Intervista a Pascual Chávez Villanueva, Rettor Maggiore dei Salesiani
(NPG 2003-08-4)
DOMANDA. Come vede la situazione della pastorale in genere e della pastorale giovanile in particolare, in questo momento?
RISPOSTA. Siamo di fronte ad una situazione molto diversificata, segnata da grandi ricchezze e possibilità ma anche da grandi sfide e molti problemi aperti.
Il giubileo dell’anno 2000, con i tre anni precedenti di preparazione secondo il piano proposto dal Papa Giovanni Paolo II, ha offerto uno stimolo molto forte di rinnovamento della pastorale in tutta la Chiesa, e in modo speciale della pastorale giovanile. Basta pensare all’esperienza crescente delle GMG di questi anni: Parigi nel 1997, che ha sorpreso tutti e ha fatto superare le incertezze della Chiesa francese nei confronti dei giovani; Roma nel 2000 con l’entusiasmo dei quasi 2 milioni di giovani provenienti da tutto il mondo nei confronti delle proposte esigenti del Papa.
E poi, dopo il giubileo, le diverse chiese hanno assunto la proposta pastorale del Papa nella sua lettera NMI: un impegno rinnovato di vita cristiana centrato sulla persona del Cristo, e hanno elaborato progetti pastorali concreti seguendo le indicazioni e le priorità segnalate dal Papa.
Un’altra realtà crescente nella pastorale ecclesiale è il protagonismo della comunità cristiana e in essa, in concreto, dei laici. Ricordo l’incontro dei movimenti laicali di tutto il mondo, convocato dal Papa nella Pentecoste dell’anno 1998: una grande moltitudine di movimenti, associazioni e gruppi laicali che nelle diverse parti del mondo stanno assumendo con un nuovo dinamismo e una rinnovata creatività la missione evangelizzatrice. Per quanto riguarda noi salesiani è facilmente individuabile lo sviluppo che in questi ultimi anni ha avuto la Famiglia Salesiana e, in modo speciale, il movimento giovanile salesiano in tutte le parti del mondo.
Oggi, in modo particolare, la pastorale della Chiesa e la pastorale giovanile devono affrontare alcune gravi sfide. Una delle più importanti è quella dell’evangelizzazione della nuova cultura postmoderna, alle prese con fenomeni molto influenti e universali come la globalizzazione e i suoi aspetti, lo sviluppo dell’elettronica e dei moderni mezzi di comunicazione sociale, l’emergenza dei nuovi valori, concezioni della vita e stili di comportamento, l’impatto della secolarizzazione e nello stesso tempo di una nuova sensibilità religiosa, tipo “new age”.
Come risposta a queste sfide il Papa in questi anni ha consegnato a tutta la Chiesa, come compito pastorale prioritario, l’impegno di una nuova evangelizzazione che permetta di ricostruire il tessuto cristiano della società umana (ChL 34).
Concentrando ora la mia attenzione, in modo concreto, sulla pastorale giovanile, posso dire di constatare, in tutte le parti, una molteplicità di iniziative e proposte, un fiorire di gruppi, associazioni e movimenti, molta buona volontà e sforzo da parte di un gran numero di adulti e animatori giovani. Ma, nello stesso tempo, mi rendo conto che la nostra pastorale giovanile è più una pastorale di attività che di processi, più una pastorale individuale che di comunità, capace di condividere un progetto comune, più una pastorale settoriale e frammentata che un cammino unitario e integrale.
