(NPG 1975-09/10-2)
Coloro che operano nella scuola stanno sempre più assumendo la consapevolezza, ampia e riflessa, della loro funzione educativa. Hanno scoperto che non può esistere una trasmissione neutrale di cultura. Di qui la responsabilità di un rapporto interpersonale «collocato» e gli interrogativi relativi alla definizione di educazione. Ci si sente insomma necessariamente educatori, perché insegnanti; anche se rimangono molte domande sul significato dell'essere educatori.
Questa importante scoperta ne ha indotta una successiva. Quando il rapporto educativo è lasciato al caso e allo spontaneismo assoluto, si corre facilmente il rischio di procedere a sbalzi e sussulti, bruciando troppe energie preziose. Anche perché il processo non avviene in una campana di vetro. La cultura dominante è ben precisa e articolata. E di essa trasudano quasi tutti gli strumenti didattici: la lezione cattedratica, il voto, la codificazione dei ruoli, la divisione dei compiti e la parcellizzazione delle materie, l'esclusione dalla scuola dei non addetti ai lavori... Nasce il bisogno di programmazioni educative, attente, organiche, ben strutturate.
La programmazione è risposta «elaborata» alla coscienza di essere, sempre e comunque, educatori. La programmazione è la logica conseguenza dell'impegno a gestire, in termini corretti, il proprio ruolo. Èuna decisione politica: lo sforzo di progettare interventi educativi, alternativi a molti stimoli ricorrenti, con
una coerenza interna capace di arginare l'irruenza delle proposte che già tutti ci involvono.
UNA PROPOSTA PER CHI CREDE ALLA PROGRAMMAZIONE
Per molti educatori si tratta di un discorso ormai pacifico.
Le difficoltà sono altrove. Programmare, d'accordo. Ma «come»? «Come» significa tante cose: chi deve programmare, con quali strumenti, verso quali obiettivi, programmare e verificare? La monografia è una nostra timida risposta all'onda di questi grossi problemi.
Destinatari
Abbiamo fatto una precisa scelta, per evitare discorsi generici e inutili.
Parliamo della programmazione educativa nella scuola media. E cioè:
– abbiamo scelto come ambito specifico il preadolescente nel momento strettamente scolastico;
– superando però la dimensione tecnica-didattica, per raggiungere quella «educativa», che coinvolge la sua crescita in quanto persona, attraverso l'apprendimento «culturale».
Materiale di lavoro
La nostra proposta emerge soprattutto attraverso due interventi complementari:
– una rassegna di esperienze, diverse per peso, globalità e oggetto: si tratta di materiale abbastanza informale da cui ogni educatore può «indurre» un suo modo di fare la programmazione;
– una serie di «studi», strutturati all'interno di alcune scelte di fondo. Essi formano l'apparato teorico con cui confrontarsi per imbastire in termini corretti la programmazione. «Corretti», perché tengono conto della realtà del soggetto e di alcune piste oggettive.
Una visione educativa globale
Questa nostra monografia si rivolge a coloro che credono alla programmazione. Non ci siamo preoccupati di dimostrarne l'importanza. La diamo per scontata, partendo da presupposti,
alla cui fondazione abbiamo dedicato molte pagine, in altri contesti (cfr Note di Pastorale Giovanile, 1968 /8-9 e 1969 /8-9).
Abbiamo però una recondita speranza. La lettura positiva e disponibile di queste pagine potrebbe convincere qualche recidivo..., se è capace di superare la visione burocratica e formale dei piani didattici. Per cogliere la dimensione umana da cui devono essere animati: strumenti per la crescita globale del ragazzo, al cui servizio è consacrata la scuola, la cultura, la legge, tutto di noi.
PER LEGGERE LE ESPERIENZE
Molte pagine di questo nostro discorso sulla programmazione educativa sono dedicate alla presentazione di «fatti»: esperienze e schede di lavoro. Gli studi sono stati progettati «dopo»: come loro lettura globale, sintesi e integrazione dei molti interessanti aspetti che emergono.
Le esperienze non sono una velina da riprodurre di peso nella propria gestione educativa. Non vanno lette in questa ottica. C'è il rischio di concludere con una ulteriore frustrazione o con un salto utopico: finalmente la realizzazione di un modello sognato tra le mille quotidiane difficoltà...
Ogni esperienza è prima di tutto una raccolta di gesti, di scelte, di problemi risolti e di nuovi interrogativi. Su questi, come singoli e come insieme, è possibile impostare un confronto ed una verifica.
