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    Libri scritti per la fede

    in Gesù Cristo

    Bruno Corsani


    Il Nuovo Testamento è un libro molto strano: chi lo prende in mano per la prima volta e si mette a leggerlo rischia di rimanere disorientato. Dapprima troverà una serie di racconti su Gesù e di insegnamenti di Gesù, che ricominciano sempre daccapo quattro volte (per non parlare di racconti che si somigliano fra loro): sono i quattro vangeli. Poi viene una serie di racconti della missione cristiana nel mondo antico (solo gli inizi, fin verso il 60 d.C.): sono gli Atti degli Apostoli. Ci sono quindi ventuno lettere, ma alcune di queste lettere somigliano più a un trattato religioso o a un' omelia che a una vera lettera. Alla fine si trova uno scritto formato principalmente da visioni ed esortazioni profetiche di stile apocalittico, l'Apocalisse.
    Il lettore occasionale dovrebbe essere avvertito che si troverà davanti a queste diversità di stile e di argomenti, specialmente se è abituato a identificare in pratica «Nuovo Testamento» e «vangelo», come accade in realtà nella mente di molte persone.
    I vangeli sono senza dubbio la parte più importante del Nuovo Testamento, ma esso contiene anche altro. Dopo i vangeli ci dà un campionario di ciò che la «Buona notizia» ha prodotto: la predicazione apostolica in Siria, in Asia Minore, in Grecia e il suo arrivo a Roma; la nascita di comunità cristiane in tutti quei Paesi; delle lettere scritte ad alcune di quelle Chiese, che aprono una finestra sui problemi di fede, di vita cristiana e di organizzazione delle comunità; e infine l'Apocalisse, che ci fa vedere come si coltivava la speranza di trasformazione del mondo e la consolazione degli oppressi nell'imminenza o nel corso delle persecuzioni anticristiane. È naturale che a sezioni così diverse del Nuovo Testamento corrispondano forme letterarie, linguaggi e simboli diversi. Però, al di là delle diversità e più forte di loro, c'è un elemento unificante: la prospettiva di fede in Cristo, che suscita anche un atteggiamento di testimonianza e un'atmosfera di speranza, anzi di certezza nel suo trionfo finale. Ci occuperemo qui di stile, linguaggi e forme simboliche del Nuovo Testamento.

    Stile e scopo degli scritti neotestamentari

    In generale, possiamo dire che i vangeli sono delle antologie di episodi e di insegnamenti di Gesù. Il quarto vangelo, quello attribuito a Giovanni, osserva nell'ultimo versetto che «ci sono anche molte altre cose che Gesù fece: se si scrivessero a una a una, penso che non basterebbe il mondo intero a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25). Dunque, i vangeli non sono una vita di Gesù che riferisca passo dopo passo tutto quello che fece e disse. Quante cose di lui non conosciamo! La sua figura fisica, il suo carattere... Della sua giovinezza e dei suoi amici di gioventù, dei suoi studi e dei suoi maestri, non sappiamo nulla. I rapporti con il suo parentado sono appena accennati.
    Una seconda osservazione porta al medesimo risultato: le raccolte di episodi e di insegnamenti di Gesù sono composte di elementi piuttosto slegati tra loro, salvo alcune eccezioni come il racconto della passione (che non poteva essere ripetuto se non in quel preciso ordine), la prima giornata di attività a Cafarnao in Mc 1,21-39, il giro del lago in Mc 4,34-5,43.
    Ma non sempre gli episodi che compongono queste due ultime sequenze sono riferiti nello stesso ordine dagli altri vangeli.
    Infine, c'è il fatto che il quarto vangelo segue un ordine tutto diverso dagli altri tre (tranne che nella passione). È impossibile ricostruire una vita di Gesù con elementi così disorganici. Bisogna dunque concludere che gli autori dei vangeli non avevano un'intenzione biografica.
    L'accesso alla prospettiva tipica dei vangeli si è aperto, quando un'attenta analisi del loro stile ha permesso di vedere che non erano composti principalmente per fornire informazioni, storiche o dottrinali, bensì erano testimonianze nate dalla fede e capaci di suscitare la fede in Gesù. Erano cioè piu vicini alla predicazione che alla biografia o alla storia. Predicazione non nel senso moderno di un discorso o omelia che spiega un passo della Sacra Scrittura, bensì nel senso di testimonianza resa a Gesù allo scopo e nelle forme più adatte per far nascere la fede in lui.
