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    Dall'esperienza di fede all'esperienza etica (cap. 10 di: Una spiritualità per la vita quotidiana)



    10. Dall'esperienza di fede all'esperienza etica

    Nella nostra ricerca sulla spiritualità giovanile ci siamo trovati a fare i conti con un problema serio e delicato. L'avevamo quasi rimosso, affascinati dalla storia di quel bel tipo che faceva l'esattore delle tasse, per cui Gesù manifesta tanta simpatia solo perché ha saputo invocare la salvezza di Dio dal profondo della sua disperazione (Le 18,9-14).
    Ci sembrava questo il succo della sua storia: non è decisivo comportarsi bene; è importante ritrovare il coraggio di alzare le braccia nel gesto, fiducioso e rischioso, di invocare vita e salvezza «oltre» la propria esperienza.
    Con questo gesto il cristiano riconosce la presenza accogliente e perdonante del Dio di Gesù Cristo; se lo sente vicino, tra le pieghe della propria vita quotidiana; lo confessa il Padre che sprofonda nel suo abbraccio il figlio tornato a casa dopo essersi ubriacato di libertà. E così governa quella disperazione che tante volte sale come un torrente in piena, quando ci troviamo a faccia a faccia con i nostri quotidiani tradimenti.
    I grandi uomini spirituali hanno vissuto così la loro fede. Nello stesso tempo, però, hanno fatto di tutto per riempire la loro esistenza di gesti corretti e impegnati. I loro atteggiamenti vitali e i loro comportamenti quotidiani esprimevano una coerenza etica che lascia con il fiato rotto la gente mediocre come noi.
    La loro lezione è chiara: non possiamo accontentarci di confessare la fede nel Dio che riempie la nostra vita, ma dobbiamo vivere questa stessa vita in modo corretto, come richiedono i suoi comandamenti, le disposizioni della Chiesa, le leggi dell'uomo e la responsabilità personale. Con parole un po' complicate, questa esigenza si definisce il passaggio dall'esperienza di fede all'esperienza etica.
    Nei primi passi della nostra ricerca ci siamo preoccupati poco di questa esigenza. Volevamo spezzare un rapporto troppo rigido (da «farisei», dicevamo, continuando a pensare alla storia raccontata nella prefazione di questo libro), tra vita di fede e vita etica.
    Ma poi, ritrovata l'ebbrezza della libertà e della responsabilità, abbiamo avvertito la necessità di recuperare quello che avevamo messo tra parentesi per una strana fretta.
    In tempi di soggettivizzazione esasperata bisogna davvero saper bilanciare le riflessioni: per amore alla verità delle cose e per aiutare le persone a crescerci dentro.

    1. UN MODO NUOVO DI CONIUGARE IL VERBO «IMPEGNARSI»

    La fede cristiana non può essere ridotta ad una serie di affermazioni astratte, che riguardano solo la dimensione conoscitiva dell'esistenza. Essa ha invece il sapore della vita, quello spessore concreto, che coinvolge la prassi per il Regno di Dio. Per questo essa si traduce immediatamente in stili di vita e in comportamenti capaci di rendere trasparente la forza sconvolgente dell'evangelo.
    Sul livello dei valori, dei modelli e dei vissuti effettivi (sul livello cioè dell'esperienza etica) la fede dei credenti diventa quindi concreta e provocante.
    Questo è un fatto innegabile. L'ha affermato per primo Gesù di Nazaret. L'ha sempre ricordato la Chiesa, resistendo tenacemente contro ogni tentazione di svuotare l'Incarnazione.
    Le difficoltà nascono quando si definisce la qualità del rapporto tra esperienza di fede e esperienza etica. Ho l'impressione che qui le strade si dividano veramente: una porta, passo dopo passo, alla logica del fariseo; l'altra, invece, è segnata dall'atteggiamento di Gesù verso il pubblicano. L'ha capito bene Paolo. Sbattuto giù da cavallo dalla potenza di Gesù che da buono e coerente fariseo stava perseguitando, si è visto scoppiare tra le mani la logica in cui aveva creduto e per cui aveva giocato tutta la vita. Accecato dalla luce improvvisa di questa esperienza, si è scoperto un uomo nuovo. L'ha gridato con una foga, un coraggio e una profondità tale che la sua voce risuona freschissima anche per noi.
    Proviamo ad ascoltarlo, con un po' di calma. Poi tireremo, con lui, le conclusioni.