Prima di indicare alcuni di questi «significativi» che, secondo noi, meritano un'attenzione particolare, vogliamo tratteggiare due atteggiamenti di fondo con cui tentare un approccio a queste pagine.
Far emergere significati concreti
Leggiamo l'esperienza e scopriamo alcuni gesti interessanti.
Il resoconto della scuola media statale «M. Luther King», per esempio, parla di interclassi, di collegamento tra materie curriculari e extracurriculari, di tempo a piena integrazione... e di molte altre cose.
Tante proposte, affascinanti quanto inutili, se non vengono «storicizzate», legate cioè al qui-ora concreto di ogni situazione scolastica.
Come mettere in azione questa importante operazione?
A costo di ripetere cose scontate, tentiamo un elenco di passaggi:
1. Cogliere il significato presente nel gesto: perché (per raggiungere quali obiettivi) è stato fatto quella determinata scelta? A che mira: immediatamente e remotamente?
2. Confrontare quegli obiettivi con i propri: noi, concretamente, che cosa vogliamo raggiungere? Le nostre scelte, a questo proposito, dove mirano, a quali conseguenze conducono?
3. Operare una decisione: concludiamo «accettando» oppure «rifiutando» la proposta che emerge da quei gesti? Quali obiettivi assumiamo?
4. Per raggiungere questo nuovo obiettivo, quali strumenti utilizzare, nella nostra concreta situazione? Quali scadenze progettare?
5. L'attuale struttura scolastica (insegnanti, alunni e genitori, ambiente...) quali livelli di reale accettabilità ha nei confronti di questo obiettivo? Saranno mediamente in accordo o in disaccordo, e perché?
6. La stratificazione sociale, innegabilmente presente in «questa» situazione come in ogni altra, favorisce o sfavorisce la realizzazione di questi obiettivi? Strutturalmente (a livello cioè di fatti che superano la consapevolezza personale o la buona-cattiva volontà dei singoli) che reazioni si avranno, positive e negative?
7. Quali cambi strutturali bisogna progettare perché il raggiungimento dell'obiettivo sia possibile, consolidato, allargato, condiviso?
Si tratta di un cammino impegnativo. Lette in fretta, queste battute, possono dare l'impressione di una smania di complicazione a tutti i costi. L'esperienza e la riflessione di molti operatori confermano invece che la realizzazione di nuovi obiettivi è possibile solo all'interno di una precisa collocazione tecnica. Altrimenti il primo entusiasmo si affloscia presto e le forze frenanti hanno un facile sopravvento. I ragazzi, ancora una volta, sono ridotti al ruolo triste di «cavie» di una sperimentazione educativa, inconcludente perché improvvisata o troppo ideologica.
La programmazione passa attraverso strutture adeguate
Il secondo atteggiamento, previo alla utilizzazione matura delle esperienze, sta in una scelta operativa che ci piacerebbe dare per scontata. La riassumiamo in una battuta: ogni programmazione, se non vuole restare al livello di vuote parole, chiama in causa «strutture» adeguate.
Tentare un progetto educativo senza impiantare gli strumenti che Io possono sostenere, significa partire con il piede sbagliato. Quali strutture? Ogni comunità è chiamata a dare la sua risposta concreta. Ne vogliamo sottolineare soprattutto tre, presenti abbondantemente nelle esperienze trascritte, dando a «struttura» un significato ampio: una mentalità codificata.
1. Riunioni per creare convergenza di pareri. Ogni buona programmazione esige «unità» di intenti: sui valori da comunicare, sui metodi educativi, sulle scelte di fondo, sugli strumenti. Non sempre (qualche pessimista dice: raramente) questa unità è presente tra gli insegnanti di uno stesso istituto scolastico.
È indispensabile tendere a raggiungerla, creando una convergenza dinamica su alcuni dati di fondo. Lo scotto da pagare per raggiungere questo obiettivo sono le «riunioni». Senza mettere la gente assieme, attorno ad un tavolo, per discutere e confrontarsi, in un reciproco disponibile rispetto... è davvero impossibile creare «convergenze». La riunione è una struttura da costruire, se si vuole che la programmazione sia una cosa seria.
2. La «legge» al servizio delle persone. Troppe volte le personali impostazioni ideologiche e soprattutto una diffusa mentalità burocratica e legalistica affossano gli impegni educativi. Ci si trincera dietro il tabù delle disposizioni, delle responsabilità, dei programmi e dei registri... E l'educazione, il rispetto oggettivo delle persone, si stemperano in un vuoto rincorrersi di colpe. Bisogna decidere, una volta per tutte, e codificare la decisione: la legge o la persona?
