Il sole nel cuore di un volontario
Evisa Feleqi *
Il sorriso di una persona è il raggio più caldo che può toccare il cuore. E io sono un po' così, sempre ottimista e sorridente, perché nella vita si deve essere felici per poter coltivare felicità. Ne sono assolutamente convinta: siamo al mondo per essere felici, e il sorriso ne è la prima traccia.
Sto parlando della mia esperienza di volontariato, in un impegno di servizio civile che mi ha profondamente coinvolta. E intendo parlarne non a partire da speciali competenze o speciali ambiti di azione, ma a partire “dall’anima”. Sì, perché l’anima del volontario è importante, il suo spirito libero e credente (di qualunque tipo sia la sua fede) fanno sorgere delle emozioni indescrivibili. Tanto più quando - per il riferimento della mia associazione di volontariato (salesiano) - l’educativo, i ragazzi, l’amorevolezza sono parole chiave.
Essere volontario salesiano vuol dire nutrire e sfamare amore, entrare nello spirito di un bambino per fargli sentire calore, accettazione e speranza. L’essenza del lavoro di volontariato è proprio quella di “organizzare” (ricostruire, condividere, alimentare…) la speranza di chi nella vita non vede sorgere delle opportunità. Io ho voluto intraprendere l’attività di volontariato proprio perché volevo toccare delle realtà difficili, disperate e in urgente bisogno di aiuto. Ho scelto i Salesiani, ed è stata la migliore scelta della mia vita, sono riuscita a lavorare con i bambini e i giovani.
A volte mi sono chiesta se si nasce volontari o lo si diventa… Non è una domanda sciocca, perché sento dentro di me naturale l’empatia, la condivisione, il desiderio di aiuto… ma so anche che occorre formarsi, per essere “meglio”. Per me è stato così: un momento molto importante è stato propria la formazione, cruciale direi, e quando la sede di appartenenza riesce a preparare il proprio volontario, rendendolo consapevole della realtà che troverà e il lavoro che dovrà svolgere, allora il volontario potrà preparare se stesso al lavoro che l’aspetta. Il mio momento di formazione fu costruttivo, ho colto con cura ogni momento e ho fatto tesoro delle attività svolte. E non dico solo a livello di “competenze” e tecniche o metodologie di azione, ma anche per conoscere meglio me stessa, mettere a nudo le mie motivazioni, imparare a collaborare, a partecipare, ad avere anche – perché non dirlo? – uno sguardo “politico”.
Sono partita per Albania nel giugno del 2022, con la macchina da Roma a Bari, ho imbarcato la macchina in nave, sono arrivata a Durazzo il mattino seguente, e dopo un paio d’ore stavo a Tirana. Ancora sento il cuore battere forte quando ricordo le emozioni di quel giorno: era un sogno che si stava realizzando.
Avevo delle alte aspettative da me stessa, volevo fare tutto in modo perfetto e volevo vedere risultati, però non avevo ancora considerato quanto era difficile per i ragazzi aprirsi con me. Allora ho fatto un passo indietro, ho capito che loro dovevano vedere una persona che li proteggeva e di cui potevano fidarsi, con la quale parlare poteva essere divertente. Il mio primo obiettivo fu quello di guadagnarmi il loro affetto, diventare una persona che - quando passava nei corridori del centro diurno e li incontrava - i ragazzi avessero il piacere di vedere. Questo è stato l’input da cui ho cominciato... e penso che sia stato proprio l’input giusto.
Ho deciso di mettere tutte le mie competenze, capacità e anima nel lavoro e nel rapporto con i ragazzi dell’oratorio e del centro diurno.
Le cinque ore lavorative le svolgevo nel centro diurno dove avevo una classe con quasi 15 studenti dagli undici ai quindici anni. Mi occupavo del sostegno allo studio nelle materie di italiano, inglese, francese, letteratura e grammatica albanese, e in generale di materie di scienze umane. In oratorio mi occupavo dell’assistenza in cortile, coordinamento dei laboratori dove svolgevo il laboratorio di lingua italiana, e dei gruppi di formazione della seconda liceo. Inoltre nel tempo libero mi piaceva stare in oratorio fino alla sera per parlare e giocare con i giovani. Mi è capitato molte volte di “dare la buonanotte”, un momento molto particolare in oratorio dove si fa una riflessione, si racconta una storia, si commenta qualche fatto della giornata: in questo modo si condivide e si recepisce lo stile e il metodo peculiare di don Bosco: insomma, ci si sente famiglia. Ho anche avuto l’opportunità di accompagnare i ragazzi del centro diurno in gite giornaliere in diverse città, e i giovani dell’oratorio in attività e incontri con altri centri di Don Bosco in Albania: è sempre bello far incontrare i giovani di altre realtà.
