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    Umanità-divinità

    della Parola

    Armido Rizzi


    Quando si parla di «nuove» letture della Bibbia, la novità non si riferisce soltanto, né prima di tutto, al fatto che sono le più recenti, ma a un aspetto qualitativo del loro orizzonte di comprensione della Bibbia, a quello che gli studiosi chiamano l'orizzonte ermeneutico. La comunità cristiana ha sempre saputo che i libri sacri sono insieme parola di Dio e parola dell'uomo; ma per molti secoli il primo aspetto ha come assorbito il secondo: lo Spirito di Dio - così si pensava -aveva invaso con tale potenza e pienezza l'intelligenza dell'autore umano, da ridurre al minimo l'apporto di questi, considerato a volte addirittura come un amanuense, che scriveva sotto dettatura.
    Il ricupero della dimensione «parola umana» è stato lento e contrastato, soprattutto in campo cattolicò, e si può dire che soltanto negli ultimi decenni esso è avvenuto integralmente.
    Ma affermare l'umanità della Bibbia non è fare una rivendicazione di principio, non è attribuirla a un «uomo» in astratto ma a uomini in carne e ossa: con i loro interessi e le loro passioni, con i loro limiti intellettuali e spesso anche morali, con i loro condizionamenti dovuti al periodo storico e al quadro culturale entro cui sono vissuti e hanno operato. Gli autori umani della Bibbia non sono dei ripetitori di una parola divina consegnata loro già confezionata, né sono degli artisti che abbiano dato un rivestimento letterario a concetti infusi loro da Dio; sono individui e comunità alle prese con Dio, da lui chiamati a un'esperienza di fede privilegiata ma non disincarnata, carica di tutta la ricchezza ma anche della problematicità di una fede vissuta dentro la storia. Ed è questa loro fede che essi trasmettono al popolo di Dio, è questa loro esperienza in cui vive la verità divina interpretata e detta attraverso una pagina di vita umana.
    Ognuna delle «nuove» letture della Bibbia mette a fuoco un aspetto dell'umanità degli autori, una dimensione della loro storicità, per sceverare in ciò che essi dicono il divino dall'umano e per comprendere quello attraverso questo.

    Rudolf Bultmann e il linguaggio «mitologico»

    L'impostazione fondamentale, per quanto riguarda il Nuovo Testamento, è stata data una cinquantina d'anni fa dal grande esegeta e teologo protestante Rudolf Bultmann. Collocando le pagine dei vangeli e degli altri scritti apostolici nel quadro della mentalità, delle categorie di pensiero e delle formule espressive proprie del tempo e del luogo in cui sono state scritte, Bultmann ha rilevato che esse appartengono al genere del pensiero e del linguaggio «mitologico», che parlano cioè dell'azione divina nell'uomo e per l'uomo come se fosse un'azione umana, solo più potente e arcana: di qui la continua presenza di figure fuori dell'ordinario come angeli e soprattutto demoni (e potenze cosmiche), e la lotta ingaggiata da Gesù contro di loro con la serie impressionante dei suoi miracoli e poi con la sua morte e risurrezione come sconfitta di tutti i poteri malvagi.
    Per capire il senso autenticamente religioso del Nuovo Testamento - afferma Bultmann - non è necessario credere in queste rappresentazioni; esse dicono, nella sostanza, una sola cosa, che in Gesù Dio giudica e perdona l'uomo pecca
    tore, riconciliandolo a sé e rendendolo capace di una vita di fede e di amore. Liberare la sostanza evangelica dal linguaggio mitologico che la involucra (Bultmann chiama quest'operazione «demitizzazione») significa anche liberare l'evangelo dalla stretta del tempo in cui è stato scritto e farne emergere il messaggio nel suo significato valido per tutti i tempi.
    Diverse sono le letture bibliche che, dopo questa, sono state fatte negli anni più recenti. Noi ne prendiamo in considerazione tre: sociologica, psicanalitica, femminista.