3. Momenti di lavoro collettivo. La programmazione è un fatto comunitario. Che coinvolge tutte le forze operanti nella scuola. Una terza struttura indispensabile ad una programmazione non «retorica»: l'istituzionalizzazione di momenti di lavoro collettivo. A tutti i livelli: come interclasse per raggiungere una reale interdisciplinarietà; come organi di consultazione e di gestione; come impostazione di reali gruppi che spezzino la struttura rigida delle classi per collegare i ragazzi sulla maturità, gli interessi, le capacità...
Abbiamo indicato tre «strutture» che stimiamo indispensabili. Come si vede non si tratta spesso di cose nuove da impiantare, ma di una «mentalità» da costruire attraverso gesti e interventi programmati. Sembrano piccole attenzioni. Le esperienze che trascriviamo confermano invece che si tratta di elementi portanti. Capaci cioè di giocare l'autenticità o la retoricità di grossi piani programmatici.
UNA RASSEGNA DI COSE IMPORTANTI...
A conclusione di questa premessa, soprattutto di tipo metodologico, vogliamo evidenziare alcuni elementi che emergono dalle esperienze come una precisa provocazione a molte istituzioni scolastiche. Non lo facciamo per concludere il discorso. Ogni comunità educativa è invitata a ripetere questo nostro lavoro: riprendere in una lettura collettiva queste pagine, per interrogarsi sul proprio qui-ora concreto.
Il soggetto della programmazione
La programmazione educativa è opera di tutte le componenti reali, nessuna esclusa. Lo ricorda uno degli articoli, allargando ìl dettato dei «decreti delegati».
Le esperienze offrono spunti interessanti.
1. Gli insegnanti. La programmazione li chiama in causa tutti: come singoli e come insieme. Il risultato è apprezzabile se si riesce a raggiungere un indice alto di omogeneità: una visione comune e condivisa. Possiamo indicare tre stadi di omogeneità. Prima di tutto bisogna assieme «credere» alla scuola, alla sua funzione educativa e alla responsabilità che essa comporta. In secondo luogo bisogna credere agli «alunni» come primi e originali depositari di normatività e di impegno: le disposizioni burocratiche al loro servizio e non viceversa. In terzo luogo bisogna raggiungere una piattaforma condivisa di impostazioni ideologiche: cosa vuol dire educare? quale uomo vogliamo collaborare a costruire? come giudichiamo il rapporto tra cultura e vita? come giudichiamo il sistema sociale con le sue contraddizioni che pesa necessariamente sulla scuola?
2. I genitori. Una lunga tradizione dí deleghe rende difficile la presenza corresponsabile dei genitori nell'ambito scolastico. Se invece crediamo alla importanza della loro presenza, si rende indispensabile ricostruire una sensibilità. Dove? Certamente all'interno della scuola stessa. Molto però può essere fatto all'esterno. La comunità parrocchiale può diventare un luogo privilegiato di questo impegno.
3. I ragazzi. Anch'essi sono parte della programmazione: soggetto e non solo oggetto. Con un indice di partecipazione proporzionato alla loro maturità in divenire. L'amore educativo fa inventare i momenti e gli strumenti adeguati. Basta leggere in questa prospettiva quanto emerge dalla esperienza della scuola «M. Luther King».
Quale uomo?
A monte di ogni progetto educativo sta la domanda: quale uomo vogliamo collaborare a costruire?
Le pagine che seguono offrono molte risposte, generalmente stimolanti e innovative. Vanno lette e meditate con disponibile attenzione, per coglierne gli aspetti ritenuti positivi e per verificare quelli eventualmente valutati negativi o ambigui.
Ci muoviamo in un terreno incerto e difficile. La fede offre una precomprensione radicale sull'uomo. L'educatore cristiano
si ispira alla Parola del Vangelo per orientare il suo servizio verso l'uomo, alla luce del progetto di Dio. Ma il Vangelo offre uno sfondo normativo, una sensibilità globale, non una rassegna di particolari da applicare alle singole situazioni. Il servizio educativo, invece, è spesso questione di particolari. Di piccoli quotidiani gesti, dal cui insieme si ritaglia l'uomo maturo. La radicale ispirazione evangelica lascia perciò largo spazio all'inventiva storica delle comunità educative e dei singoli educatori. Quale uomo, dunque?
Alcuni dati sono ormai condivisi: la dimensione di comunitarietà (essere come essere «assieme»), la corresponsabilità e l'autogestione della propria vita nel servizio (essere come essere «per»), la necessità di pronunciare continui giudizi critici nei confronti della realtà, l'impegno a fare per cambiare... Esistono dati importanti, da prendere in considerazione quando ci si riferisce al mondo dei preadolescenti. Sono ulteriori termini di confronto per analizzare criticamente le esperienze presentate e per decidere la propria progettazione educativa.
