Vivere di fede nella vita quotidiana /2
Il fondamento
della nostra fede:
viviamo nello
Spirito di Gesù
Riccardo Tonelli
Mi sono messo alla scuola degli uomini che cercano ragioni per vivere e per sperare, e ho scoperto una dimensione impegnativa dell'esistenza: ci diamo la vita, gli uni agli altri, quando ci aiutiamo a possedere la morte.
La morte, quella che viene a rubarci quotidianamente frammenti della nostra gioia e quella terribile che ci travolge in un momento improvviso dell'esistenza, è un compagno di viaggio di cui non possiamo sbarazzarci. Ci inquieta e ci interpella. Vivere di fede significa possedere ideali, ragioni e uno stile di esistenza che ci renda capaci di vivere nella gioia e nella speranza, anche in sua compagnia.
Una esperienza come questa ha sempre un poco il sapore dell'avventura. I conti non tornano mai pienamente quando affermiamo che la vita trionfa sulla morte e che la speranza ha una radice sicura, nonostante le mille ragioni di disperazione che attraversano l'esistenza.
Un fatto, però, colpisce sempre, e non bastano di sicuro le battute facili e saccenti per cancellarlo: ci sono uomini un po' «strani» che hanno gridato, nella gioia e nel dolore, «per me vivere è Cristo, e il morire un guadagno» (Fil 1, 27). Come mai? Chi ha dato a questa gente una forza che potrebbe suonare presuntuosa se non fosse confortata da gesti che lasciano con il fiato rotto?
La risposta viene da una delle costatazioni più affascinanti che ci giunge dal silenzio del mistero di Dio: viviamo nello Spirito di Gesù. L'esperienza dello Spirito è la ragione che radica la nostra fede e la nostra speranza su una roccia capace di resistere all'onda impetuosa del vento e della tempesta.
Meditando su questo fondamento che tutto fonda, possiamo finalmente immergere la nostra fede nel mistero di Dio. La fede diventa fede cristiana.
1. SIAMO «CREATURE NUOVE»
La nostra vita si porta dentro un grande segreto.
Ce lo ricorda una bellissima testimonianza di Paolo, riportata nel cap. 8 della Lettera ai Romani: «Voi [...] vi lasciate guidare dallo Spirito, perché lo Spirito di Dio abita in voi. Ma se qualcuno non ha lo Spirito donato da Cristo, non gli appartiene. Se invece Cristo agisce in voi, voi morite, sì, a causa del peccato, ma Dio vi accoglie e il suo Spirito vi dà vita. Se lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, lo stesso Dio che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche a voi, sebbene dobbiate ancora morire, mediante il suo Spirito che abita in voi. [...] Quelli che si lasciano guidare dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto in dono uno spirito che vi rende schiavi o che vi fa di nuovo vivere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito di Dio che vi fa diventare figli di Dio, e vi permette di gridare Abbà, che vuol dire Padre, quando vi rivolgete a Dio. Perché lo stesso Spirito ci assicura che siamo figli di Dio» (Rm 8, 5-17).
Meditiamo questa pagina con calma e libertà.
1.1. È finita la paura della morte
Nel cap. 7 della Lettera ai Romani Paolo parla della sua paura di fronte alla morte. Lo fa in modo serio, andando alla radice dell'esperienza.
Fariseo, zelante e impegnato, si fidava ciecamente della legge. Ma si è trovato presto deluso. Confrontato con esigenze impegnative, Paolo constata la sua fragilità. Ne ha paura, perché s'accorge quanto questa incoerenza sia radicata in lui. Fa ormai parte del suo vivere: ci vede chiaro di fronte agli obblighi della legge, ce la mette tutta per osservarli fedelmente; e si trova sempre a fare i conti con i suoi tradimenti. «Io sono un essere debole, schiavo del peccato. Non riesco nemmeno a capire quello che faccio: quello che voglio non lo faccio, faccio invece quello che odio» (Rm 7,15).
L'esperienza di Paolo è molto vicina a quella che facciamo tutti i giorni anche noi. La legge non produce vita; non ha mai salvato nessuno. Serve solo a inchiodare la persona al proprio peccato; è fatta per scoprire quante volte non la osserviamo correttamente. Dice ancora Paolo, con molta amarezza: «Quando venne il comandamento, il peccato prese vita, e io morii. E così la legge che doveva condurmi alla vita, nel mio caso invece mi ha condotto alla morte» (Rm 7,9-10).