    Abbiamo già visto che per Giovanni gli episodi inclusi nei vangeli erano solo la minima parte di ciò che Gesù aveva fatto e detto; poco prima ci viene anche suggerito il criterio che ha guidato l'autore (e, penso, anche quelli dei primi tre vangeli) nella scelta e nella redazione del suo libro: «Questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il figlio di Dio, e, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31).
    Vorrei aggiungere che non è solo la struttura dei quattro vangeli a rispondere a questa esigenza: il criterio si può applicare anche alle singole componenti, cioè alle unità che formano le quattro antologie di episodi e di insegnamenti di Gesù: la loro composizione letteraria non è quella che dovrebbero avere dei resoconti «storici» (cronache, annali ecc.), ma ha le caratteristiche di un discorso rivolto da un credente al suo prossimo per fortificare o far nascere la fede in Cristo.
    Ciò è reso più plausibile dal fatto che gli autori dei vangeli non hanno «creato» il loro contenuto (come farebbe un romanziere moderno), ma hanno messo per iscritto, con un minimo di attenzione alla forma letteraria e allo stile, le testimonianze su Gesù che circolavano nelle comunità primitive: nella predicazione a uso dei fedeli e in quella missionaria, nella catechesi, nelle conversazioni fra credenti o fra un credente e i suoi amici non cristiani. È chiaro che queste testimonianze (sia pubbliche, sia private) non miravano a sottolineare i particolari storici o i dettagli di cronaca dei fatti accaduti; miravano invece a far risaltare come negli episodi e negli insegnamenti Gesù apparisse il Messia, il Salvatore, il Signore. Non si perdevano (salvo eccezioni) a precisare la località, la data, l'ambiente in cui un fatto era accaduto, e davano risalto invece ai particolari che potevano suscitare la fede, o al-meno l'interesse degli uditori come primo passo verso di essa.
    Questo orientamento così finalizzato determina uno stile, suggerisce un linguaggio, richiede un uso meditato di simboli, collocando i vangeli su un piano letterario molto diverso da quello, per esempio, del De bello gallico di Giulio Cesare o di altre opere analoghe dell'antichità greca e latina.
    Anzitutto, lo stile. In generale i racconti su Gesù sono composti secondo la tecnica del racconto mirato. Le brevi unità letterarie sorvolano sui particolari secondari per arrivare al punto che interessa, cioè la testimonianza.
    Un esempio illuminante è quello fornito dal modo di composizione di similitudini e parabole. La similitudine è l'illustrazione di una realtà spirituale o di un comportamento suggerito da Gesù, mediante il paragone con un fatto di vita quotidiana che abbia, su un punto cruciale, un'analogia con la tesi sostenuta da Gesù. Per esempio: «Chi perciò ascolta queste mie parole e le mette in pratica, può essere paragonato a un uomo saggio che costruì la sua casa sulla roccia» (Mt 7,24). La parabola è non molto diversa dalla similitudine. Ma nel caso delle parabole, il paragone non è con un fatto normale o ovvio della vita quotidiana, così ovvio da esigere il consenso immediato degli ascoltatori, bensì con un fatto eccezionale, che non capita tutti i giorni e che è raccontato come una favola. C'era un uomo che piantò una vigna e la curò in tutti i modi possibili... C'era un uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico e fu assalito dai briganti... (Mc 12,lss; Lc 10,3Oss). Qui non è il carattere ovvio a rendere evidente il paragone, ma la scelta dell'esempio e l'abilità narrativa di chi lo racconta. In un caso come nell'altro, la domanda da farsi è questa: dove vuole arrivare Gesù con questo racconto?