L’anno di servizio civile è stato pieno di colori; le sue sfumature non sono però sempre state gioiose, ma ci sono stati momenti di confronto con la dura realtà che hanno aperto a diverse riflessioni, anche a qualche “correzione di rotta”. Parlo della realtà dei ragazzi, che pur avendo stampato in viso un sorriso, vivevano in condizioni dure. A settembre ci fu l’incontro con le famiglie a cui ho partecipato anch’io, con lo staff del centro diurno siamo andati nelle case dei ragazzi, e lì mi sono confrontata per la prima volta con situazioni reali di vita. Una volta sono entrata in una casa con il pavimento rotto ma coperto da tanti tappetti di diversi colori, le mura bianche e perlopiù coperte da lunghe tende che arrivavano fino al pavimento. Pur essendo giorno il soggiorno era immerso nel buio, e tra il mucchio di panni sparsi ovunque per casa c’era una ragazza di quattordici anni che cercava di addormentare un piccolo angioletto di solo un mese di vita e il fratellino di un anno. Mi hanno detto che il bambino di un mese era suo figlio.
Lì mi si è fermato il respiro, vedo lei che ai miei occhi è più bambina del bambino che ha in braccio. Ho dovuto nascondere il mio stupore e cercare di tenere a bada tutto quello che sentivo dentro di me e reprimere le mie emozioni, per evitare gesti o parole che potessero sembrare un giudizio, un’offesa nei confronti della famiglia. Mi hanno chiesto se volevo prendere in braccio il piccolo e senza esitazioni – anche se con un po’ di timore – ho teso le braccia e lui ha sorriso. Quel sorriso non lo dimenticherò mai, anzi penso che quando sorrido di mio, ci sia qualcosa anche di quello.
Come quella ragazza ce ne sono molte altre, perché nella loro cultura e abitudini fidanzarsi, abbandonare gli studi e sposarsi a 14-15 anni è normale, ed è proprio questo che il centro diurno mira a cambiare. L’obiettivo del mio lavoro nel centro diurno in effetti è stato anche quello di fermare queste ragazze, di prospettare l’importanza della scuola, di una preparazione professionale, anche di una maggior maturità per essere sposa e madre: solo così la società e la cultura potevano cambiare “dal basso”, non più perpetuare una situazione inaccettabile oggi. Penso che qualcuna abbia capito che lo studio aiuta a diventare nella vita una persona colta, educata, elegante e dignitosa, perché indipendente e orgogliosa dei propri traguardi. Queste ragazze avevano proprio bisogno di uscire da situazioni simili di disagio sociale.
Questa è stata per me l’esperienza del centro Don Bosco a Tirana. Qui nell’oratorio ho respirato (e visto respirare) aria di pace e felicità, nel rispetto reciproco di ogni religione: musulmana, ortodossa, cattolica, bektashi. Qui risuonava musica e i giochi, i balli e le risate erano il contorno quotidiano del lavoro e della vita insieme. È stata così più facile la condivisione e quasi naturale il non risparmiarsi degli animatori, ben oltre gli orari “fissati” dal contratto. I bisogni degli altri, soprattutto dei più piccoli, erano lo stimolo che rendevano gli animatori attenti e creativi.
Pensavo di dare. Ho ricevuto di più.
Il servizio civile è stata per me un’esperienza di vita che mi ha cambiata, almeno ha cambiato la mia anima e probabilmente anche il mio sorriso.
* 26 anni, nata in Albania ma da lungo tempo in Italia dove si è laureata in scienze politiche con speciale attenzione alla programmazione sociale, in cui ha anche ottenuto un Master europeo.
Dopo l'anno di volontariato sociale, al momento lavora presso l'Associazione SxS, dove conta di mettere a servizio dei giovani in difficoltà le sue competenze e la sua umanità, basata sull'empatia e sul potere della parola e del dialogo.