Il baratro della morte gli si spalanca davanti, come esito del suo peccato. Ha paura. E grida disperato: «Me infelice! La mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi mi libererà?» (Rm 7,24).
Dal profondo della sua angoscia, riscopre Gesù, il suo Signore e Salvatore: «Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, Signore nostro» (Rm 7,25).
Rimedita il dono grande e insperato della sua presenza. Una novità radicale è entrata nella nostra storia: «Siamo morti nei confronti della legge che ci teneva in suo potere: non siamo più al suo servizio. Per questo, non serviamo più Dio secondo il vecchio sistema che era fondato sulla legge scritta, ma lo serviamo in modo nuovo, guidati dallo Spirito» (Rm 7,6).
Il cap. 8 è un inno, entusiasta e sorpreso, alla potenza di Dio che ci fa «creature nuove» in Gesù.
Il brano che ho citato sta al centro di questo grido di gioia. Paolo dice forte la sua esperienza: abbiamo vinto la morte. Non possiamo più avere paura. Essa resta, inesorabile come un nemico in agguato. Ma ormai ha le armi spuntate: è un nemico vinto e legato. La vita può essere vissuta in piena fiducia.
La ragione è il dono dello Spirito di Gesù: «La legge dello Spirito che dà la vita, per mezzo di Cristo Gesù, mi ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). Viviamo nello Spirito di Dio. Egli è la sorgente della vita; è la forza che ci fa riconoscere Dio come Padre; è quel frammento della vita stessa di Dio, che ci fa diventare pienamente figli suoi, come lo è Gesù di Nazaret.
1.2. Il dato prima della sua consapevolezza
Un oggetto che due amici si scambiano assume un valore che va oltre quello materiale. Non è legato alla cosa donata, ma all'atto del donare. Ciò che fa cambiare il valore dell'oggetto è infatti lo scambio di intenzioni che si realizza nel momento del dono. lo so chi è il donatore e so perché me lo offre. Così l'oggetto diventa davvero diverso. In sé è lo stesso oggetto, che può essere scambiato per mille differenti ragioni: un bacio può dire amore, egoismo, tradimento. Per la circostanza speciale in cui è utilizzato, l'oggetto esprime simbolicamente un rapporto interpersonale. Anche se in sé non è proprio una gran cosa, dal momento che me l'ha regalato una persona a cui io voglio bene, vale tantissimo. E ne sono felice.
Quando diciamo che siamo diventati figli di Dio nello Spirito che ci è stato donato, siamo a questo livello? Dobbiamo cioè aggiungere subito, per precisione: siamo così se lo sappiamo e se ci impegniamo a riconoscerlo nei fatti.
Oppure, al contrario, la novità di vita, che ci libera dalla paura della morte perché ci immerge nello Spirito di Dio, ci afferra e ci travolge tutti, come un dono che vale per se stesso?
Il documento che ho citato dà una risposta molto precisa e sicura: nello Spirito di Gesù siamo «già» creature nuove. Lo siamo non perché lo sappiamo e ne siamo contenti; lo siamo perché Dio ci ha fatto il dono di diventare nuovi.
I testi della fede della Chiesa apostolica Io ripetono continuamente.
Cito, tra i tanti, la prima Lettera di Giovanni. Questo lungo, meditato canto dell'amore di Dio nasce dal contatto diretto con Gesù, che di questo amore è la manifestazione definitiva: «La Parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l'abbiamo udita, l'abbiamo vista con i nostri occhi, l'abbiamo contemplata, l'abbiamo toccata con le nostre mani. La vita si è manifestata e noi l'abbiamo veduta. Siamo suoi testimoni e perciò ve ne parliamo» (1 Gv 1-2). Pone al centro la bella notizia: «L'amore vero è questo: non l'amore che abbiamo avuto verso Dio ma l'amore che Dio ha avuto per noi; il quale ha mandato Gesù, suo Figlio, per farci avere il perdono dei peccati» (1 Gv 4,10). E si conclude con una affermazione da capogiro: «Non avremo più paura davanti a Dio. Anche se il nostro cuore ci condanna, Dio è più grande del nostro cuore» (1 Gv 3,29-30).