    «Il Dio invisibile si è fatto visibile in Cristo,
    nato dal Padre prima della creazione del mondo.
    Tutte le cose create, in cielo e sulla terra,
    sono state fatte per mezzo di lui;
    sia le cose visibili sia quelle invisibili:
    i poteri, le forze, le autorità, le potenze.
    Tutto fu creato per mezzo di lui e in lui.
    Cristo è prima di tutte le cose
    e tiene insieme tutto l'universo.
    Egli è anche capo di quel corpo che è la Chiesa,
    è la fonte della vita nuova,
    è il primo risuscitato dai morti:
    egli deve avere sempre il primo posto in tutto.
    Perché Dio ha voluto essere pienamente presente in lui,
    e per mezzo di lui
    ha voluto rifare amicizia con tutte le cose,
    con quelle della terra e con quelle del cielo;
    per mezzo della sua morte in croce
    Dio ha fatto pace con tutti.
    Un tempo anche voi eravate lontani da Dio; eravate nemici perché pensavate e facevate opere cattive. Ora, invece, per mezzo della morte che Cristo ha sofferto, Dio ha fatto pace anche con voi per farvi essere santi, innocenti e senza difetti di fronte a lui.
    Però, rimanete fermi nella fede, restate saldi su solide basi, non permettete a nessuno di portarvi lontano da quella speranza che è vostra dal giorno in cui avete ascoltato l'annunzio del vangelo» (Col 1,15-23).

    Paolo parla dell'esistenza cristiana. Va alla radice delle cose, senza fermarsi ai particolari. Gli interessa mettere in risalto quello che è capitato nella sua vita e in coloro che, come lui, sono stati afferrati da Dio in Cristo Gesù.
    Sullo sfondo c'è una grande confessione di fede in Gesù.
    In Gesù Cristo si è realizzato un sogno meraviglioso: l'uomo peccatore ha cambiato faccia; il suo volto, distrutto e intristito, porta ora i segni splendenti del volto di Dio. Gesù ha creato in noi una somiglianza perfetta a sé; e questo ci introduce nel progetto di salvezza che Dio ha disegnato da sempre per l'uomo. «Da sempre li ha conosciuti e amati, e da sempre li ha destinati a essere simili al Figlio suo, così che il Figlio sia il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29): il soggetto è Dio e l'oggetto siamo noi, che abbiamo accolto l'invito ad entrare nel vortice dell'amore di Dio. Questo dono di vita ci fa diventare uomini nuovi. Non siamo solo ritornati alla situazione originale, prima che il peccato rovinasse i piani di Dio creatore. Siamo figli di Dio, come Gesù. Lo possiamo chiamare, nello Spirito, «Padre nostro» (Rm 8,14).
    Tutto questo rappresenta un dato di fatto. Paolo lo proclama come suo riconoscimento.
    Parla di avvenimenti imprevedibili, di sogni già realizzati, di doni che riempiono di entusiasmo.
    Dice tutto questo all'indicativo: per costatare il fatto.
    La conformazione a Cristo non significa però essere «uguali» a lui in modo conclusivo. È una lenta, faticosa realizzazione di quello che siamo per dono e che dobbiamo diventare per responsabilità.
    Un'immagine evangelica dice bene tutto questo: quella del «seme». Il seme è già l'albero, anche se lo deve diventare, poco alla volta, secondo un suo ritmo di crescita.
    La conformazione a Cristo è un processo di progressiva assimilazione a lui, attraverso l'impegno della vita.
    Il dato della fede è quindi un indicativo che si traduce immediatamente in imperativo etico: sei uomo nuovo; devi diventarlo, giorno per giorno.
    L'esperienza etica rappresenta, per il cristiano, la risposta, sofferta e gioiosa, all'indicativo di fede.
    Questo modello di esistenza cristiana mette sicuramente in primo piano tutte le esigenze della vita morale. Non lo fa però secondo le logiche, poco cristiane, del fariseo. Lui pensava di accedere a Dio perché si impegnava disperatamente in una vita virtuosa. Raggiunta la meta, poteva finalmente tentare di guardare Dio negli occhi.
    Il cristiano sa di essere ormai diventato un uomo nuovo, perché è stato afferrato da Dio in Gesù Cristo. Non deve raggiungere Dio alla cima della montagna inaccessibile. In Dio vive già immerso. Da Dio ha già ottenuto la pienezza di vita: è già totalmente figlio suo.
    A lui non si chiede una vita virtuosa con la scusa di vivere una vita «coerente». Nessuno gli può dire: adesso che hai scoperto chi sei, per favore... regolati di conseguenza.
    La vita virtuosa è la progressiva costruzione di quello che siamo già: nell'impegno etico il piccolo seme della creatura nuova diventa albero grande.