    La lettura sociologica

    La lettura sociologica presenta due indirizzi: uno più marcato ideologicamente, l'altro più eclettico. Il primo, che ha avuto una certa diffusione tra le comunità ecclesiali di base negli anni '70, ha trovato la sua espressione di punta nell'opera del portoghese Fernando Belo, sotto la dizione di lettura materialistica della Bibbia'. Essa si ispira al «materialismo storico» elaborato da Marx, cioè a quel principio di spiegazione generale dei fenomeni storici, che vede la loro origine nel modo di produzione. Ogni tipo di società (tribale, classica, feudale, capitalista) è un tutto organico, e ogni manifestazione umana (dalle forme di governo alle manifestazioni dello spirito) è comandata dal modo di produzione che sta alla base di quella società e la definisce. Ciò che noi pensiamo di noi stessi, del mondo, di Dio, si differenzia dunque secondo la struttura e l'organizzazione produttiva della società in cui viviamo.
    E questo il senso della formula marxiana: non è la coscienza che determina la vita (o l'essere) ma è la vita (o l'essere) che determina la coscienza; dove vita o essere non vanno intesi come la base biologica dell'uomo ma come la struttura economica della sua aggregazione sociale, rispetto a cui le altre manifestazioni costituiscono la sovrastruttura.
    Ora, la lettura materialista della Bibbia è l'applicazione di questa legge all'interpretazione dei testi biblici: anche il messaggio di questi è segnato in maniera essenziale dal modo di produzione in cui essi sono nati e, più specificamente, dal-l'appartenenza all'una o all'altra classe dentro la società. Così, per esempio, nell'Antico Testamento tutti avvertono la differenza tra i due grandi codici legislativi, il Levitico e il Deuteronomio: tutto impostato sull'esigenza di purezza il primo, centrato sull'istanza della solidarietà il secondo. Come mai questa differenza? Secondo Belo, la ragione va cercata nei diversi interessi di classe che, in una società di produzione agricola com'è la Palestina, stanno alla base dei due codici. Nel Deuteronomio riecheggia la legislazione primitiva di Israele, dove l'istanza etica fondamentale è di difendere il tessuto dei rapporti fraterni e ugualitari tra i membri della società; in concreto, prende qui voce l'esigenza di giustizia delle masse contadine e della predicazione profetica. Al contrario, il Levitico è l'espressione della casta sacerdotale di corte; incentrando tutta l'etica sulla purità legale e rituale, i sacerdoti ottengono due effetti: danno rilievo alle proprie funzioni e, al tempo stesso, stornano la tensione morale dai problemi di giustizia. Leggere materialisticamente i codici etici di Israele significa dunque riportarli, come a loro fonte e ragione del loro contenuto, ai contrastanti interessi socio-economici che vi sono sottesi.
    Lo stesso vale per i vangeli. Infatti, nella Palestina ai tempi di Gesù è ancora dominante il codice levitico, per il quale la corporalità umana è il luogo dove si gioca l'opposizione puro/impuro, con le sue implicazioni rituali. Ma il Gesù di cui ci parlano i testi evangelici - e soprattutto Marco - ha un altro rapporto con i corpi: egli vede in essi la povertà, la malattia, l'handicap, e dunque il bisogno di liberazione; e vede in Dio la potenza che vuole irrompere nella storia per liberare da ogni forma di sofferenza. La prassi messianica di Gesù e' la mediazione di questa potenza, che in essa si fa presente per guarire e promuovere la vita; e le parole di Gesù sono le griglie di lettura di questa potenza, così come la sua sequela è la riscoperta delle possibilità nascoste nel corpo umano. Allora, quella che sul piano del metodo è una lettura sociologico-materialista, nei suoi contenuti è una lettura in chiave di liberazione, da affidare a ogni comunità cristiana di ogni generazione perché vi diventi seme di passione trasformatrice della storia.
    Un accenno appena alla sociologia del cristianesimo primitivo sviluppata da G. Theissen 2 Non si tratta, propriamente, d'un genere di interpretazione del Nuovo Testamento ma piuttosto di un uso del Nuovo Testamento per ricostruire l'ambiente sociale delle comunità cristiane del I secolo. In qualche modo è qui rovesciato il procedimento di Belo: se questi ricostruiva il contesto sociale per poter cogliere il senso e il messaggio del testo, qui invece è il testo che serve come mezzo, accanto ad altri, per ridisegnare la figura sociale che gli sta dietro.
    «La sociologia del cristianesimo primitivo è sociologia dell'origine del cristianesimo antico e della sua profonda trasformazione: sorto come movimento di rinnovamento interno al giudaismo, esso divenne una religione a sé stante; radicato in ambiente rurale, conobbe però la sua prima diffusione nelle città ellenistiche dell'area mediterranea; movimento di gente inizialmente disintegrata ai suoi inizi, sviluppò tuttavia ben presto nuovi modelli di integrazione sociale che poterono successivamente venire accolti dalla società intera. Il problema fondamentale di una sociologia del cristianesimo antico è il seguente: come poté questa corrente marginale e subculturale conquistare e trasformare tutta una civiltà?» 3. La risposta è il messaggio di amore e riconciliazione lanciato da Gesù: non raccolto dalla società giudaico-palestinese, in quei decenni troppo carica di tensioni nazionalistiche, esso trovò invece un terreno favorevole nella società ellenistica (malgrado le persecuzioni), diventandone il nuovo lievito in un tempo di crisi.

