio. I motivo per cui la regalità di Gesù è rifiutata sta, appunto, nella sua diversità da ogni altra regalità. È una regalità sempre a servizio della verità, dovunque e comunque. Non accetta mai di sottomettere la verità alle esigenze di una «ragion di Stato», che non sia – appunto – la verità stessa, si trattasse pure della propria sopravvivenza. È una regalità nella quale il mondo non si riconosce, una regalità che il mondo non comprende; perciò la rifiuta. Il verbo «testimoniare», qui nel contesto di un processo, assume certamente il senso forte di disponibilità al martirio. Si tratta, infatti, di una testimonianza impegnativa e pubblica, che necessariamente comporta la disponibilità a mettere a repentaglio se stessi. E la verità che Gesù testimonia, nella quale trova fondamento il suo diritto a proclamarsi re, è la verità di Dio, una verità che viene prima di ogni altra cosa. L'andamento del processo svela un netto contrasto fra Gesù e Pilato, e quindi fra le due autorità: per Gesù non c'è nulla al di sopra della verità; per Pilato, invece, prima della verità viene la ragion di Stato. Anche per Pilato la ricerca della verità è importante, tuttavia il suo amore per la verità non è totale, ma subordinato.
    Si può comprendere ciò che Gesù sta dicendo, solo a una condizione: «essere dalla parte della verità» (18,37b). Essere da è espressione che indica origine, che, come sappiamo, nel linguaggio giovanneo equivale all'identità profonda di una persona, alla direzione di tutto il suo essere. Gesù non dice «venire dalla verità», come sarebbe logico parlando di origine. Dice invece «essere dalla verità», certo per sottolineare che non si tratta di una semplice provenienza, ma di una situazione stabile, di un modo di essere, per essenza. Essere dalla verità dice la permanenza e la totalità. Solo chi è tutto afferrato dalla verità può comprendere il discorso di Gesù.
    Si direbbe che Pilato abbia raccolto l'appello di Gesù, e domanda: «Che cos'è la verità?». Ma questa domanda intorno alla verità è, in presenza della verità, un sottrarsi alla verità. A volte davanti alla verità le spiegazioni sono inutili: occorre volerla vedere. Stando al racconto, la domanda di Pilato è priva di impegno, quasi distratta, come mostra il suo rapido passare oltre: «E detto questo, uscì». E così Gesù non gli risponde, la domanda di Pilato resta in sospeso, come è giusto che sia. È inutile ridire quanto è già stato detto, ed è inutile mostrare ciò che è davanti agli occhi. Gesù non risponde perché ha già risposto. La verità è Lui, che Pilato vede.

    Un re da burla

    Nella terza scena (18,38b-40) Pilato parla con i Giudei e riconosce pubblicamente per la prima volta l'innocenza di Gesù. È senza dubbio una cosa importante. Tuttavia il motivo più interessante di questo breve dialogo fra il procuratore e i Giudei è che egli costringe i Giudei a scegliere fra Gesù e Barabba. Non si rifiuta la verità senza essere costretti a scegliere una qualche menzogna. Hanno accusato Gesù di essere un malfattore, e tuttavia, senza esitare, scelgono Barabba che – non senza ironia – l'evangelista definisce un brigante: non un rivoluzionario, come si pensa, ma proprio un brigante! La scena è altamente simbolica.
    La quarta scena (19,1-3) è senza una precisa collocazione ed è priva di dialogo. È la scena centrale, a modo suo atipica. Non c'è Pilato e neppure ci sono i Giudei. A deridere Gesù sono degli anonimi soldati, uomini senza volto. A deridere Gesù qui è il mondo, non i Giudei. Il gioco di questi soldati è derisione e rifiuto. La derisione è il peggiore dei rifiuti. Ma è anche, inconsapevolmente, un'altissima rivelazione: la regalità di Gesù è tanto diversa che fa ridere, una regalità da burla. Ma proprio ciò che fa ridere i soldati, commuove e fa credere il discepolo!
    Nella quinta scena (19,4-7) Gesù è condotto da Pilato davanti al suo popolo, con la corona di spine sul capo e rivestito con uno straccio di porpora. Gesù è davanti al suo popolo come un re da burla. Nessuna parola, o gesto, fra Gesù e la piazza. Egli non ha più nulla da dire perché ha già detto tutto.
    Ora i Giudei vedono Gesù vestito come un re da burla, flagellato e silenzioso. Nelle intenzioni di Pilato, vedendolo, avrebbero dovuto persuadersi che è innocente (19,4). Ma Pilato e i Giudei hanno preoccupazioni diverse: per il primo l'importante è accertarsi che l'eventuale pretesa di Gesù di essere re non minaccia l'impero; per i secondi è determinante la sua pretesa di essere Figlio di Dio. È proprio questa pretesa religiosa, e non altro, che essi condannano. Convinti che essa non interessasse a Pilato, avrebbero voluto tacerla, sostituendola con l'accusa di malfattore. Ma la riluttanza di Pilato li costringe a manifestarla.
    Gesù è davanti ai Giudei, ma essi non parlano con Lui, bensì soltanto con Pilato. Anche i Giudei non hanno più nulla da dire a Gesù. La loro indagine su di Lui è conclusa e non intendono in alcun modo riaprirla.
    Nell'economia del racconto Pilato svolge diverse funzioni importanti: quella, ad esempio, di costringere il potere religioso a svelare la propria ipocrisia e a denunciare a chiare lettere la vera motivazione del loro rifiuto di Gesù; quella di riconoscre pubblicamente e ripetutamente l'innocenza politica di Gesù; e anche quella di proclamarlo re e uomo: «Ecco l'uomo» (19,5). Non: «Ecco il vostro uomo». Ma l'uomo, semplicemente. Gesù è davanti alla piazza che grida come la figura dell'uomo nella sua verità, l'uomo con i tratti della più profonda sofferenza e della più grande dignità.