Il mondo giovanile offre oggi alla pastorale una grande varietà di risorse e di possibilità, una ricerca appassionata di spiritualità, una originale apertura al linguaggio della vita e della testimonianza, la sensibilità di fronte ai valori umani, alla qualità della vita e alla solidarietà, alla pace e alla giustizia, un nuovo entusiasmo per incontrarsi e manifestare pubblicamente la propria fede. Frequentemente però le comunità cristiane e le loro istituzioni incontrano grande difficoltà per rinnovarsi e aprirsi ai giovani. La scarsezza di educatori e di operatori di pastorale in rapporto con la crescita continua delle urgenze e delle nuove frontiere di lavoro spinge a diminuire i momenti di riflessione personale e comunitaria, e orienta verso un attivismo che impedisce di approfondire la realtà giovanile per comprendere le sue sfide più profonde, immaginare nuove risorse e possibilità, adattare le strutture e le iniziative. I giovani hanno sete di proposte esigenti e cercano adulti significativi che li accompagnino. Molte volte però questi adulti sono tanto presi dalle cose da fare, dalle funzioni amministrative e dalla gestione delle attività… che non trovano il modo di stabilire con i giovani una presenza di qualità umana e spirituale, capace di promuovere relazioni interpersonali gratuite, dedicando tempo e energia all’accompagnamento personale e di gruppo, assicurando proposte significative di crescita umana e di maturazione cristiana.
In alcune parti, soprattutto nei contesti della società secolarizzata, le comunità cristiane presentano una immagine di stanchezza e di disorientamento; i giovani avvertono che gli adulti (la famiglia, la parrocchia, gli educatori in generale) hanno una specie di vergogna a parlare sulle cose che contano, preferiscono offrire ricette, indicare cose da fare invece di condividere con i giovani un’esperienza e un cammino di fede. Di conseguenza, la presenza e la proposta pastorale ha poca chiarezza e forza evangelica.
D. In Europa occidentale c’è una crisi generalizzata di trasmissione della fede e di irrilevanza del senso di Dio e della trascendenza, soprattutto nell’ambito dei giovani. Quali opzioni pastorali e evangelizzatrici concrete possono rispondere a questa crisi profonda?
R. Le ultime ricerche sui giovani in Europa documentano in essi una chiara apertura al tema religioso e una crescente ricerca di spiritualità e di trascendenza. Non va dimenticato però che tutto questo viene da essi vissuto a partire dalla soggettività, secondo la logica della soddisfazione di una necessità individuale; una religiosità relegata alla sfera della vita privata, poco compartecipata e istituzionale, vissuta mediante esperienze diverse e eterogenee, in un sincretismo di credenze e di pratiche. Per questo credo sia possibile dire che tra i giovani, più che di una irrilevanza del senso di Dio e della trascendenza, si possa parlare di uno sviluppo di una specie di nuovo paganesimo in cui ciascuno cerca e si fa un “dio” a sua misura e secondo le sue necessità. In questa situazione certamente si può constatare una crisi profonda dei luoghi, delle istituzioni e dei momenti che costituivano, fino a poco tempo fa, i canali normali della trasmissione della fede alle giovani generazioni.
Come rispondere a questa crisi? Credo che la relazione che si è stabilita tra il Papa Giovanni Paolo II e i giovani durante i suoi venticinque anni di pontificato possa offrirci alcune indicazioni importanti.
Prima di tutto il Papa desidera restare con i giovani, dimostra ad essi confidenza e affetto, crede nelle possibilità di bene, di verità, di bellezza, presenti nel loro cuore e fa ad essi proposte esigenti e radicali. La prima opzione pastorale dev’essere il camminare con i giovani, aprirsi a un dialogo positivo e cordiale con essi, affrontando con decisione e senza concessioni le sfide culturali e antropologiche che caratterizzano questa nostra epoca.
Soprattutto però il Papa propone ai giovani la persona di Gesù. Solo l’incontro con una persona è capace di trasformare una vita: la vita non la trasformano né le regole né le dottrine. Per questo l’azione pastorale deve condurre i giovani all’incontro con la persona di Gesù; questo è ciò che essi desiderano fortemente… non vogliono né moralismo né discorsi socio-culturali e neppure un’accoglienza generica. La pastorale, soprattutto negli ambienti di secolarizzazione, deve orientarsi a permettere ai giovani la conoscenza, l’incontro e la relazione personale con Gesù Cristo in modo che essi lo scoprano come il senso della loro esistenza e possano così realizzare una scelta di vita piena e felice.