    2. TRA RESPONSABILITÀ E COMPAGNIA

    Molti di noi avvertono disagio quando si parla di impegno etico, perché hanno l'impressione di dover fare i conti con una specie di codice della strada. Tutte le infrazioni sono già previste; e i comportamenti non previsti non possono essere condannati come infrazioni. Ad ogni errore corrisponde la punizione proporzionata (secondo il parere insindacabile del giudice). Al colpevole resta la possibilità di conciliare subito o di subirne le conseguenze in futuro.
    La cosa può andar bene quando bisogna decidere se possiamo attraversare la strada con il semaforo rosso o con quello verde.
    Non funziona di certo quando c'è di mezzo la responsabilità etica, soprattutto in prospettiva cristiana.
    A pensarci bene, l'immagine del seme che cresce in albero grande funziona perciò solo fino ad un certo punto.
    Esprime bene il processo di crescita e ne ricorda la caratteristica più qualificante: non si cresce in una logica di assemblaggio progressivo di elementi prima carenti, ma attraverso lo sviluppo e il consolidamento di quello che già si possiede in una pienezza solo germinale
    Nasconde però la qualità fondamentale di ogni maturazione morale cristiana: la responsabilità irrinunciabile dell'uomo.
    È importante non dimenticarlo: l'uomo è chiamato a definire in piena e autonoma responsabilità le modalità concrete in cui realizzare il suo impegno etico.
    Il soggetto è l'uomo come singola persona, nella solitudine della sua coscienza, e l'insieme collettivo degli uomini, quando determina la sua cultura.
    Quando Dio manifesta il suo progetto all'uomo, non gli detta una serie di prescrizioni morali, come se fosse un organismo costituente alle prese con un codice di diritto. Ha segnato gli orientamenti fondamentali nella struttura stessa della vita dell'uomo; glieli ricorda attraverso la testimonianza della Parola scritta (la Bibbia). La Chiesa interpreta questi principi costitutivi, li riscrive e li concretizza con le espressioni della cultura e delle diverse situazioni. Qualche volta aiuta la ricerca, personale e collettiva, suggerendo direzioni di riflessioni o contestando decisioni che riconosce contro il progetto di Dio.
    La fede dice qualcosa in proprio e aiuta a raccogliere e a valutare ogni altro contributo. Mai pretende di scrivere il codice dei comportamenti morali dell'uomo fino agli ultimi dettagli.
    L'esperienza di fede si riscrive in esperienza etica attraverso processi che chiamano in causa la responsabilità del cristiano e la sua capacità di riflettere e progettare in compagnia con tutti gli uomini.
    La definizione degli orientamenti operativi è risolta così in una doppia convergente attenzione. Il cristiano ascolta le esigenze del vangelo per dare voce alla sua fede nel centro della vita. Ascolta anche il movimento della vita e della storia perché sa che solo nella scienza e nella sapienza dell'uomo può ritrovare le indicazioni necessarie per decidere chi essere e cosa fare.
    Sul piano dell'esperienza etica il cristiano rimane, perciò, uomo di compagnia con tutti gli altri uomini.
    Mette infatti la sua fede al servizio della ricerca di valori alternativi, di nuovi modelli di comportamento, di una nuova prassi ispirata a rapporti diversi tra le cose e gli uomini. La mette così nel centro di quella domanda angosciosa che sale da tanti uomini di buona volontà.
    Non lo fa con la presunzione di chi pensa di avere la soluzione per tutti i casi e finge di giocare all'invenzione finché annoiato non tira dalla manica la sua carta vincente.
    Testimonia invece un progetto, offerto proprio alla sua povera esperienza. Lo dice nel rischio di vivere e di cercare assieme, dentro una esperienza che gli è stata donata, come dono che fa tutti un po' più uomini.