    Uno studio accurato di tutte le parabole e similitudini dei vangeli permette di concludere che esse vogliono sempre arrivare a un preciso punto di paragone fra il racconto e la realtà. Capire la parabola (o la similitudine) vuol dire cogliere questo punto di paragone, il solo significativo: tutto il resto sono preliminari, particolari d'effetto per captare l'attenzione o la curiosità della gente. L'insegnamento di Gesù invece si riferisce al punto di paragone: l'edificio spirituale dell'esistenza umana dev'essere costruito sulla roccia dell'insegnamento di Gesù; le cure del vignaiuolo per la sua vigna legittimano la sua attesa di un buon raccolto; le cure prestate dal samaritano al viandante che scendeva da Gerusalemme a Gerico sono un esempio di cosa voglia dire amare il prossimo; il punto di partenza e di arrivo del suo viaggio, l'agguato dei briganti, le ferite riportate e così via, sono solo particolari ornamentali, perché il racconto è mirato al punto che interessa Gesù: esemplificare cosa sia l'amore del prossimo.
    Ugualmente mirati sono i racconti dei miracoli di Gesù: la descrizione della malattia o infermità, il modo di procedere di Gesù per compiere la guarigione ecc. sono ridotti al minimo o spesso anche del tutto assenti, perché i racconti vogliono far risaltare la potenza e la bontà di Gesù, dar voce alla riconoscenza della persona guarita o all' ammirazione dei presenti: «Al colmo dello stupore dicevano: "Ha fatto bene ogni cosa! Fa udire i sordi e parlare i muti!"» (Mc 7,37); «Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: "Un grande profeta è apparso tra noi. Dio ha visitato il suo popolo"» (Lc 7,16).
    Gerhard Lohfink, biblista cattolico tedesco, ha analizzato la struttura di un passo tradizionalmente considerato «manano»: l'annunciazione dell'angelo a Maria in Lc 1,26-38, e vi ha visto l'imitazione di due schemi tipici delle Scritture d'Israele. Infatti, la prima parte è modellata su analoghi racconti biblici (l'annunzio ad Agar della nascita di un figlio, Gn 16,6-7; l'annuncio ad Abramo della prossima maternità di Sara, Gn 17,15-19). Però a questo schema se ne sovrappone un altro, nella seconda parte del passo di Luca, che può essere definito «di chiamata» (o, latinamente, di vocazione). È uno schema frequente nella Bibbia e còmprende i punti seguenti: a) Dio chiama; b) chi è chiamato manifesta un dubbio; c) Dio dissipa il dubbio con una spiegazione; d) a conferma della spiegazione Dio concede un segno.
    È lo schema che troviamo nella chiamata di Mosè (Es 3,10-12), nella chiamata del profeta Geremia (Ger 1,4-10) e altrove. Se il racconto dell'annunciazione è modellato su questi due schemi, i modelli biblici suggeriscono che il racconto dev'essere mirato come nei passi citati dalle Scritture d'Israele: nella prima parte il punto più importante è il contenuto del-l'annunzio (la nascita del bambino). Nella seconda, l'annunzio del segno e la spiegazione che dissipa il dubbio di Maria sono significativi solo in funzione e a rincalzo dell'annunzio della nascita del bambino e del futuro che Dio ha in vista per lui. I modelli biblici portano alla conclusione che nel passo dell' annunciazione le parole che riguardano Gesù hanno un importanza strutturale primaria rispetto a quelle che riguardano Maria, ossia che il passo è mirato in direzione di quelle parole: la struttura ha un'intenzione cristologica.
    Se ci abituiamo a leggere gli episodi del Nuovo Testamento come racconti mirati e ci sforziamo di capire a che cosa mirano, dovremo convenire che aveva ragione il passo citato del vangelo di Giovanni: sono stati scritti «affinché crediate che Gesù è il Cristo» (Gv 20,31).

    Un linguaggio ricco di assonanze veterotestamentarie

    Oltre allo stile, i vangeli si caratterizzano anche per il linguaggio che adoperano. Pur nella semplicità del loro greco, si tratta di un linguaggio ricco di assonanze bibliche, che riflettono quello delle Scritture d'Israele (la Legge, i Profeti, i Salmi).