Dobbiamo ripeterci questa esperienza come un dolce ritornello, perché riguarda una dimensione dell'esistenza che sfugge alle nostre abituali regole di comprensione e che resta mistero grande.
Dio ci ha amato per primo e ci ha amato per quello che siamo. Non ci ha chiesto di convertirci per poterci amare. Non ha posto condizioni. E non ha avanzato pregiudiziali. Ci ha amato, e basta. Tutto il resto è l'esito del suo amore.
Certo, dobbiamo cambiare vita, dobbiamo imparare a vivere da figli di Dio nel ritmo della nostra esistenza quotidiana. Lo dobbiamo fare «perché» Dio ci ama, e non per conquistare il suo amore. L'impegno personale è l'esito, non il titolo di acquisto.
Questo è molto bello. E ci riempie di coraggio, nonostante la fragilità che continuiamo a sperimentare nella nostra vita.
Dice ancora Paolo, per tirare le conclusioni dell'esperienza meravigliosa di cui è stato testimone: «Che cosa diremo dunque di fronte a questi fatti? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Dio non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi; perciò come potrebbe non darci ogni cosa insieme con lui? [...] Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Sarà forse il dolore o l'angoscia? La persecuzione o la fame o la miseria? I pericoli o la morte violenta? [...] In tutte queste cose noi otteniamo la più completa vittoria, grazie a colui che ci ha amati» (Rm 8,31-37).
2. L'ESISTENZA NELLO SPIRITO
Facciamo fatica a prendere sul serio il dono dello Spirito: a riconoscere che sulla sua potenza siamo diventati veramente «creature nuove». L'abbiamo nel sangue la tentazione del fariseo che prega felice il suo Dio perché finalmente è riuscito a osservare tutte le leggi, a forza di impegno duro e di un sacco di buona volontà (Lc 18,9-14).
Il massimo che riusciamo a fare, quando siamo catturati da questa logica, è pensare che dobbiamo metterci noi alla ricerca dello Spirito, interrogarlo, lasciarci ispirare, chiedergli di parlare... Sentiamo inquietante la preoccupazione di Paolo: «Mi è stata inflitta una sofferenza che mi tormenta come una scheggia nel corpo. [...] Tre volte ho supplicato il Signore di liberarmi da questa sofferenza». Ma ci dimentichiamo della conclusione che egli stesso ci propone: «Ma egli mi ha risposto: Ti basta la mia grazia. La mia potenza si manifesta in tutta la sua forza proprio quando uno è debole» (2 Cor 12,7-10).
Dobbiamo riflettere ancora un poco sul dono dello Spirito. Penetrando, con lo sguardo della fede, nel mistero che ci avvolge, possiamo meglio condividere la raccomandazione conclusiva di Paolo: «Se è lo Spirito che ci dà la vita, lasciamoci guidare dallo Spirito» (Gai 5,25).
2.1. «Avevo fame, e mi hai dato da mangiare»
Lo Spirito è il dono grande dell'amore di Dio: in lui abbiamo la vita.
Il dono di Dio precede la nostra libertà. La sostiene e le permette un'espressione intensa e autentica. La sollecita, però, in una decisione di accoglienza o di rifiuto. Per questo il dono dell'amore di Dio richiede sempre una risposta, libera e responsabile.
Non basta certamente una risposta generica o interlocutoria, come quella che sappiamo dare quando non vogliamo impegnarci eccessivamente. La risposta deve essere piena, totale, convinta, anche se, come tutte le decisioni umane, è chiamata a crescere in consapevolezza e in intensità.
Quale risposta siamo chiamati a dare al dono dello Spirito di Dio?
La fede cristiana sottolinea un punto di riferimento fondamentale: accogliamo Dio che ci chiama quando ci impegniamo a costruire vita attorno a noi.
La responsabilità per la costruzione o la distruzione della vita è affidata alle mani operose dell'uomo; in ogni momento della nostra esistenza operiamo scelte in cui è in gioco la qualità della vita. Questi stessi gesti e gli atteggiamenti interiori che li sostengono esprimono concretamente il nostro sì a Dio che ci chiama alla vita nuova; oppure dicono il nostro rifiuto al suo invito.
Il confine tra l'accoglienza di Dio o il suo rifiuto c determinato perciò dall'autenticità personale: dall'impegno per la promozione della vita e dal perse2.1_timento del bene morale, conosciuto in modo soggettivamente adeguato.