Accanto a questa presentazione diretta della persona di Gesù è necessario anche sviluppare la dimensione educativa di un vero processo di trasformazione della mentalità e della vita. Si tratta di realizzare una vera pedagogia dell’iniziazione cristiana: proporre ai giovani processi sistematici e profondi di personalizzazione, comunicazione e socializzazione della fede, andando oltre le esperienze totalizzanti, troppo legate all’emotività e alla soggettività; e educare alla preghiera, all’ascolto della parola, a scoprire i segni della presenza e dell’azione di Dio nella storia, a tradurre in impegno di vita quello che è stato sperimentato nella preghiera.
Il Papa poi invita i giovani ad essere “luce e sale” tra i propri compagni, nel loro ambiente di vita, nella società in generale, dando alla proposta pastorale una chiara dimensione missionaria. La nostra pastorale deve superare quel complesso di colpa e di paura che la segna, per ritrovare il coraggio apostolico che sente la gioia di proclamare ciò che ha vissuto e sperimentato. Non può accontentarsi di coloro che vengono nei nostri gruppi o centri giovanili, o scuole, ma deve andare alla ricerca degli indifferenti, dei lontani, della grande massa dei giovani della strada. Soprattutto, di fronte alla tendenza di ridurre la fede a qualcosa di privato, siamo invitati a far presente il Vangelo nella vita e nella cultura, con una presenza chiara, attiva e critica dei cristiani in tutti gli ambienti della società, offrendo modelli di pensiero e di vita alternativi e coerenti con il Vangelo.
D. Quali sono i cammini di azione pastorale che sono stati utili nel passato e non servono più oggi? Per quale ragione? Quali cammini si stanno dimostrando utili in altre parti del mondo e possono portare contributi nella nostra situazione?
R. Molti cammini di azione pastorale del passato oggi possono continuare ad essere validi se si inseriscono in un nuovo progetto e assumono quel nuovo stile e quella nuova metodologia pastorale che ho ricordato precedentemente.
Quando si analizzano i nuovi movimenti che stanno emergendo nella Chiesa in questi anni e che esercitano attrattiva nei confronti di molti giovani, ci si rende conto che tutti essi sono segnati da tre caratteristiche basilari, vissute in forme e gradi diversi: una profonda spiritualità incentrata sulla preghiera, la parola e i sacramenti; una forte esperienza di comunione, attenzione alle persone, relazioni interpersonali, comunicazione profonda di vita; e un impegno radicale per i più poveri e per gli ultimi.
In queste tre caratteristiche noi troviamo tre compiti impegnativi di realizzazione pastorale, che devono caratterizzare tutte le forme di pastorale giovanile nel futuro: la spiritualità, la comunità e l’impegno. E inoltre mi sembra che oggi vadano sviluppate in quest’ordine, superando la tentazione di scivolare in un impegno volontaristico o che non nasca da un’esperienza personalizzata di Gesù Cristo e del suo Vangelo, e non sia sostenuto da una comunità vicina e aperta.
D. Molti hanno la sensazione che la crisi non riguardi solo i destinatari ma investa anche i pastori. Di fronte ad alcuni soggetti pastorali non motivati e disorientati, quale potrebbe essere il profilo del soggetto pastorale (personale e comunitario) di cui abbiamo necessità oggi per animare i progetti e le strutture educativo-pastorali? Come possono essere formati?
R. Grazie a Dio, ci sono oggi molti educatori e pastori generosi e impegnati. Purtroppo però ce n’è un buon gruppo che, di fronte alla complessità della situazione e alle difficoltà incontrate, si sono rifugiati spesso nell’organizzazione e gestione delle istituzioni o in un generico impegno educativo e promozionale, o nel tentativo di ripetere esperienze del passato, pensando che esse continuino ad essere valide per i giovani di oggi.
