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    I giovani e la violenza



    (NPG 1977-09-18)


    Trascriviamo alcuni «documenti». Non hanno la pretesa di descrivere, in termini esaurienti, il fenomeno della violenza giovanile. Servono solo a provocare: ad attivare la ricerca e il dibattito. Costringono a pensare perché li abbiamo elencati senza dare respiro, dopo averli estratti dalle pagine di riviste, in cui sono presentati immersi tra la pubblicità di un cosmetico e le ultime avventure del cantante del giorno.

    Documento primo
    LA VIOLENZA CRIMINALE

    Vigilia di Natale in Piazza del Popolo, ore 14. Marito e moglie si avviano al posteggio, un ragazzo li segue. Quando l'uomo si china per aprire la portiera, il ragazzo punta un coltello contro lo stomaco della donna. «Dammi 50 mila lire». «Non le ho». «Dammi tutto quello che hai». La signora si sfila l'orologio e l'anello. «Anche la collana», insiste il rapinatore. Il traffico è intenso. Dall'altra parte dell'auto il marito non riesce ad afferrare il dialogo, ma vede il coltello e resta come paralizzato, con la mano sulla maniglia. Un attimo dopo la moglie urla: «Al ladro, al ladro». Il ragazzo è già lontano, nascosto tra la folla indifferente e frettolosa che rincasa per il pranzo. Nessuno presta attenzione a quelle urla anonime. C'è già il sintomo di una città in disfacimento sociale: il segno esplicito delle violenze che la metropoli racchiude in sé.
    Lo stesso giorno, in via Cola di Rienzo, ore 18. La gente fa a gomitate davanti alle vetrine. Ad un tratto un giovane afferra una donna per le spalle, la schiaffeggia con violenza. «Disgraziata», impreca, «hai lasciato soli i bambini e te ne vai a spasso». La gente fa largo, qualcuno sorride divertito. «Restituiscimi almeno la pelliccia», urla il giovanotto. «Non ho figli, costui è un ladro», singhiozza la donna. Ma il finto marito se ne va indisturbato con la pelliccia sotto il braccio. «Mazzalo che dritto», commentano i passanti.
    Essere «dritto nel codice romano non è truffare, rubare, usare la violenza quando si è sicuri del numero, ma soprattutto ostentare la propria natura di «bullo». Un vero «dritto» è colui che campa senza far niente che non sia illecito. La domenica pomeriggio, uscendo dallo stadio, i tifosi-teppisti sfasciano in media un paio di autobus. Sul tram accadono vandalismi da «Orient-Express». La tecnica è sempre la stessa, quella della provocazione gratuita. In quindici-venti ragazzi salgono (senza pagare il biglietto) su un mezzo della Stefer, urlano, insultano, picchiano i passeggeri. L'ultima aggressione è avvenuta sulla Casilina: un gruppo di quindicenni, dopo aver volteggiato come scimmie appendendosi ai corrimano, hanno preso a pugni e calci due tranvieri. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso: lavoratori, esasperati, hanno riportato i mezzi nei depositi e per tutto il giorno il trenino della Roma-Grotta Geloni è rimasto bloccato. Roma, ribelle, turbolenta e piazzaiola, sta vivendo una nuova pesante stagione di violenze. Con le notizie di rapine, furti, omicidi, scippi e bravate più o meno originali, ogni giorno si potrebbe riempire un intero giornale. Riassunte in 94 righe, sotto un titolo a tre colonne («In due ore sette rapine») il cronista del Messaggero ha liquidato notizie che sino a poco tempo fa avrebbero preso uno spazio tre volte maggiore. Sul Tempo tra le «brevi» del 16 dicembre, ci sono una rapina in banca (15 righe), un assalto in trattoria (14 righe) e una sparatoria in un bar: 20 righe perché i soliti «giovani banditi», prima di fuggire hanno ferito il barista con un colpo di pistola.
    Forse Roma non è mai stata una città cordiale. Ma anche quella vernice d'allegria di qualche anno fa (il gusto della battuta, il piacere delle serate all'aperto, le tavolate in compagnia) oggi è scomparsa. Troppi problemi, troppi contrasti, troppe ingiustizie sociali. La «dolcevita» in dieci anni è diventata soltanto «malavita». Di giorno è una città strozzata dalle auto (l'altra sera al Casilino un ragazzo di vent'anni è stato pugnalato al cuore «per motivi di traffico»), con l'angoscia di mille uffici e ministeri, i guasti d'una burocrazia straripante, risse agli incroci, zuffa sui pullman, liti davanti agli sportelli. E con la sera cala anche la paura. Le auto hanno il bottone della sicura abbassato, i taxi rifiutano certe corse, come se Villa Borghese fosse il Central Park di New York e le strade buie attorno a piazza Ungheria fossero Harlem.
    Verso le 23, quella che fu la città più nottambula d'Italia, si svuota all'improvviso. Gli spettacoli serali dei cinema sono frequentati per lo più da teppisti eccitati dalle violenze sullo schermo, i ritrovi notturni sono monopolio della malavita. La gente si chiude in casa, si annoia davanti al televisore. È una specie di coprifuoco volontario. Nei ghetti di periferia immersi nel buio, restano pochissime auto della polizia e dei carabinieri: come avamposti di frontiera. Talvolta appaiono i «vigilantes», commercianti che armati di fucile difendono a turno i negozi della zona. Il cane non è più un lusso o un amico, ma un efficiente guardiano; i fabbri sono tra i pochi che non conoscono la recessione: bisogna prenotarli con un mese d'anticipo per farsi blindare la porta di casa.
    (Cenzino Mussa in Famiglia Cristiana).