    Di dove sei?

    Nella penultima scena (19,8-11) l'evangelista annota che, sentendo che Gesù si è proclamato Figlio di Dio, Pilato «si impaurì ancora di più» (19,8b). Ma quale paura? Non certo il sospetto che Gesù costituisca una minaccia per l'impero. Ma certo qualcosa di più profondo e di più indefinito.
    Alla domanda «Di dove sei?», Gesù tace. Non è un tratto del tutto nuovo. Gesù è rimasto in silenzio quando la sua regalità è stata derisa e quando essa è stata mostrata in pubblico. Proprio quando la sua regalità, derisa e rifiutata, ave-va maggior bisogno di una parola, Gesù è rimasto in silenzio. Tuttavia è sorprendente che l'annotazione esplicita del silenzio di Gesù l'evangelista la riservi per la domanda che diremmo più importante: «Di dove sei?» (19,8). Qui non è più in discussione semplicemente la regalità di Gesù, ma il mistero più profondo della sua origine. E su questo egli tace. Non collabora, lasciando Pilato solo di fronte alla domanda che lo turba. Forse perché è inutile dire, dal momento che tutto è già stato detto. O forse perché la risposta va cercata nei fatti che Pilato vede e in qualche modo riconosce, e non certamente nelle parole che potrebbe di nuovo sentire. O forse – come penso – perché si tratta di una domanda alla quale può rispondere soltanto chi la pone. Di fronte al mistero che lo interpella e lo inquieta, ogni uomo deve trovare personalmente la risposta. È una decisione personale che non si può delegare a nessuno.

    Non abbiamo altro re che Cesare

    L'ultima scena (19,12-16) è tanto importante che l'evangelista si premura di annotare il luogo, la ricorrenza liturgica e l'ora del giorno (19,13b-14). E la tensione, che ha attraversato tutto l'episodio e ha inquinato il processo, qui raggiunge il suo vertice.
    Per raggiungere il loro scopo, i Giudei hanno accusato Gesù dapprima di essere un malfattore (18,30) e poi che si è proclamato Figlio di Dio (19,7). E ora, alla fine, per ricattare Pilato («Non sei amico di Cesare»), si appropriano nuovamente di un'accusa politica: «Chiunque si fa re, è contro Cesare». Umiliato, Pilato cede al ricatto. Ma a sua volta costringe i Giudei ad acclamare Cesare come loro unico re (19,15): «Non abbiamo altro re che Cesare». Non si può rifiutare Gesù e illudersi di essere adoratori del vero Dio. Si cade sotto il dominio del mondo e si diventa idolatri.
    Strano processo. I Giudei sembrano aver ottenuto il loro scopo: hanno costretto Pilato a condannare Gesù. Ma per far questo hanno dovuto rinunciare al loro orgoglio, alla loro libertà e alla loro fede: «Non abbiamo altro re che Cesare». E Pilato ha dovuto rinunciare all'essenza della sua funzione, cioè al compito di essere difensore della verità. I Giudei e Pilato non sono i vincitori, ma gli sconfitti. Non i giudici, ma gli accusati. È Gesù il vero vincitore, che costringe gli uni e gli altri a contraddirsi e a svelare la loro profonda idolatria.

     

    NOTE

    1 Si veda per questo racconto, oltre ai soliti commentari, H. Schlier, Gesù e Pilato, in Il tempo della Chiesa, Bologna 1965, pp.89-117; I. de la Potterie, Gesù verità, cit., pp.134-157; id., La passione secondo Giovanni, Cinisello Balsamo 1991, pp.70 ss.; D. Senior, La passione di Gesù nel vangelo di Giovanni, Milano 1993, pp.70 ss. Da parte mia ho già commentato questo episodio in Giovanni, cit., pp.1650-1663 e in Racconti evangelici della passione, Assisi 1995, pp.245-261.
    2 La nostra lettura di questo episodio non vuole essere analitica e non si sofferma ugualmente su tutti i particolari. È una lettura attenta alle modalità dello svolgimento del racconto, alla costruzione scenica, alle tensioni fra i personaggi e, soprattutto, ai due passi in cui Gesù dialoga direttamente con Pilato.

    (La brocca dimenticata, Vita & pensiero 1999, pp. 127-138)


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