Per poter affrontare la pastorale che esige la nuova evangelizzazione, l’educatore-pastore deve vivere una forte spiritualità apostolica, una solida relazione personale con Gesù Cristo, vissuta quotidianamente, un atteggiamento e una pratica del discernimento pastorale che sviluppa una visione di fede sulla vita, le persone e gli avvenimenti, superare sia l’attivismo che produce superficialità e dispersione, sia quello spiritualismo che non si traduce in opzioni radicali di vita.
Inoltre oggi l’educatore-pastore dei giovani deve possedere una solida struttura personale, umana e cristiana, per poter essere soprattutto un testimone significativo e credibile per i giovani di oggi, capace di offrire loro proposte stimolanti e valide e di accompagnarli nel loro cammino di realizzazione. Tutto questo suppone di possedere uno schema mentale solido e ben strutturato che permetta di avere una serena confidenza in se stessi e, nello stesso tempo, restare aperti e disponibili al dialogo e alla comunicazione anche con coloro che la pensano diversamente; coltivare un atteggiamento di formazione permanente, evitando di rifugiarsi in un ritmo di vita estremamente agitato, superficiale e di routine.
Si richiede infine un educatore-pastore disponibile e capace di condividere la sua vita con i giovani, di ascoltarli cordialmente, di valorizzarli e di accompagnarli gratuitamente; un educatore-pastore ben radicato nella comunità, capace di condividere con essa il progetto pastorale, lavorando in équipe, con mentalità progettuale.
La sua formazione è un processo delicato che non si conclude mai e che esige un atteggiamento continuo di riflessione sopra la propria esperienza e quella degli altri, per apprendere anche da essa; una disponibilità a condividere con gli altri, accettando di farsi accompagnare e correggere; una fiducia nelle persone e in se stesso, sostenuta da una profonda vita di fede.
D. La dimensione comunitaria della fede sembra difficile in una cultura individualista e frammentata come l’attuale. Come costruire autentiche comunità cristiane giovanili? Non si sta realizzando il fatto che la pastorale giovanile salesiana attuale perde i giovani a partire da una certa età, per esempio dai 24 o 25 anni? Come evitare il rischio di intimismo, egocentrismo, mancanza di impegno sociale e politico da parte di queste comunità?
R. La domanda tocca una delle preoccupazioni e delle sfide tra le più importanti che oggi investono la pastorale giovanile in generale e quella salesiana in particolare. Con la sensibilità e la metodologia preventiva di don Bosco sappiamo che i grandi valori educativi vanno seminati durante la preadolescenza e stimolati in un primo sviluppo durante l’adolescenza e la prima giovinezza. Ma questo cammino deve proseguire con un accompagnamento preciso e sistematico fino a condurre i giovani a un progetto di vita, a quella opzione vocazionale matura che oggi viene progressivamente ritardata.
Per le prime tappe abbiamo una ricca esperienza e abbondanti strutture educative: scuole, oratori, gruppi... Ci troviamo però con poche risorse e meno esperienze nell’accompagnamento dei giovani adulti, di quelli che non hanno maturato ancora la propria opzione vocazionale di vita, giovani dai 20 ai 30 anni, che non frequentano più le nostre opere di educazione formale. Essi hanno necessità di piattaforme educative adeguate, tali da permettere loro di completare il cammino educativo e di fede iniziato nelle tappe precedenti.
In questi ultimi anni è cresciuto nella Congregazione l’attenzione a questa fascia di età attraverso diverse iniziative: la formazione degli animatori del “movimento giovanile salesiano” (gruppi, associazioni, centri giovanili), giovani più maturi che attraverso il loro servizio di animazione continuano il loro processo formativo e di educazione nella fede; associazioni e movimenti che senza dimenticare le tappe precedenti offrono una speciale attenzione a questi giovani più grandi attraverso processi di catecumenato giovanile; lo stesso volontariato salesiano, tanto impegnato nel sociale come nel missionario, è una piattaforma che permette a molti giovani maturi di sviluppare le loro possibilità di formazione fino ad una opzione vocazionale adulta.
