(NPG 1977-09-15)
La violenza sembra accompagnare ogni manifestazione della nostra vita.
I giornali riferiscono quotidianamente episodi di violenza che colpiscono l'opinione pubblica per il loro carattere distruttivo e cieco; rapine, assassini, sequestri di persona e ricatti, attentati e aggressioni, violenze carnali e ritorsioni, minacce e ferimenti sembrano costituire ormai l'ingrediente necessario della cronaca inquieta di questa epoca.
Al di là degli episodi isolati che colpiscono per la loro evidenza criminale, esiste una violenza non meno quotidiana, anche se meno avvertita e manifesta, che investe molti aspetti della vita collettiva.
È la violenza esercitata dalle strutture sociali che si impongono sulle singole persone e sui singoli gruppi, costringendoli alla accettazione passiva di regole di condotta che sono la misura dell'alienazione (cioè della perdita di libertà e creatività) dell'uomo moderno.
La violenza si manifesta in alcuni rapporti umani in cui è evidente lo sfruttamento e il dominio dell'uomo sull'uomo, il tentativo di creare o conservare situazioni di diseguaglianza, di privilegio, di sopraffazione.
Anche in contesti di vita collettiva in cui la violenza dovrebbe essere esclusa (come negli stadi, negli ospedali psichiatrici, negli istituti di rieducazione...) si verificano episodi di aggressività distruttiva e irragionevole.
Violenza criminale e violenza politica, violenza del sistema e violenza degli oppressi, violenza rivoluzionaria e violenza reazionaria, violenza manifesta e violenza latente.
Si tratta di sintomi di una transitoria malattia del nostro tempo o di una dimensione tragica e permanente della storia umana?
Come si colloca il cristiano in questa contraddittoria spirale di violenza.> Come «reagire» alla violenza?
FATTI
Siamo convinti che non c'è alcun bisogno di «documentare» l'esistenza della violenza, anche a livello giovanile. Questa volta, i «fatti» sono la cronaca quotidiana. Siamo tutti, tristemente, spettatori di episodi di violenza, politica o criminale che sia. Qualche volta, nell'ambito della nostra competenza o nell'esercizio delle nostre funzioni, ci sentiamo minacciati dalla tentazione della violenza: per difendere posizioni acquisite, per arginare la violenza degli altri, per modificare un sistema portatore di violenza istituzionalizzata.
La violenza è cronaca. Per questo suggeriamo alcuni «fatti» di cronaca. Possono servire per attivare un dibattito con i giovani, che li introduca nelle prospettive suggerite dal dossier.
I «fatti» però richiedono sempre una «lettura» per essere adeguatamente compresi. Nella loro «brutalità», solo apparentemente oggettiva, possono diventare nuovo strumento di manipolazione.
Come interpretare questi «fatti»? Come collocarli in riferimento al mondo giovanile? Essi esprimono l'attuale condizione giovanile o solo una sua tendenza minoritaria? Sono eccezione o la regola? Che peso effettivo esercitano gli «altri», quelli che a parole rifiutano queste manifestazioni di violenza? Rispondiamo agli interrogativi, riportando le conclusioni di una ricerca su
«i giovani e la violenza», condotta da un'équipe diretta dal prof. GC. Milanesi (in bibliografia abbiamo citato il testo, a cui ci siamo riferiti). I ricercatori hanno somministrato un questionario sulla violenza, ad un migliaio di giovani dai 16 ai 20 anni, un campione accidentale, ma dotato di caratteristiche sociologiche che lo rendono abbastanza equilibrato e rappresentativo dell'universo giovanile italiano.
Vengono tratte queste interessanti conclusioni:
1. Le opinioni dei giovani sulla violenza
Quanto alla violenza politica si possono identificare tre opinioni abbastanza distinte. La maggioranza dei giovani (attorno al 75%) respinge la violenza politica come strumento normale di azione sociale e politica. Una minoranza consistente, invece, (circa il 15-20 %) è disposta ad usare la violenza in casi eterogenei (dalla violenza rivoluzionaria alla violenza di ritorsione). Infine c'è una frangia (1-2%) che appare favorevole all'uso indiscriminato della violenza.