    3. NELLA SOLITUDINE DELLA PROPRIA COSCIENZA

    Per decidere cosa fare e cosa evitare, il cristiano ha come punto di riferimento ultimo la sua coscienza e la sua cultura.
    Lo so, d'esperienza diretta, che la coscienza è un tribunale esigente, ma anche facilmente manipolabile.
    Ci inquieta, ma con qualche precauzione e con un po' di mestiere lo possiamo anche far tacere.
    Qualcuno cerca indicazioni più precise e perentorie, per non correre rischi. Nella nostra ricerca sulla spiritualità abbiamo sempre resistito a questa tentazione autoritaria.
    Il correttivo non sta, come sempre, nel far entrare dalla finestra quello che è stato allontanato dalla porta. Sta invece in un ampio e serio processo di aiuto e di sostegno: in una precisa attenzione educativa.
    La coscienza personale è al centro della responsabilità etica. Il giovane cristiano però si fa aiutare per educarla.
    In che direzione?
    Prima di tutto, è indispensabile accettare di lasciarsi informare. L'uomo presuntuoso fa iniziare la storia del mondo da se stesso e la conclude con qualche «per me è così». Questo modo di fare non mette certamente la responsabilità personale al centro delle scelte; colloca solo la propria arroganza. La nostra responsabilità ha sempre invece una dimensione storica e collettiva.
    In campo etico questo significa l'importanza dell'insegnamento morale. Nessuno vuole ripercorrere da solo il lunghissimo e incerto cammino percorso dall'umanità nel corso dello sviluppo delle sue conoscenze morali.
    Chi vuol vivere seriamente il proprio impegno etico accetta, inoltre, di sottostare ad una corretta disciplina etica. Dobbiamo fare i conti con troppi condizionamenti, interni ed esterni, per immaginare una esperienza etica all'insegna della pura spontaneità. L'educazione alla disciplina diventa progressivamente capacità di autodisciplina.
    Si richiede, ancora, la capacità di vivere un rapporto di amore accogliente nei confronti di coloro che hanno il compito, difficile, di testimoniare le esigenze dei valori. Coloro che hanno questa responsabilità sanno di incarnare un po' il volto di Dio: propongono ed esigono, accogliendo e perdonando anche quelli che lo abbandonano per uno strano desiderio di autonomia.
    Il punto centrale di tutto il processo resta, infine, quella grande passione per la vita, di cui tante volte abbiamo parlato. La vita è un evento che misura ogni nostra ricerca e giudica inesorabilmente tutte le nostre pretese. Questo valore prende forma progressivamente nell'avventura dell'uomo. Ha una storia e diventa una cultura. Chi ama la vita, accetta il confronto con quello che è già espresso e che altri possiedono per testimoniarcelo. Ama la vita e la cerca, con la costante preoccupazione di «rispettarla», perché solo così la vita può essere piena in tutti.