Credo che questo sia un campo in cui la pastorale giovanile salesiana deve collaborare fortemente con tutta la Famiglia Salesiana, soprattutto con quei gruppi laicali che offrono ai giovani possibilità di vita cristiana adulta, come sono i cooperatori e gli ex-allievi. Assieme dobbiamo cercare quelle piattaforme e quei servizi più convenienti per accompagnare questi giovani e per offrire a coloro che lo desiderano la possibilità di continuare a vivere la loro fede cristiana come adulti secondo lo stile salesiano nelle diverse associazioni della Famiglia Salesiana, o nelle comunità cristiane delle nostre parrocchie, o in altri movimenti ecclesiali.
Tutto questo esige adulti significativi, vicini, capaci di accompagnare e stimolare questi giovani, tanto personalmente come in gruppo, esperienze di spiritualità e di servizio sistematico ed esigente, un piano di formazione molto personalizzato, e nello stesso tempo ben strutturato e integrale, una metodologia di iniziazione alla illuminazione cristiana della vita quotidiana nei suoi ambienti di studio e di lavoro. In questo credo che noi salesiani dobbiamo impegnare più persone e più risorse, chiamando in causa i gruppi laicali della Famiglia Salesiana. La preoccupazione che questi gruppi o comunità di giovani adulti superino il rischio dell’intimismo e di mancanza di impegno sociale e politico deve essere uno degli obiettivi di questa tappa del cammino di fede, per sollecitare i giovani a incarnare la propria fede e la propria spiritualità nel campo delle loro responsabilità familiari, sociali, politiche concrete.
D. Molti pensano che le nostre strutture pastorali tradizionali, nate per umanizzare ed evangelizzare, lo fanno oggi a stento e, cosa più grave, si risolvono in qualcosa di mero mantenimento di se stesse. Che fare? Dobbiamo inventare nuove strutture? Sono utilizzabili da un punto di vista pastorale quelle che ci sono? A quali condizioni minimali?
R. Alle strutture educative e pastorali tradizionali sta capitando oggi lo stesso che alle altre strutture sociali. Nate e sviluppate in una società stabile e unitaria, incontrano difficoltà per adattarsi a una società complessa e in continuo cambio. Siamo passati da un modello fortemente unitario e monolitico, ad un altro chiaramente frammentato e in molti casi conflittuale. Gli educatori, cominciando dalle famiglie, non sanno come affrontare la propria missione educativa e corrono il rischio di rinunciare ad un autentico dialogo educativo, e si limitano ad un superficiale “lasciar fare”. Appaiono nuovi contesti e realtà educative, spesso in contrasto con le istituzioni tradizionali, come per esempio il gruppo dei pari, la strada, il mondo della comunicazione sociale e di Internet...; tutto questo possiede una grande capacità di modellare mentalità e comportamenti, ma nello stesso tempo si manifestano deboli al livello della personalizzazione dei valori e in quello di sostegno di opzione di vita radicali.
Dobbiamo affrontare con decisione questa nuova situazione e le sfide relative. La nostra società esige soprattutto oggi strutture educative e pastorali capaci di stabilire un dialogo dinamico e profondo con il mondo giovanile, con la sua sensibilità e le sue necessità, senza però rinunciare alla missione educativa di testimoniare e di proporre valori e criteri di comportamento, suscitare e sostenere progetti di vita e ricerca di senso. Le strutture tradizionali di educazione e di pastorale hanno ancora molto da offrire alla nostra società alla condizione che sappiano rinnovarsi in profondità.
Queste strutture devono resistere alla dinamica burocratizzatrice e massificatrice verso cui le spinge la società attuale, per promuovere l’attenzione prioritaria alle persone e alla relazione interpersonale, al dialogo e all’incontro intergenerazionale, alla partecipazione, al lavoro di gruppo... in modo che si convertano in autentici ambienti di vita e di cultura giovanile. Don Bosco lo aveva intuito al suo tempo quando chiedeva che tutte le sue istituzioni diventassero autentiche case in cui i giovani potessero sentirsi a proprio agio come in famiglia.