2. Giovani operai e violenza
Il campione utilizzato per la ricerca prevedeva un sottocampione specializzato, composto da giovani apprendisti. È interessante il confronto tra i dati generali e quelli relativi a questi giovani.
I giovani studenti appartengono in maggioranza ai ceti piccolo-borghesi e evidenziano, nel comportamento politico, l'attuale momento di transizione. Essi hanno raggiunto determinati livelli di sicurezza sociale ed economica e hanno risolto il problema del soddisfacimento dei bisogni primari. Possono quindi dedicarsi con maggior coraggio e minori rischi ad un'azione politica che non teme la sperimentazione di metodi avanzati, anche se spregiudicati o pericolosi. A questo si aggiunga la maggiore «cultura», che favorisce in loro una più attenta analisi delle condizioni attuali. Di qui il loro atteggiamento verso la violenza politica.
La maggioranza dei giovani studenti ricerca il confronto democratico; una larga minoranza, invece, è disponibile alla tentazione della violenza al servizio degli ideali liberali-borghesi o si lascia sedurre dal fascino della violenza rivoluzionaria o della violenza distruttiva, fine a se stessa.
I giovani lavoratori risultano invece più «ponderati»: perseguono, quasi unanimemente, un progetto di progressivo inserimento nei quadri del potere attraverso la partecipazione, la lotta sindacale, il controllo. In essi esiste una reale disponibilità a comportamenti violenti, quando però essi sono nella direzione del mantenimento dei rapporti sociali esistenti. Rifiutano invece la violenza come strumento di azione politica, perché essa è giudicata minacciante nei confronti della legittimità del sistema sociale vigente.
Fanno eccezione i ragazzi più frustrati, quelli che hanno scelto l'apprendistato come «ripiego», costretti ad accontentarsi di un tipo di qualificazione professionale inadeguata rispetto alle loro previsioni. Questi ragazzi sono più inclini degli altri a valutare positivamente la violenza.
3. Carenza di comprensione della violenza
Globalmente, il sondaggio ha rivelato una persistente e preoccupante carenza di comprensione del fenomeno della violenza. Sono affiorati qua e là chiari indizi di incapacità a cogliere la correlazione esistente tra certi comportamenti collettivi e la violenza dei sistemi sociali. Si afferma l'esistenza di una violenza latente nelle istituzioni e negli avvenimenti, ma in termini molto vaghi e generici e soprattutto senza conoscere i meccanismi che la determinano. Manca la ricerca di una reale alternativa, corretta e documentata. Anche il modello nonviolento risulta ignorato o non valutato adeguatamente.
Sono dati che fanno pensare. E permettono di «leggere» i fatti della cronaca. Ricordano, ancora una volta, la necessità di un progetto di educazione sul tema della violenza/ nonviolenza, che superi l'emotività delle percezioni, per collocarsi in un quadro di interpretazione e di riferimento corretto e fondato.
PROSPETTIVE
La vita umana è essenzialmente convivenza: «essere-con» è l'unico modo possibile di essere uomini. Il lavoro umano è collaborazione, la cultura comunicazione, il possesso condivisione.
Ma la convivenza solidale e la collaborazione pacifica sono per l'uomo una vocazione difficile, un equilibrio sempre fragile e precario. La convivenza e la collaborazione sono un miracolo che sfida la forza disgregatrice dell'egoismo, delle divisioni, dell'odio.
La violenza minaccia e corrode il fragile equilibrio della pace.
Così la storia umana appare come un interminabile susseguirsi di violenze: guerre, genocidi, oppressioni, sfruttamenti, odio sembrano essere la trama in cui si intesse la vicenda umana.
Dalla costatazione sorgono spontanei alcuni interrogativi, dalla cui soluzione (almeno orientativa) si giustifica il progetto educativo che conclude questo Dossier.
1. Perché la violenza?
Che significato ha la violenza? Qual è la sua origine? Quali sono i fattori che ne possono spiegare la diffusione e la persistenza? Quali sono i rapporti che esistono tra violenza criminale e violenza politica, violenza manifesta e violenza latente, violenza fisica e violenza morale? Si impone un problema di lettura, di comprensione e di interpretazione del fenomeno della violenza, in tutte le sue numerose componenti.