    La lettura psicanalitica

    Fa parte dell'umano anche quella dimensione dell'animo che si trova sotto la soglia della coscienza riflessa, e che da Freud in poi viene chiamata l'inconscio. E se la parola di Dio nella Bibbia è parola veramente umana, vi deve prendere voce anche questa dimensione; non deve perciò stupire che alla sua comprensione possa contribuire anche la disciplina che interpreta l'inconscio, cioè la psicanalisi.
    Si può «psicanalizzare» il testo biblico in due modi: o puntando l'attenzione sull'autore per scoprire ciò che egli ha detto senza volerlo, ciò che tradisce i risvolti segreti della sua psiche; oppure guardando ai personaggi della storia narrata, ai processi personali che essa ha fissato. Nel primo caso la letturapsicanalitica ha funzione purificatrice, in quanto ripulisce il messaggio religioso del testo dai sedimenti inautentici che l'inconscio dell'autore vi ha lasciato; nel secondo, essa contribuisce a individuare in positivo il senso del messaggio nella sua volontà e valenza liberatrice. È su quest'ultima linea che si muove l'opera di Françoise Dolto, la più nota del genere dal titolo programmatico Psicanalisi del vangelo 4.
    «Quello che io, in quanto formata dalla psicanalisi, leggo nei vangeli, mi sembra la convalida, l'illustrazione della viva dinamica operante dallo psichismo umano e della sua forza che sgorga dall'inconscio, dove il desiderio sorge e si avvia alla ricerca di quanto gli manca». Che cosa vuole il desiderio umano? Vuole la pienezza della propria realizzazione, il superamento di tutto ciò che lo blocca su forme immature di umanità. È questo superamento che il racconto evangelico non solo presenta ma mette in opera in molti episodi.
    Che cosa vi dice la narrazione sulla maternità verginale di Maria, se non che il figlio non è un possesso della madre, così come la donna non è un possesso dell'uomo? Nella storia della coppia formata da Giuseppe e Maria scopriamo cosa sia in profondità l'incontro tra un uomo e una donna qualsiasi.
    Gesù è dunque, nei vangeli, secondo la lettura psicanalitica, vero maestro di vita perché guida l'uomo alla liberazione dalle catene che lo immobilizzano nello stadio infantile e gli impediscono di diventare se stesso, di essere uomo capace di operare e di rischiare in prima persona. Non c'è ragione di rifiutare pregiudizialmente un approccio psicanalitico ai vangeli. Tuttavia, come avviene per la demitizzazione e per la lettura sociologica, tale approccio presuppone uno studio del testo nel suo genere letterario e nel suo inquadramento storico, per cogliervi ciò che esso vuol dire esplicitamente, prima di scavare il suo eventuale significato nascosto. Diversamente, la lettura rischia di forzarne il senso per trovarvi una conferma di quelle leggi dello psichismo che la psicanalisi ha già autonomamente scoperto. A me pare che l'opera di cui abbiamo dato una rapida rassegna sia fortemente segnata da questo vizio metodologico.