    4. RITRATTO DI UN CRISTIANO

    Finora ho suggerito indicazioni che restavano, per forza di cose, un po' sul generico. Un piccolo passo avanti lo possiamo fare nella direzione di modelli d'azione.
    Per ritagliare un «ritratto di cristiano» suggerisco alcuni atteggiamenti che stimo importanti. Li riprendo dalla nostra storia; lì sono nati in un confronto tra fede e cultura attuale.
    La mia è una proposta piccola, relativa, forse discutibile, come sono tutte le espressioni umane in cui prendono corpo le grandi esigenze, necessaria però (questa o un'altra simile) per consolidare la sequela di Gesù nella vita quotidiana.
    Un primo atteggiamento è determinato dalla capacità di «solitudine interiore».
    L'uomo della civiltà industriale ed urbana vive in maniera drammatica l'esperienza dell'isolamento che è esperienza di estraneazione da se stesso: una situazione esistenziale di totale eterodirezione con conseguente incapacità di controllo delle proprie scelte.
    La solitudine disegna il cammino opposto: è capacità di rientrare dentro se stessi, capacità di riscoprire la propria identità irripetibile e la specificità del proprio essere-nel-mondo.
    La solitudine richiede una solida vita interiore, un processo di assunzione globale delle proprie potenzialità effettive.
    Tutto questo favorisce la piena disponibilità all'accoglienza di se stessi, a quella accettazione del proprio sé, nella finitudine in cui siamo costituiti, che è premessa indispensabile per aprirsi correttamente al rapporto con l'altro.
    Un secondo atteggiamento è costituito dalla capacità di superare tanto il rifiuto della sessualità quanto la sua banalizzazione.
    La caduta dei tabù sessuali ha coinciso con un permissivismo morale che riduce la sessualità a merce di scambio. Si può controllare questo processo di alienazione solo facendo spazio ad un coinvolgimento globale della persona nella strutturale apertura all'altro e alla vita.
    Sottolineo poi l'esigenza di una costante prassi di riconciliazione.
    Riconciliazione non è rifiuto del conflitto, attraverso la sua esorcizzazione o il tentativo di mascherarlo nella ricerca di una convergenza che finge di ignorare le differenze e le contrapposizioni. È invece capacità di stare nei conflitti e nelle tensioni, nelle complessità e nelle ambiguità, accettandone il significato positivo anche se doloroso, per la maturazione personale e collettiva. È soprattutto capacità di assumere ed elaborare le conflittualità esistenti, in vista di espressioni nuove e autenticamente liberanti.
    Questo comporta l'esaltazione della diversità, la capacità di accettarsi pur nella varietà delle scelte opinabili, il dialogo continuo anche con chi dissente, la consapevolezza che l'unità non è mai uniformità, ma è progetto e tensione, dono da costruire, da invocare e accogliere nella differenziazione e nella pluralità di espressioni.
    Si danno però situazioni nelle quali la riconciliazione non basta. In questi casi drammatici, dove la contrapposizione diventa violenza radicale e tragica, solo un gesto di assoluta gratuità è capace di spezzare la spirale della tensione, introducendo un principio di rigenerazione.
    Questo gesto è la testimonianza del perdono, che cancella la situazione di lacerazione attraverso un atto di amore incondizionato.
    Un altro atteggiamento importante è quello della povertà.
    Povertà è stile di vita e ragione di solidarietà. Per questo è condivisione della sorte di tutti gli uomini, sollecitazione a costruire assieme una nuova qualità di vita.
    Povertà non è il rifiuto delle cose che Dio ha messo nelle mani dell'uomo per il servizio alla vita; ma non è neppure possesso e appropriazione di queste cose, perché possesso e appropriazione rendono l'uomo schiavo e oppressore, impedendogli di gustare la gioia di vivere.
    Povertà è condivisione: è gustare delle risorse della terra e dei beni economici per far crescere la libertà e la responsabilità, la fraternità e la convivialità.
    La convivialità è un altro atteggiamento urgente.
    Convivialità è gioia di stare con tutti, al di sopra delle differenze, riconoscendo la soggettività di ogni uomo come il segno della presenza di Dio nella nostra storia e rischiando in questo riconoscimento il necessario invito alla conversione.
    La convivialità eucaristica è resa significativa da quella della vita e della prassi quotidiana e, nello stesso tempo, essa la alimenta, rendendola operante attraverso una trasformazione delle relazioni umane.
    Ricordo ancora l'atteggiamento della speranza, come qualità di una presenza operosa e trasformatrice nella storia. La speranza spinge ad abbandonare ogni pretesa di autosufficienza e di autoconservazione, ogni atteggiamento pessimistico e di rifiuto dell'esistente. Positivamente, prassi di speranza è attenzione ai bisogni e alle attese umane, assunzione della nostalgia dell'uomo per una «patria dell'identità», testimoniando la sua vicinanza e la sua attingibilità.
    Questa speranza rende capaci di annunciare il nuovo, il diverso, il gratuito e l'inedito, suscitando il senso dell'attesa, della sorpresa e della meraviglia.
    Attraverso la prassi di speranza viene rifiutata categoricamente l'esaltazione della potenza, dell'efficienza, del successo, della prevaricazione dell'uomo sull'uomo. Al contrario viene riconosciuto, nei fatti, che qualsiasi potere ha senso solo nella misura in cui è usato in favore di chi non ha potere, di chi non conta, di chi è fatto oggetto di emarginazione e di rifiuto: in una parola, nella misura in cui diventa servizio ai poveri.
    La speranza mette così la persona al centro di tutte le preoccupazioni. Non lo fa in modo vago e astratto. La persona che fa da centro è soprattutto il povero, chi non conta, chi vive abitualmente emarginato, chi soffre, chi si sente quotidianamente morire. Lo mette al centro per impegnare tutti a riscattarlo.
    Nel silenzio di una convivialità senza parole o nella parola di accoglienza e di liberazione, ciascuno può ritrovare così la libertà di credere alla vita e di viverla anche nel dolore.