Il compito di rispondere a questi interrogativi è molto difficile, per la complessità della tematica. Richiede uno sforzo convergente di diverse competenze. La riflessione teologica sulla violenza si inserisce in questo processo interpretativo multisciplinare. Questo compito è effidato all'articolo di Milanesi e a quello di Gatti.
2. Come reagire alla violenza?
Altri interrogativi riguardano invece la risposta da dare alla violenza, in connessione con le caratteristiche che essa presenta in un determinato momento storico (in concreto: l'attuale condizione giovanile). Quale risposta dare? Rispondere alla violenza con la violenza? Oppure predisporre interventi nonviolenti? E in quali direzioni?
Anche questa ricerca va condotta in termini interdisciplinari. Ritorna, in questo contesto, l'impegno del cristiano a confrontarsi con la Parola di Dio, per orientare la propria scelta nel suo progetto.
Questo secondo compito è affidato agli articoli di Muller e di Marasso che fondano il significato politico della non violenza. La parte conclusiva dell'articolo di Gatti offre l'orizzonte di fede in cui collocare la ricerca.
Riprenderemo in termini educativi tutto il discorso, nella terza parte del Dossier.
PER L'AZIONE
Gli articoli con cui abbiamo analizzato le cause della violenza e il significato politico e culturale della nonviolenza, hanno una precisa funzione: formare
«mentalità». E cioè determinare un quadro di riferimento che permetta a ciascuno, giovani ed educatori, di parlare della violenza in termini corretti, non emotivi né irrazionali.
Si tratta del primo, indispensabile passo per un processo educativo.
Esso è però più ampio e articolato. Su questo itinerario globale vogliamo insistere, anche per collocare il dossier nella prospettiva «educativa» su cui si caratterizza tutta la rivista.
Suggeriamo alcune dimensioni di questo processo: offrono la chiave interpretativa di tutto il dossier e, soprattutto, della sua parte conclusiva.
1. La violenza è un fatto contro il quale non ci sono rimedi tocca-sana
Siamo tutti d'accordo che la violenza è un non-valore. Essa, però, è un fatto, che segna i nostri quotidiani rapporti. Se molte strutture, che ci siamo costruiti, esercitano violenza sull'uomo, anche molti dei rimedi proposti sono orientati dalla violenza. Non si può certo arginare la violenza con una nuova violenza. Ma neppure è possibile illudersi di realizzare un atteggiamento di assoluta nonviolenza, quasi che esso fosse rimedio efficace, un «tocca-sana» infallibile.
In molti casi è difficile evitare la violenza; essa può assumere il carattere della legittimità e della doverosità; è il caso della legittima difesa o il caso in cui si deve scegliere tra viltà e violenza.
In secondo luogo bisogna ricordare che anche la nonviolenza esercita una qualche «violenza». Si pensi, per esempio, allo sciopero della fame, in cui si usa, come mezzo di persuasione, non la forza delle idee ma il «ricatto» affettivo della propria vita. L'azione non violenta tende al rovesciamento di situazioni di inguistizia, in termini «efficaci»; per raggiungere questi scopi essa si trasforma in una forza di coercizione morale. La nonviolenza è quindi, essa stessa, un'azione di forza.
Queste riflessioni, trascritte sul piano educativo, conducono a sottolineare
la «relatività» delle scelte operate. L'opzione per la nonviolenza (verso cui ci orientiamo) va assunta in uno spirito non assoluto e intransigente. L'unica logica «assoluta» è quella dell'amore. Ma essa, quando si incarna
in strategie concrete, richiede sempre la coscienza della provvisorietà e il coraggio della rinnovata ricerca: neppure nell'azione nonviolenza l'amore può essere vissuto in tutte le sue dimensioni.
2. Educarsi alla nonviolenza
La nonviolenza non è solo una mentalità o un atteggiamento morale. Essa è anche una tecnica, che esige un preciso piano strategico e tattico. Per questo, essa è oggetto di educazione e richiede una preparazione e un esercizio prolungato, senza di cui non sí struttura né la mentalità né l'atteggiamento.
I grandi fautori della nonviolenza, come Gandhi e M.L. King, hanno spesso parlato di «programmazione» della nonviolenza. Parlare di programmazione significa parlare di disciplina, organizzazione, perseveranza, scelte coerenti senza cedimenti alla tentazione della violenza.