1. Educare significa «decondizionare» (= liberare dai condizionamenti per una decisione libera e personale) oppure «anche» proporre valori, consapevoli che esistono dati oggettivi su cui pronunciare una decisione personale? Se è valida la seconda ipotesi (come crediamo), quali sono questi valori oggettivi, come proporli, come far crescere la libertà personale nel rispetto e nella accettazione di una verità che ha «diritti» sulla propria libertà?
2. La criticità è legata all'obiettività. Quale obiettività?
Soprattutto a livello di preadolescenti, si può parlare di reale obiettività, dal momento che il pensiero logico-formale sta in essi maturando, mentre l'obiettività richiede alta capacità di razionalità? Se questo è vero, non c'è il rischio di una nuova manipolazione, ammantata di grosse parole?
Quali alternative esistono?
3. La lettura della realtà comporta necessariamente un impegno per cambiarla. Si «capisce», facendo. Una programmazione che guidi alla lettura della realtà, deve progettare momenti operativi: impegni di tipo politico-strutturale, interventi collegati con le forze presenti in quella determinata situazione. Anche per i preadolescenti? E come? Alla tentazione del disimpegno e di una lettura formale della realtà non si potrebbe sostituire un pericoloso sussulto ideologico, in cui il ragazzo diventa strumento irrazionale nelle mani dell'educatore?
Non abbiamo voluto indicare la nostra risposta, ma solo elencare alcuni punti nodali. Gli interrogativi forniscono all'educatore attento una falsariga con cui leggere le pagine che seguono.
Un criterio di giudizio per valutare le molte scelte che emergono dai fatti concreti che stiamo raccontando.
Qualcosa si può fare
Non poche volte, il cumulo di proposte che affiorano da monografie operative, sfianca l'operatore. Lo stringe alle corde fino a fargli concludere: quante belle cose si potrebbero fare, se... E la danza dei «se» gli blocca la parola in gola. Tutto, presto, torna come prima.
Qualcosa invece si può fare. È la prospettiva con cui vogliamo concludere il nostro commento, prima di lasciare la parola ai protagonisti.
Le esperienze raccontano di cose vere. Non è la rassegna dei sogni. Si tratta di realizzazioni.
Oggi tutto funziona così bene che se ne può parlare ad amici. L'inizio è stato quello di sempre, di tutti. Un fiume di problemi, pochissimi mezzi, grosse difficoltà.
Con un salto qualitativo rispetto a molte situazioni scolastiche: la voglia di cambiare le cose e la coraggiosa messa in opera degli strumenti adeguati. Due atteggiamenti importanti. Pregiudiziali. La voglia di far funzionare la scuola significa credere alla scuola, sentire il peso di una drammatica responsabilità su persone concrete, in cammino verso una umanità nuova. Crederci assieme. Superando le analisi che rilanciano su altri colpe e responsabilità senza mai rimboccarsi le maniche, le mentalità burocratiche, il professionalismo e il corporativismo che mira al massimo rendimento con il minimo sforzo...
Il tutto, però, con serietà e qualificazione: progettando interventi, strutture, mezzi. Perché non è vero che basta un pizzico di buona volontà per cambiare il mondo. Ci vogliono strumenti adeguati.
Note di Pastorale Giovanileha già pubblicato molti interventi sul tema della «programmazione educativa», sia a livello metodologico (perchécome-quando programmare), sia a livello contenutistico (mete educative e pastorali).
Richiamiamo i riferimenti più diretti.
– Monografie sulla programmazione educativa nella scuola:
1967 /5: La parola, l'azione, la comunità nella scuola cattolica 1968 /8-9:La programmazione
1969 /8-9: Problemi di programmazione
– Monografie sulla educazione dei preadolescenti:
1971 /5: Preadolescenti, un problema agli educatori 1971 /6-7: L'animazione cristiana dei preadolescenti
– Un progetto articolato per l'educazione alla fede: 1974 /7-8 e 9-10: Feedback sulla fede
– Problemi di educazione dei preadolescenti:
1970 /2: Catecumenato e professione di fede nella preadolescenza 1970 /5 e 11: Preadolescenza, età da evangelizzare?
1973 /2: Per una impostazione organica della pastorale dei ragazzi 197 3/3: Per educare bisogna collaborare: ragazzi, famiglia, educatori 1973/5: Educazione cristiana dei ragazzi: opzioni fondamentali 1974 /3: Appunti per una pastorale dei preadolescenti
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