Devono promuovere un programma educativo autenticamente integrale, che tenga conto di tutte le dimensioni della persona umana e non solo di quelle immediatamente utili e spendibili per la produzione e il consumo; devono sviluppare con una cura particolare quelli aspetti a cui i giovani di oggi sono più sensibili e aperti: l’affettività, il corpo, la natura; valori come la pace, la solidarietà, la libertà; la partecipazione, la creatività, il dialogo; la ricerca di senso, l’interiorità, la qualità della vita...
Le istituzioni educative pastorali devono trasformarsi in autentiche comunità educative al cui interno tutti possano partecipare all’impegno educativo – i giovani stessi, gli educatori, le famiglie – e si sentano identificati con un quadro di valori condiviso, assumano in modo solidale uno stesso progetto educativo e collaborino attivamente alla sua realizzazione, favorendo una rete di relazioni interpersonali positiva e dinamica, e promuovendo metodologie di lavoro e di azione realmente partecipative e corresponsabili.
D. Quale deve essere l’orientamento dell’istituto cattolico confessionale, sapendo che molti di coloro che lo frequentano non cercano una formazione religiosa, ma una qualità o un controllo disciplinare dell’insegnamento? Che pastorale si deve fare in una scuola confessionale con destinatari disinteressati verso il fatto religioso?
R. La pastorale in un istituto cattolico non deve essere come una aggiunta religiosa a una cultura, a un ambiente e a una struttura neutra o indifferente al modello di vita ispirato al Vangelo. La pastorale è la qualità che cerchiamo di dare a tutto l’insieme della vita scolare, soprattutto a quegli elementi che sono maggiormente tipici, come per esempio la cultura, la metodologia, la disciplina...
Vogliamo che tutti questi elementi siano ispirati e promuovano una visione della vita e della realtà aperta ai valori del Vangelo di Gesù, favoriscano un atteggiamento di ricerca e di approfondimento di un senso della vita integrale e trascendente, offrano ai credenti l’opportunità di un dialogo critico e positivo tra la cultura e la loro fede.
La scuola o l’istituto cattolico deve tradurre in prassi le condizioni che ho indicato nella risposta precedente, e resistere con decisione alla pressione ambientale che lo spinge a centrare la sua qualità sui risultati accademici, sull’efficacia della sua disciplina, sulla promozione dei migliori. In questo senso l’istituto cattolico deve assumere un atteggiamento autenticamente alternativo rispetto alla cultura dominante, offrendo a tutti, con rispetto ma con decisione e chiarezza, una cultura della vita e della solidarietà, un’educazione integrale e aperta alla dimensione religiosa della persona, un impegno esplicito verso i più poveri e i più deboli.
D. Nella dialettica tra le strutture pastorali tradizionali e le nuove povertà giovanili, in che cosa potrebbe consistere in questo momento l’atteggiamento profetico della Famiglia Salesiana? Come formularla in modo pratico?
R. Sei anni fa il mio predecessore Don Juan Vecchi aveva scritto, in un suo documento sulle nuove povertà, che l’educazione è il contributo più specifico e originale che, come salesiani, possiamo offrire per la prevenzione e la lotta contro le nuove povertà. Sempre di più mi rendo conto della verità di questa affermazione.
Oggi le nuove povertà dei giovani sono conseguenza, in misura alta, di certe concezioni della vita che privilegiano il vantaggio individuale sul bene comune, un progresso rapido e facile al posto di uno sviluppo sostenibile e accessibile per tutti, la priorità degli interessi economici sopra tutto e, molte volte, contro i valori sociali e culturali. Non è sufficiente la ricerca di soluzioni immediate: è necessario un lavoro di educazione che promuova nuovi modelli di comportamento di vita che traducono, nel concreto, una “cultura dell’altro” al posto dell’individualismo possessivo, una cultura della sobrietà di fronte al consumo, la globalizzazione della solidarietà di fronte all’esclusione dei più deboli.