Nel corso della nostra proposta, suggeriremo alcune di queste strategie e insisteremo perché siano «esperimentate» immediatamente, nella conduzione dell'esperienza educativa quotidiana (il progetto educativo, la vita di gruppo...). L'accento su queste dimensioni si fa immediatamente «educativo», anche se i problemi potrebbero avere una risonanza strutturale molto più vasta. Educare, infatti, significa «apprendere nella prassi»: e cioè cogliere i valori, il senso delle cose, operando in questa direzione. Parleremo, per esempio, dello «sciopero» come azione nonviolenta. Esso fa parte di una strategia programmata a cui ci si deve educare: è necessario «apprendere» il suo significato, il valore e il limite, non in processi intellettualistici (parlando dello sciopero), ma nell'esercizio diretto e partecipato (in senso positivo, quando esso è valutato opportuno; o in senso negativo, quando esso è valutato non giusto-valido).
3. Azione nonviolenta e dissenso
La nonviolenza implica alla radice un atteggiamento di non-cooperazione, di non-collaborazione. Essa, infatti, mira a scoprire e a combattere le ingiustizie e le contraddizioni della società. Comporta perciò un giudizio negativo e critico nei confronti delle storture e delle falsità dei vari sistemi (politici, economici, culturali, religiosi...).
Mediante l'azione nonviolenta ci si rifiuta di collaborare a quegli aspetti sui quali non è possibile concedere un assenso ragionevole.
Come si vede, si tratta di una dimensione molto importante dell'educazione alla nonviolenza, per evitare di slittare nell'atteggiamento infantilmente polemico o in una critica sterile.
Il nonviolento è sempre un «dissenziente», perché egli non presta la propria approvazione a leggi, iniziative, valutate lesive dei diritti della persona umana. Egli non è per principio contro «la» legge: ma è contro le leggi ingiuste ed oppressive.
Per permettergli di essere una cosa e non l'altra, egli va aiutato a maturare, va «educato».
L'educazione alla nonviolenza ha dunque lo scopo di formare non dei disadattati, dei critici ad oltranza, dei malcontenti per partito preso, ma degli uomini responsabili, partecipi, consapevoli, ma non per questo succubi del potere e ciechi di fronte ai mali della società.
In questo punto, l'educazione alla nonviolenza coincide quasi esattamente con l'educazione politica (di cui abbiamo parlato in un dossier precedente). La disobbedienza civile diventa un'ipotesi ragionevole di lotta politica, finalizzata a dimostrare il valore strumentale e none assoluto della legge, in vista di una legge migliore, al servizio dell'uomo.
4. Educazione alla nonviolenza e esperienza cristiana
Abbiamo ricordato molte volte che nessun processo educativo è indifferente rispetto all'esperienza cristiana. La fede offre un criterio normativo alla maturazione di personalità, orientando la crescita di un uomo verso la consapevolezza di essere figlio di Dio.
Questa sottolineatura ricorda l'importanza che possiede anche questo argomento, nell'ambito della pastorale giovanile. La pastorale (in quanto riflessione teologica sull'esperienza umana) non può decidere gli orientamenti per l'educazione alla nonviolenza: non è competente, perché si tratta di un terreno profano. Il modo con cui viene vissuta l'educazione (e quindi la sua carica violenta o nonviolenta o il suo orientamento verso la passività o la criticità) determina però la possibilità o meno di una integrazione con la fede. È indispensabile, perciò, elaborare le metodologie relative alla educazione alla nonviolenza in uno «sguardo di fede», riferendosi cioè alla fede come al significato ultimo e al criterio normativo di ogni processo di maturazione dell'uomo.
Per questo motivo, abbiamo collocato tra gli studi un intervento di sapore teologico. Così il dibattito sulla violenza/ nonviolenza è stato collocato nel «progetto di Dio».
In questa parte conclusiva, di indirizzo educativo, tenteremo di procedere
in termini coerenti: di riflettere sull'educazione alla nonviolenza in un ambito educativo-profano, per rispettarne l'autonomia, ma all'interno di quelle scelte radicali che la fede ci propone, come sono state suggerite dallo studio di G. Gatti. In questa prospettiva, la nostra ricerca sull'educazione alla nonviolenza si fa «pastorale».