    Benché tutti gli scritti del Nuovo Testamento siano in lingua greca, la familiarità con i classici greci non aiuta a penetrare nello spirito della loro lingua. L'armonia, la precisione del greco classico, sovente al servizio di una mentalità razionale per non dire speculativa, si cercherebbero invano (con una o due eccezioni) negli scritti del Nuovo Testamento. La loro lingua è concreta, fatta di immagini. Sgorga dalle esperienze quotidiane dell'esistenza. È più portata a vivere queste esperienze che a definirle teoricamente, perciò non si preoccupa di usare una stessa parola ora in un senso, ora in un altro. Psyché può essere ora la vita, ora l'anima; pneuma èil vento, ma anche l'alito, il soffio, ed è lo spirito, sia dell'uomo che di Dio (Spirito Santo).
    Anche espressioni ordinarie si accavallano nei loro significati. In 1Cor 11,23 Paolo scrive: «Ho ricevuto dal Signore quello che vi ho trasmesso: che il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese del pane...». In questo inizio del racconto dell'istituzione della Cena del Signore le parole in corsivo usano lo stesso verbo greco, a distanza di un rigo una dall'altra! Lo stesso troviamo in Gv 3,8: «Il vento soffia dove vuole, senti il suo sibilo, ma non sai donde viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». Anche qui c'è l'uso della stessa parola greca (pneuma) per due realtà diverse: in questo caso potrebbe anche essere intenzionale.
    Questo attenuarsi della precisione greca e dell'amore per le sottili distinzioni lessicali può essere il riflesso di un maggiore interesse per il concreto che per le questioni teoriche. Ma forse si può imputare anche al fatto che il pensiero dei primi cristiani fu influenzato più dalle lingue e dai dialetti della Palestina che dalla dimestichezza con i classici greci. L'uso di una stessa parola per «vento» e «Spirito» è ebraico, e fa problema anche nella prima pagina della Bibbia. In Gn ,2 non si può dire con certezza se era «lo Spirito di Dio» oppure «un vento impetuoso» che si muoveva sulla superficie del mare primitivo.
    I modi di dire ereditati dalla lingua ebraica sono frequenti nel Nuovo Testamento: «Figli della geenna», «Figlio di perdizione», «Figli di questo mondo» non sono un'indicazione di paternità (o maternità), ma un modo per dire che una persona è sotto l'influenza o strettamente collegata alla realtà menzionata dopo figli(o) di... Spesso si menziona la mano di qualcuno («per mano di Barnaba e Saulo»; «per mano d'un mediatore»). In questi casi si vuole indicare la persona, e l'espressione «per mano di» equivale al nostro «per mezzo di»; ricavare delle riflessioni sull'importanza della mano sarebbe introdurre nella spiegazione prospettive che non erano nella mente dell'autore.
    Un ebraismo particolarmente sottile è l'uso strumentale della preposizione «in» (nel senso di «per mezzo di»). Così Giacomo, nella sua lettera, parla della lingua e dice (letteralmente): «In essa benediciamo il Signore e Padre» (chiaramente vuoi dire: con essa). Del sale viene detto talvolta «salare nel sale», talaltra «salare col sale» (Mt 5,13; Lc 14,34): le due formule sono equivalenti. Gesù insegnava «in parabole», cioè con parabole. Questo ebraismo ha creato un problema di vaste dimensioni a proposito dell'acqua battesimale. Quando si legge, in molti passi, che Giovanni Battista battezzava «in acqua» vuoi dire dentro l'acqua, immergendo, oppure «con acqua», mentre Gesù battezzerà «in Spirito Santo» (cioè con Spirito Santo) (cfr. Mt 3,11)? Le due preposizioni si alternano (nelle traduzioni della Cei e delle Edizioni Paoline) nei passi sul battesimo di Giovanni in Matteo, Marco e Luca. Questo alternarsi dimostra che le due espressioni sono sinonime.
    Ma sarebbe un errore far consistere il carattere ebraizzante degli scritti del Nuovo Testamento soltanto in questi giri di frase. Molto più importante è che nel Nuovo Testamento e nella sua lingua si respira non la mentalità filosofica greca, ma quella più pratico-religiosa del mondo biblico. Nel mondo greco la religione era tesa alla conoscenza del mistero (gnosi), nel mondo biblico era tesa all'obbedienza alla volontà di Dio. Per questo Gesù può dire (in Gv 7,17): «Se uno vuol fare la sua [cioè, di Dio] volontà, conoscerà riguardo alla dottrina se è da Dio o se parlo da me stesso». La conoscenza è inseparabile dall'obbedienza, intesa peraltro non come legalistica osservanza di un codice, ma come comunione filiale con Dio. È tipico di questa concezione ebraica che il verbo «conoscere» sia usato per significare la relazione uomo-donna.