Queste affermazioni si fondano sulla consapevolezza che l'umanità di ogni uomo è diventata, in Gesù, il luogo dove Dio si fa presente nella nostra storia. Per allontanare ogni dubbio sulla loro autenticità, basta rileggere il racconto del «giudizio finale», nel vangelo di Matteo: «I giusti diranno: Signore, ma quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo incontrato forestiero e ti abbiamo ospitato nella nostra casa, o nudo e ti abbiamo dato i vestiti? Quando ti abbiamo visto malato o in prigione e siamo venuti a trovarti? E il re risponderà: In verità, vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me!» (Mt 25,37-41).
La constatazione è fondamentale: solo a questa condizione il dono dello Spirito è offerto veramente a tutti gli uomini. Ciascuno lo può accogliere o rifiutare in una decisione che investe pienamente la sua responsabilità. Se Dio ci chiedesse una risposta che faccia riferimento esplicito allo Spirito di Gesù, molti uomini ne sarebbero esclusi, senza eccessiva colpa personale. Non conoscono Gesù e non possono apprezzare il dono del suo Spirito.
Quando ci riferiamo esplicitamente a Dio — riconoscendo che nelle piccole cose della nostra vita quotidiana lo scegliamo come il Signore o decidiamo di rifiutare la sua presenza — non aggiungiamo nulla a un dato che è già, naturalmente, la sua scelta o il suo rifiuto. Soltanto chiamiamo per nome quello che siamo.
Conoscere il senso della propria esistenza non è piccola cosa. Al contrario, rappresenta una condizione decisiva per crescere come adulti. Però non è la conoscenza la cosa determinante. E non è neppure l'impegno che mettiamo quello che decide la presenza di Dio nella nostra vita. Conoscenza e impegno sono il frutto di una presenza che ci investe e ci trasforma più radicalmente.
Sono, in qualche modo, il frutto più maturo del dono dello Spirito, ciò che ci permette di portare a compimento quella novità di vita che ci è offerta come un piccolo seme che cresce in albero grande, sulla forza che si porta dentro, anche se lunghi inverni devono passare prima della sua espressione più rigogliosa.
2.2. Un problema serio di «autenticità»
Maturati in queste consapevolezze, possiamo fare un passo in avanti, nella meditazione del dono dello Spirito di Gesù.
Le nostre decisioni avvengono secondo modalità che ormai conosciamo abbastanza bene. Di fronte alla nostra libertà e responsabilità si aprono sempre alternative differenti. Riconosciamo di essere costituiti nella libertà proprio perché non siamo sollecitati in modo rigido verso un oggetto unico di scelta.
Certamente siamo chiamati a scegliere ciò che risulta bene e a rifiutare ciò che invece è male: a scegliere cioè la vita contro la morte. Ma non è proprio facile constatare da che parte sta il bene e la vita e da che parte sta la morte. Ci giochiamo sempre in uno spazio personalissimo di decisione, rischiando e inventando. Alla prova dei fatti, spesso ci viene da dire: se potessi tornare indietro... la prossima volta sceglierò diversamente.
In questo gioco di libertà e di responsabilità è coinvolto il mistero di Dio. Lo scegliamo come il Signore e costruiamo un pezzo del suo regno.
E se poi avessimo sbagliato scelta? Se fosse stato meglio scegliere il contrario?
Non siamo in causa solo noi. In qualche modo, chiamiamo in causa il progetto di Dio sulla vita. Ci viene il timore di costringerlo... a fare scelte sbagliate.
Chi orienta la decisione della nostra libertà verso quel progetto normativo che è il progetto di Dio? Cosa ci assicura di agire alla luce di Dio?
2.3. «Dall'esperienza dello Spirito»
Riporto come risposta una citazione interessante. È di un grande teologo, che ha meditato a lungo su questi problemi.