Come Famiglia Salesiana, estesa in tutto il mondo, dotata di abbondanti risorse e di un ricco patrimonio spirituale, abbiamo grandi possibilità e nello stesso tempo una enorme responsabilità per promuovere, in uno sforzo collettivo, progetti concreti nei quali – oltre a rispondere alle necessità immediata dei giovani – si promuova uno stile di vita maggiormente solidale e generoso.
In alcuni paesi dell’America Latina, per esempio, l’azione congiunta dei diversi gruppi della Famiglia Salesiana, in collaborazione con altre persone e istituzioni, ha creato un movimento sociale che ha promosso leggi e deliberazioni per la difesa dei diritti dei minori; in altri paesi dell’Europa, diverse organizzazioni di volontariato sociale e missionario stanno creando un ampio movimento di solidarietà e di collaborazione con paesi e popoli in via di sviluppo; il lavoro a favore dei ragazzi della strada, le iniziative per aiutare ragazzi e ragazze che stanno ai margini del sistema scolare ufficiale, stanno suscitando una nuova sensibilità e una concreta volontà di collaborazione dei Salesiani con altri gruppi e associazioni.
Di possibilità ce ne sono. Si deve però imparare a lavorare in rete, con progetti concreti e condivisi, con costanza e sistematicità, approfittando di tutte le risorse e possibilità che oggi ci offre l’enorme varietà di opere e di presenze che animano i diversi gruppi della Famiglia Salesiana in tutto il mondo. Perché, invece di contrapporre opere e strutture in una dialettica sterile e distruttiva, non ci impegniamo a portare ciascuno la propria originalità e a collaborare assieme nella promozione integrale dei giovani, soprattutto dei più poveri? Perché non impegnare tutti i componenti delle comunità educative delle nostre scuole, dei centri di formazione professionale, delle parrocchie, degli oratori, in progetti concreti di attenzione verso i più poveri?
D. Quali sono secondo lei i principali impegni di una pastorale che risponda al fenomeno dell’immigrazione? In che modo la pastorale deve affrontare la situazione del pluralismo culturale e religioso che va progressivamente crescendo in Europa?
R. Pochi mesi fa si è realizzato a Barcellona un incontro europeo per affrontare concretamente questo tema; fu il punto di arrivo di molti sforzi, iniziative e riflessioni che sono state realizzate in questi ultimi anni nelle diverse ispettorie dell’Europa salesiana. Nello stesso tempo in quel convegno si intendeva segnalare alcune linee e criteri di azione per orientare e rilanciare l’impegno salesiano con gli immigrati. Constato che nel documento finale sono state rappresentate molto bene le linee di una pastorale salesiana di fronte al fenomeno dell’immigrazione: una pastorale giovanile che “promuova l’apprendimento interculturale, aperta all’inserimento, con un comportamento critico universale basato sulla cultura della solidarietà, dell’autenticità, del dialogo interreligioso, della costruzione di relazioni di pace e di rispetto tra l’uomo e donna, a partire dalla propria identità”.
Dobbiamo essere coscienti del fatto che viviamo in un mondo che se da una parte è molto globalizzato, dall’altra appare sempre più diviso da diversità culturali, sociali, economiche, politiche, religiose. Esso presenta nuove sfide alla formazione: la principale è certamente l’educazione all’interculturalità. Qui c’è, secondo il mio punto di vista, la chiave di soluzione del difficile problema di portare ad armonia l’unità dell’umanità nella diversità dei popoli che la compongono. Implica una pedagogia dell’accoglienza delle differenze, della cultura del dialogo e della reciprocità, della solidarietà e della pace. Tutto questo è possibile soltanto nella misura in cui scopriamo che ci sono valori transculturali, validi sempre e in ogni parte, e che vivendoli nelle nostre comunità religiose e educative arriveremo a essere persone di comunione. Ce lo ricordava anche il Papa nell’esortazione apostolica Vita consecrata: le comunità multiculturali e internazionali si rivelano in molte parti testimonianze significative e ambiti formativi al senso della comunità tra i popoli, le razze e le culture.