    La lettura femminista

    Ciò che accomuna la letturafemminista alle interpretazioni precedenti è una duplice volontà di liberazione: liberare il messaggio del testo da letture errate o piatte di cui la tradizione l'ha appesantito e attraverso il messaggio liberare l'esistenza del lettore consegnandogli una parola di vita. Ma, a differenza dell'interpretazione psicanalitica, con la lettura femminista torniamo a una oculata applicazione dei metodi storici e letterari elaborati dagli studiosi biblici nell'ultimo secolo.
    L'opera più matura della teologia femminista è l'ampio saggio di E. Schlusser Fiorenza, In memoria di lei. Una ricostruzione femminista delle origini cristiane 6 In essa viene elaborato un «metodo ermeneutico femminista» che intende far riemergere dai testi cristiani una visione e una pratica liberatrice da essi documentate ma che sono state sommerse o emarginate dalla tradizione cristiana successiva. Bisogna risalire al movimento di Gesù, che si presenta come discepolato di uguali, in profonda alternativa alle strutture patriarcali dominanti nel giudaismo. Infatti il suo annuncio del regno, privilegiando le categorie socialmente declassate, dischiude anche alle donne lo spazio della verità religiosa; più ancora, ne fa - stando a più di un indizio - gli avamposti dell'apertura del movimento di Gesù ai pagani.
    Le comunità cristiane primitive assimilano questa lezione: in esse «sono tutti uguali, perché tutti condividono lo Spirito, potenza di Dio; sono tutti chiamati eletti e santi, perché sono stati adottati da Dio, tutti senza eccezione: giudei, pagani, donne, uomini, schiavi, liberi, poveri, ricchi, persone di condizione elevata e coloro che non sono "nulla" agli occhi del mondo...».
    Quando dunque Paolo scrive: «Non esiste più giudeo né greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù» (Gal 3,28), egli non formula un'intuizione teologica personale, ma esprime l'autocomprensione del movimento missionario cristiano. Con Paolo anzi si va profilando una certa ambivalenza: se da un lato egli riafferma anche per le donne l'uguaglianza e la libertà cristiane, dall'altro ne limita e condiziona l'ambito, avviando un processo che la tradizione post-paolina (lettere ai Colossesi e agli Efesini, lettere pastorali ecc.) continuerà e rafforzerà: l'imporsi, all'interno della Chiesa, dello schema della famiglia greco-romana, che elimina le donne dalla direzione del culto e della comunità e limita il loro ministero all'ambito femminile.
    In tal modo la Chiesa cristiana allentava la tensione con l'ambiente circostante, sia giudaico che pagano, adeguando alle strutture e usanze di questo il movimento nato da Gesù. Ma l’annuncio e l'ethos alternativo che Gesù aveva instaurato erano stati fissati nei racconti evangelici. «Perciò, dovunque l'evangelo sia predicato e ascoltato, promulgato e letto, ciò che le donne hanno fatto non è completamente dimenticato, perché il racconto evangelico ricorda che il discepolato e la guida apostolica delle donne sono parte integrante della prassi "alternativa" di Gesù, centrata sull'agape e sul servizio» 8 Ritrovare questa vena evangelica e tenere viva questa memoria è il compito di una lettura femminista del Nuovo Testamento.
    Si può discutere l'uno o l'altro aspetto di queste «nuove» letture della Bibbia e, in particolare, del Nuovo Testamento. Ma almeno un merito va loro ascritto: esse sono la testimonianza eloquente che riconoscere l'umanità del testo sacro non equivale a ridurne la vitalità ma, al contrario, a moltiplicarla. Ricercare la forza della parola divina nella debolezza della parola umana, nella stessa sua storicità con i limiti e le carenze che essa veicola, è il gesto rischioso e necessario che la comunità cristiana è chiamata a ripetere ogni giorno.


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