    5. IL CORAGGIO DI SOGNARE IN GRANDE

    Chi rilegge con calma le cose scritte in questo capitolo si accorge facilmente di un modo di procedere abbastanza strano: le indicazioni ancorate alle esigenze tipiche della esperienza cristiana si sono mescolate a riflessioni che sembrano solo di «buon senso» e di responsabilità tutta umana.
    L'impressione è giusta. Ma corrisponde ad una scelta precisa e motivata.
    L'etica è lo spazio privilegiato dell'incontro tra quello che è squisitamente cristiano e quello che resta sul piano solo umano.
    Il cristiano ritrova nella sua esperienza di fede l'imperativo ad un preciso impegno etico. Ma ritrova in questa stessa esperienza le grandi direttrici di marcia, quelle che gli permettono di orientarsi adeguatamente nel terreno difficile delle decisioni etiche.
    Per questo, dimensione umana e cristiana si intrecciano continuamente: si richiamano per la reciproca verità e consistenza.
    Tutto questo è vero e importante. Ma non è tutto.
    Il cristiano vive la sua esperienza etica in uno spazio tutto suo. Lo chiamo, scherzando un po' con le parole, la capacità di sognare in grande.
    Provo a spiegarmi, anche se le parole che sto scrivendo mi mettono in crisi.
    Quando ci chiediamo cosa fare per essere uomini di speranza oppure fino a che punto dobbiamo perdonare, non riusciamo a dare risposte astratte. Non possiamo fare solo una teoria sulla speranza né possiamo stabilire sulla carta i confini del perdono o quelli di una passione premurosa e liberatrice per la vita. Questi atteggiamenti etici sono, prima di tutto, persone concrete. La loro esistenza è la fondamentale proposta etica.
    Qui è il punto.
    Chi si mette a cercare modelli su cui confrontarsi, se li cerca di solito sulla propria taglia. Un modello troppo lontano dal ritmo quotidiano delle proprie scelte sbatte brutalmente in crisi. Non abbiamo voglia di lasciarci inchiodare alla nostra banalità. E così sogniamo a piccolo cabotaggio.
    Conosciamo tutti uomini dalla speranza sopra ogni speranza, dalla capacità di perdonare fino a dare la propria vita, consumati in un servizio di liberazione che giunge al martirio. Li ammiriamo; ne parliamo bene. Ma ci preoccupiamo subito di collocarli oltre la nostra misura.
    Non sono il nostro sogno, l'immagine su cui ci misuriamo quando cerchiamo di parlare di noi a noi stessi.
    Sono bravissimi; e basta. Sono lontani: esseri di un altro pianeta, da cui difendere il nostro perbenismo saccente.
    L'operazione è gratificante. Il nostro impegno etico è gestibile e governabile, proprio perché è proiettato su misure accessibili e poco inquietanti. Il cristiano, invece, confessa di voler sognare davvero in grande.
    Il suo modello, quello su cui misura la propria libertà e responsabilità, è fuori misura. Si chiama Gesù di Nazaret. Quando parla di speranza, si confronta con Gesù inchiodato sulla croce perché tutti abbiano la vita. Se parla di perdono, pensa a lui; come pensa a lui quando si chiede cosa significa essere liberi, puliti, sinceri, innamorati della vita, della pace, della giustizia.