«Il devoto ingenuo di tutti i giorni, per lo più, non avrà qui nessuna grave difficoltà e neppure deve essere turbato in questa sua spregiudicatezza. Egli ha l'impressione che in una tale scelta Dio gli "dica" quale oggetto debba scegliere tra i tanti possibili, che lo "illumini" e lo "ispiri", in modo che sappia chiaramente quale sia concretamente la "volontà di Dio". Ma questo non può essere accettato, in via normale: ci si può immaginare che questa determinazione dell'oggetto di scelta, hic et nunc giusto, non avvenga mediante un intervento puntiforme di Dio. Questa sarebbe infatti una vera e propria rivelazione privata. La teologia non ammette rivelazioni nuove, neppure nelle decisioni supreme che si devono prendere nella vita della Chiesa. La riflessione teologica dà oggi questa risposta: la determinazione della decisione esistenziale è resa possibile dalla sintesi, realizzata nel profondo di ogni persona aperta e disponibile alla verità e alla autenticità, tra l'esperienza trascendentale dello Spirito e l'incontro con l'oggetto categoriale, presentato qui-ora alla libertà» (K. Rahner).
Il documento non è di facile lettura. Soprattutto le ultime righe sono scritte in gergo. Se lo leggiamo con calma, ci scopriamo però indicazioni preziose. Escludono un modo abbastanza diffuso di risolvere la questione e aprono verso una prospettiva veramente affascinante.
La citazione ci ricorda il fatto già tante volte sottolineato: lo Spirito abita in noi. Non siamo noi in trepida ricerca di una realtà lontana. Al contrario, pensiamo, progettiamo, agiamo e viviamo «dall'esperienza» dello Spirito: la novità di vita che ci permette di superare la paura della morte e ci restituisce alla gioia di riconoscere Dio come Padre, sta nel fatto che viviamo già immersi nello Spirito.
Questo l'abbiamo già contemplato, meditando qualche pagina della Lettera ai Romani.
La citazione ci dice anche qualcosa di nuovo per comprendere, come siamo capaci, in che cosa consista l'esperienza dello Spirito, proprio in ordine ai problemi su cui stiamo riflettendo.
Possiamo scegliere davanti a Dio perché siamo «guidati» dallo Spirito di Gesù.
L'esperienza dello Spirito non è un influsso di Dio dall'esterno dell'uomo, né comporta il confronto con una proposta esperimentata in modo riflesso nella propria coscienza. Essa invece consiste nel fatto che Dio si è comunicato tanto intensamente e profondamente all'uomo da essere quella forza misteriosa che ci costituisce persone segnate dalla trascendenza, aperte verso la vita stessa di Dio. L'esperienza dello Spirito è la vita di Dio comunicata all'uomo, attraverso cui si realizza quasi una collaborazione operativa con Dio in ogni gesto della nostra vita.
Quando siamo chiamati a scegliere, come capita di fatto in ogni frammento della nostra esistenza, noi scegliamo nella libertà e responsabilità personale: le nostre sono sempre scelte autonome. Dio sostiene la conoscenza e la libertà dell'uomo fino a orientare le nostre decisioni verso scelte alla luce di Dio.
La libertà personale non viene soffocata, ma potenziata: questo è il bello di una presenza intimissima e misteriosa come è quella di Dio nella nostra vita. Proprio perché restiamo fondati nella libertà e nella responsabilità, abbiamo ogni giorno incombente la possibilità triste del tradimento e del peccato.
Questa presenza di Dio, intensa e misteriosa, è l'esperienza dello Spirito.
2.4. È un po' come quando ci si vuoi bene
Ho cercato di descrivere l'esperienza dello Spirito con le parole, un po' complicate, della riflessione teologica. Le ho trovate a fatica, perché non bastano davvero le espressioni della scienza per esprimere correttamente un frammento importante del nostro vissuto.
Provo a riesprimere il tutto con un'immagine che ci è più familiare: l'amore.
Due persone che si vogliono bene sono presenti l'una all'altra anche quando non lo sono fisicamente. Nelle scelte più impegnative, come in quelle che punteggiano il ritmo del quotidiano, la persona amata è presente: ispira, sostiene, incoraggia, conforta, critica. Non è necessario cercare un contatto fisico per sapere che fare. Lo si sente dentro; e basta.
Qualche volta l'ispirazione viene soffocata, la voce spenta. Allora però ci si sente colpevoli di tradimento.
Ciascuno ha una sua autonomia di giudizio e di azione. La serietà dell'amore lo esige e l'intensità lo invoca.
Ogni persona decide però alla luce dell'altra, impegnata quasi a rendere conto della propria decisione, per poterla difendere a testa alta. Egli decide autonomamente, ma decide sempre di fronte alla persona che ama.