In questo senso le linee di azione dell’incontro di Barcellona parlano di educare ai valori della multiculturalità, a partire da una base etica condivisa, di un’educazione alla cittadinanza solidale, con un’attenzione speciale al dialogo interreligioso, favorendo un’accoglienza incondizionata delle persone, proponendo il loro protagonismo, favorendo tra essi la presenza di mediatori culturali che facilitino il dialogo tra le diverse culture. Si richiede anche che l’attenzione all’immigrazione si inserisca nel progetto educativo-pastorale di ogni ispettoria, in modo che esso diventi una realtà presente in ogni opera attraverso un lavoro sempre maggiormente di rete.
Tutto questo suppone un cambio di mentalità tanto tra i salesiani come tra i membri delle nostre comunità educative; esige di promuovere una formazione all’interculturalità e alla diversità come ricchezza, mediante esperienze di lavoro interculturale convenientemente fatti oggetto di riflessione e valutazione, l’inserzione nelle comunità educative degli stessi immigrati come collaboratori. Grazie a Dio, tutte queste linee si stanno già realizzando in molte delle nostre ispettorie; si tratta di estenderle e di fare in modo che siano patrimonio e realtà in tutte le nostre presenze.
D. A proposito della nostra vicinanza al mondo giovanile, al suo linguaggio: cosa possono dire e apportare i salesiani nei confronti del linguaggio, riti, immagine pubblica, testimonianza sociale di quella che chiamiamo “la Chiesa ufficiale e istituzionale”? Come avvicinare la Chiesa ai giovani e i giovani alla Chiesa?
R. Per avvicinare la Chiesa ai giovani prima di tutto dobbiamo amarla profondamente, anche la Chiesa ufficiale o istituzionale, e questo amore farlo sentire anche ai giovani, aiutandoli a scoprire i valori e le realizzazioni positive presenti in essa, i segni della presenza e dell’azione di Dio. È ciò che ha fatto don Bosco nel suo tempo davanti all’avanzata della propaganda protestante che disorientava e turbava la fede semplice della gente e dei giovani. Don Bosco, con un linguaggio semplice, ameno e comprensibile a tutti, fa conoscere la storia della Chiesa, del papato, le vite dei santi e delle persone buone, propaga devozioni e pratiche religiose popolari e adatte ai giovani. Con questo egli dà forza al loro amore alla Chiesa e fa irrobustire la loro fede.
Oggi i giovani hanno dimostrato di essere molto sensibili e aperti a questi valori della fede e della Chiesa. La persona del Papa e i suoi incontri ripetuti con i giovani, le GMG, la fioritura di movimenti giovanili, sono alcuni di questi segni che, come educatori, siamo impegnati a valorizzare e a sostenere.
Dobbiamo anche accompagnare i giovani in modo che essi possano vivere e manifestare la fede della Chiesa, la sua liturgia, la sua preghiera, in un linguaggio e uno stile giovanile, senza evidentemente snaturare tutto questo o farlo diventare superficiale. È un compito educativo importante che ci chiede di essere autentici maestri di spiritualità giovanile, capaci, attraverso i segni dei linguaggi giovanili, di rendere presenti e far vivere una autentica esperienza di fede e di Dio. In tutto questo un compito importante è affidato alle nostre comunità e ai gruppi della Famiglia Salesiana, impegnati a essere per i giovani immagini significative di una Chiesa vicina ad essi, aperta e dialogica, appassionata per Gesù e per la sua missione di vita piena, comunità felici, profonde e sensibili al mondo dei giovani in modo che diventino autentica esperienza di Chiesa e scuole di preghiera.
Oggi non basta l’impegno per gli altri per avvicinare la Chiesa ai giovani; è necessario che questo impegno, senza perdere nulla della sua radicalità, manifesti chiaramente la sua fonte, le sue motivazioni più profonde, il Dio di Gesù, il suo amore e il suo progetto di salvezza che si realizza attraverso la comunità dei credenti, presieduta dai suoi pastori.