    Documento secondo
    IL NEMICO DI CLASSE È LA VETRINA

    I giornali di destra li hanno definiti lanzichenecchi; per tutti gli altri sono vandali. o teppisti. Solo i tre quotidiani della sinistra extraparlamentare hanno cercato di minimizzare o di prenderne in qualche caso addirittura le difese. Si tratta dei giovani estremisti che la sera di sabato 27 settembre, ai margini di una imponente manifestazione antifranchista, che ha rappresentato per la sinistra extraparlamentare il più tangibile successo politico degli ultimi mesi, hanno devastato a Roma più di cinquanta negozi e che ora sono al centro di un dibattito politico e ideologico. Che gente è mai?
    La discussione è stata aperta da una lettera inviata al «Messaggero» dal deputato comunista Antonello Trombadori: «Chi spacca le vetrine dei negozi», ha scritto Trombadori, «come chi incita allo scontro con la polizia e urla come piattaforma di lotta contro il fascismo la spaccatura e la contrapposizione delle forze antifasciste negandone il pluralismo, non deve trovare spazio nelle file dell'azione di massa proletaria e popolare». Il solito sforzo del Pci per prendere pubblicamente le distanze dall'estrema sinistra?
    Probabilmente si tratta di qualcosa di più. Trombadori sostiene infatti, per la prima volta su un giornale non comunista, che scrivere sui muri «Soares boia», contrapporre lo slogan «Spagna rossa» a quello della sinistra «Spagna libera» costituisce indirettamente un invito alla violenza. Dapprincipio i gruppi di estrema sinistra hanno replicato con durezza: «il Manifesto» ha definito Trombadori «più questurino di Improta [il capo della squadra politica di Roma, ndr]», il «Quotidiano dei lavoratori» ha finto stupore a che «proprio il compagno dei gap di via Rasella avesse scritto sul " Messaggero " cose allucinanti», mentre «Lotta continua» ha tagliato corto: «La borghesia ha sciolto i suoi cani» ha scritto il 1 ottobre. Ma altri fatti dovevano mettere nuova legna al fuoco della polemica.
    Due giorni dopo la manifestazione, e uno dopo la lettera di Trombadori al «Messaggero», i giornali informavano che alcune decine di giovani, reduci dai cortei a Roma, avevano saccheggiato due autogrill sull'autostrada rubando cineprese, giocattoli e tutto ciò che avevano trovato. Il giorno dopo c'erano stati ancora saccheggi e devastazioni al centro di Napoli; qui alcuni «infiltrati» in una manifestazione di disoccupati avevano infranto vetrine, rubato vestiti, distrutto vasi con grandi piante ornamentali, lacerato sacchi della spazzatura, il tutto per oltre due ore.
    Passa qualche giorno e mentre «ignoti» sabotano a Roma le cabine telefoniche mettendo fuori uso un migliaio di telefoni, a Torino «elementi non identificati» assalgono durante un corteo unitario antifascista i rappresentanti del movimento cattolico Comunione e liberazione e mandano all'ospedale anche un consigliere comunale democristiano. La mattina seguente «Lotta continua» esalta l'episodio. Il sindaco comunista di Torino Diego Novelli reagisce denunciando il «teppismo irresponsabile e isolato» puntando il dito contro i gruppi extraparlamentari. «È mai possibile», ribatte un esponente di Lotta continua, «che in una manifestazione di centomila persone a favore del Portogallo e della resistenza spagnola, si sappia scorgere soltanto qualche estremista isolato? In Italia esiste da anni un'area cosiddetta «dell'autonomia» che considera giusto e utile ricorrere alla violenza. Noi pur dissentendo li consideriamo dei compagni e non li giudichiamo provocatori. Dobbiamo anzi prendere atto che gli «autonomi», i giovani affetti da impazienza rivoluzionaria che non vogliono aspettare la presa del potere per modificare la propria esistenza sono sempre di più. E il problema del loro recupero è politico e non di ordine pubblico». «Anch'io», aggiunge Gianni Statera, sociologo e studioso dei movimenti studenteschi, «non credo più al " provocatore infiltrato ". Penso anzi che violenza e teppismo abbiano in parte contaminato la sinistra extraparlamentare. Perché? Basta osservarli. Non sono più gli studenti spontanei del '68, tutti figli della borghesia delle professioni e tutti tornati oggi nelle file del Pci. I nuovi militanti dei gruppetti vengono in prevalenza dal sottoproletariato e dalla piccolissima borghesia. Non so se l'odio e l'invidia che nutrono verso la borghesia ed il Pci possano definirsi " di classe ". A me
    sembrano piuttosto il frutto di un tessuto sociale disgregato, di una disoccupazione che ha toccato livelli da capogiro, di un'assenza generale di significati. A Centocelle si vive peggio che negli slums di New York e qui come là difficilmente la rabbia si trasforma in coscienza di classe»,
    (Paolo Mieli in L'Espresso).