Non la deve interpellare. È già presente, come ispirazione ultima e decisiva.
Questa è un po' l'esperienza dello Spirito.
La parabola dell'amore non può essere forzata. Nell'ispirazione dell'amore il processo resta sempre sul piano intenzionale e affettivo. La presenza è solo «come se» fosse presente.
La presenza di Dio nella nostra vita è invece un fatto reale e concreto, anche se non lo possiamo sperimentare come facciamo di solito nei rapporti con amici.
La differenza è notevole. Non abbiamo però altre parole per accedere al mistero di quelle povere delle nostre esperienze quotidiane. Le usiamo sempre con trepidazione. Un po' meno in questo caso. Non è lo Spirito di Gesù una profonda e intensa esperienza d'amore?
3. L'AUTOREVOLEZZA DI DIRE COSE TANTO IMPEGNATIVE
Gente seria come siamo e vogliamo essere noi, non si accontenta di dire: è bello scoprirci pieni dello Spirito di Gesù e, per questo, nuove creature, capaci di vivere nella fede. Ci viene spontaneo chiedere: chi ci assicura che le cose stanno davvero così?
I cristiani di tutti i tempi hanno gridato forte il nome di Gesù di Nazaret: egli è la parola di Dio sul mistero di Dio e dell'uomo, il fondamento sicuro, «la pietra più importante» (11/ft 21,42), su cui radicare ogni esperienza di fondamento. Egli è il grande testimone, degno di fiducia, a cui possiamo affidare la nostra ricerca di ragioni per vivere.
Gesù sembra un avvenimento, sprofondato in tempi lontani. Possiamo affidargli la nostra speranza?
Esiste una catena ininterrotta di testimoni che da Gesù di Nazaret, parola del Padre, attraverso gli apostoli e la Chiesa delle origini, giunge fino a noi nella Chiesa di oggi. Ho citato ripetutamente Paolo. Egli è un testimone molto importante della nostra fede, per l'autorevolezza specialissima con cui ci parla.
Noi crediamo sulla parola di questi testimoni.
Essi sono il collegamento tra noi e Gesù di Nazaret, gli anelli di quella lunga catena di testimoni che ci porta lontano, fino al mistero di Dio che Gesù ci ha raccontato.
Questa è la natura della fede. Le ragioni che ci permettono di credere alla vita e di amarla ci sono offerte «per testimonianza»; accettiamo il rischio di un'operazione come questa e ne condividiamo l'esito perché stimiamo «degni di fiducia» questi credenti.
Alla radice non c'è una prova inconfutabile, come sono quelle che le scienze esatte cercano di produrre. Alla radice c'è una testimonianza di vita: una persona che parla nell'entusiasmo di quello che ha vissuto.
È interessante rileggere le parole del Vangelo di Giovanni (1,14) e della sua prima lettera (1,1). Giovanni fonda la sua fede e la sua predicazione nel fatto di aver «visto», «udito», «toccato» in prima persona. La sua fede, che si fa proposta per suscitare la fede di altri, non è solo visione interiore nel dono dello Spirito: è prima di tutto esperienza concreta e diretta, frutto di un incontro personale.
La comunità apostolica ha creduto perché ha visto. Su questa fede chiede a noi di credere «anche senza vedere» (Gv 20,29). Attraverso la testimonianza di coloro che hanno visto e udito di persona possono continuare a credere coloro cui non è più dato di vedere e udire direttamente.
C'è un gioco prezioso di autorevolezza, capace di suscitare libertà e responsabilità. È fondata sulla testimonianza di chi si riconosce, con coraggio e fierezza, al servizio di eventi più grandi di lui, di cui è stato protagonista per un dono dall'amore di Dio (Gal 1,1-3; Col 1,25-26). La credibilità non viene dalla raffinata sapienza dell'annunciatore; non è fondata nella sua capacità dialettica né sulla trama intricata del potere; non è neppure giustificata sulla prova dei fatti (1 Cor 1,17-30). Si fonda solo sulla sapienza che viene da Dio, di cui l'annunciatore è testimone e servitore.
Questo modello di autorevolezza rompe il cerchio dell'indifferenza e suscita attenzione. Non impone, ma chiama al coraggio del confronto. Serve quel cammino di fede che ciascuno esprime nella solitudine della sua esistenza.