    Da quest'impostazione consegue tutta una serie di fatti linguistici. Legge nella Bibbia non è (o non è soltanto) la raccolta dei codici giuridici, ma è tutto l'insegnamento della volontà di Dio anche nei suoi aspetti meno giuridici: la sua esigenza di amore, misericordia, perdono, solidarietà fra gli uomini. Giustizia (di Dio) non è la sua equa distribuzione di premi e castighi ai buoni e ai cattivi: è invece il suo misericordioso intervenire a favore del suo popolo oppresso, e si identifica quindi con il suo amore, con la sua grazia. La verità di Dio non è soltanto la sua autenticità, la sua corrispondenza a una norma ideale e astratta di ciò che dev'essere la divinità. Nella Bibbia la verità di Dio include anche e soprattutto la sua fedeltà, la sua coerenza, la sua affidabilità. Include il suo agire nella storia in modo conforme alle promesse fatte a quelli che hanno creduto in lui. Questa nozione di verità non esige soltanto l'assenso intellettuale: esige e determina soprattutto l'adeguamento etico che si esprime nel rinnovamento della vita personale dell'uomo (cfr. Ef 4,21, dove «la verità che è in Gesù» - cioè che egli ha incarnato e vissuto - implica «deporre l'uomo vecchio..., rinnovarvi..., e rivestire l'uomo nuovo», vv. 22-24).
    Proprio perché la Bibbia presuppone una conoscenza/comunione più che una conoscenza intellettuale, essa si serve ampiamente di un linguaggio simbolico. «Il simbolo, ponte fra il cosciente e l'inconscio, raggiunge ambiti dell'essere che oltrepassano quelli della mera conoscenza intellettuale... (è) prodotto di un'esperienza e invito a parteciparvi... Mentre il mero concetto tende a rendersi indipendente dal vissuto, il simbolo va accompagnando l'individuo e il gruppo nell'itinerario dell'esperienza cristiana».
    Non è un caso che uno degli insegnamenti più caratteristici di Gesù, quello sul regno di Dio, sia stato impartito quasi soltanto in parabole. Il linguaggio simbolico-figurato è il più adatto a parlare di una realtà che non può essere fissata in linguaggio intellettuale o scientifico, ma può essere soltanto accennata per via di allusioni simboliche o di analogie. E sull'altro versante, è anche vero che questo parlare figurato di Gesù ha sempre fatto più presa sui semplici, senza per questo mancare di suscitare profonde risonanze anche nei colti.
    Anche i simbolismi del Nuovo Testamento derivano in gran parte dal linguaggio biblico d'Israele. Basti pensare atematiche come quella dell'esodo, già sfruttate nel loro spessore simbolico dai profeti dell'epoca dell'esilio babilonese per predicare la speranza della liberazione. Il tema dell'esodo comprende quello dell'alleanza, quello della pasqua e dell'agnello, quello del monte della rivelazione, quello della manna e dell'acqua. Anche il tema della liberazione dal mondo può avere la sua radice nell'equivalenza mondo = Egitto.
    In queste pagine ho privilegiato i vangeli e trascurato le altre parti del Nuovo Testamento. Ma tutto quello che abbiamo visto a proposito delle narrazioni mirate può essere esteso agli episodi degli Atti degli Apostoli e alle parti narrative dell'Apocalisse.
    La raccolta delle lettere registra ovviamente un predominio dell'elemento dottrinale, didattico. Ma anche le pagine delle epistole non puntano tanto alla completezza della trattazione quanto alla stimolazione della fede e dell'obbedienza, toccando le corde più profonde della mente e del cuore dei lettori. E l'uso dei simboli nelle lettere è il medesimo che nei vangeli.
    Dobbiamo perciò evitare di accostarci al Nuovo Testamento con degli apriorismi culturali o storici contrari alla sua natura. Dobbiamo leggerlo come un discorso che ci è rivolto in modo diretto e personale, contenente la stessa domanda che Gesù fece ai suoi discepoli in un momento fondamentale del suo itinerario terreno: «Voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29).


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