    Il volto di Gesù gli appare tutto punteggiato dai volti, un po' più vicini ma non meno provocanti, dei grandi credenti: Maria, che gioca i suoi progetti sulla parola dell'angelo e rinuncia al figlio per regalarlo agli altri uomini; Francesco d'Assisi, che danza gioioso con la vita e con la morte, libero persino dagli abiti che il padre gli aveva regalato; Ignazio di Loyola e Francesco Saverio, pieni di una passione battagliera per la causa di Gesù; Giovanni Bosco, consumato nella carne e nella dignità per restituire gioia di vivere e capacità di sperare ai ragazzi più poveri; uomini e donne, sprofondati nel silenzio di una cella per essere pienamente nelle mani di Dio.
    Il cristiano che vuole trasformare la sua esperienza di fede in esperienza etica sogna in grande, perché si confronta con esigenze morali che hanno la dimensione provocante di questi amici.
    Un confronto come questo mette impietosamente in crisi. Ci lascia sempre con il fiato rotto. Sentirsi colpevoli di tradimento è esperienza facile e immediata.
    La mèta che ci siamo dati (in un momento di esaltante follia?) è tanto alta che non possiamo mai sederci a contemplare il cammino percorso: troppa strada resta ancora da faticare.
    Sognare in grande è un sacrificio: schiaccia la libertà e l'autonomia personale. La consegna in un atteggiamento volontario di obbedienza.
    Obbedienza è la parola giusta, anche se brucia mentre la pronunciamo.
    Misurarsi con questi modelli non è un gioco adolescenziale, che rientra appena uno supera i facili entusiasmi nella raggiunta maturità.
    Il cristiano, che vuole essere «uomo», sa che solo Gesù è la verità dell'uomo. Chi meglio lo ha imitato, maggiormente ha conquistato la sua verità.
    In gioco c'è la verità: questa esige il sacrificio della libertà personale.
    Il cristiano, però, sa che si tratta di un sacrificio «beatificante».
    Gesù non è colui che aspetta in fondo alla strada dell'impegno, pronto a battere le mani a chi ci arriva e a colpire chi si perde per via. Lui è la nostra forza. La sua vita ci pervade così intimamente da farci costatare, con la stessa gioia di Paolo: «Tre volte ho supplicato il Signore di liberarmi da questa sofferenza. Ma egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole» (2 Cor 12,19).
    Non siamo bravi perché riusciamo a diventarlo. Lo siamo perché ritroviamo il coraggio di desiderarlo ardentemente e consegniamo impegno e sogno al nostro Dio. La coscienza della nostra finitudine si fa tanto più lucida quanto accettiamo di misurarci su esigenze più impegnative. Dal profondo di questa esperienza invochiamo le braccia accoglienti di Dio. Ci sentiamo immersi nel suo amore, che ci perdona e ci riempie di vita.
    Noi siamo diventati ormai il nostro sogno. Non siamo quello che riusciamo a produrre, giorno dopo giorno. Siamo quello che desideriamo diventare.
    La forza di crescere non consiste nella consapevolezza di quello che siamo o nella presunzione di quello che dobbiamo diventare. È il dono di Dio, intimo ormai a noi stessi più della nostra stessa vita.
    L'uomo non diventa virtuoso perché si butta a capofitto in uno sforzo personale. Diventare uomini virtuosi è invece il risultato di una libera e amorosa obbedienza all'azione dello Spirito di Gesù.
    Siamo uomini virtuosi perché acconsentiamo di rinunciare ad appoggiarci sulle nostre forze per consegnarci nella nostra debolezza alla potenza dell'amore.
    È una scommessa, come è tutta la nostra vita e la nostra fede. Scommettere così è bello: il sacrificio diventa beatificante.


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