    Documento terzo
    QUELLI DELLA P.38: LA RIVINCITA DEL PRIVATO?

    Negli ultimi mesi, all'interno di quella esperienza variegiata e mobile che è stata definita il «movimento», sono emersi gli uomini della P.38. Da varie parti si è chiesto che il movimento li riconoscesse come corpo estraneo, ed erano tendenze che premevano sia dall'esterno che dall'interno. È parso che questo rifiuto avesse un iter difficile, e giocavano vari elementi. Diciamo in sintesi che molti nel movimento non se la sentivano di riconoscere come estranee delle forze che, anche se si manifestavano in modi inaccettabili e tragicamente suicidi, sembravano esprimere una realtà di emarginazione che non si voleva rinnegare. Sto facendo cronaca di dibattiti di cui tutti abbiamo avuto notizia. In sintesi si diceva: sbagliano, ma fanno parte di un movimento di massa. Ed è stato un faticoso e duro dibattito.
    Ed ecco che, la settimana scorsa, si è avuta come una precipitazione di tutti gli elementi di dibattito rimasti fino ad allora in soluzione incerta. Di colpo, e dico di colpo perché è nel giro di un giorno che si sono avuti pronunciamenti decisi, si è manifestato un isolamento dei pitrentottisti. Perché in quel momento? Perché non prima? Non basta dire che i fatti di Milano hanno impressionato molti, perché altrettanto impressionanti erano stati i fatti di Roma. Cosa è successo di nuovo e di diverso? Proviamo ad avanzare un'ipotesi, e ancora una volta ricordando che una spiegazione non spiega mai tutto, ma entra a far parte di un panorama di spiegazioni in rapporto reciproco. È apparsa una foto.
    Di foto ne sono apparse molte, ma una ha fatto il giro di tutti i giornali dopo essere stata pubblicata dal «Corriere d'Informazione». È, tutti la ricorderanno, la foto dell'individuo in passamontagna, solo, di profilo, in mezzo alla strada, con le gambe allargate e le braccia tese, che impugna orizzontalmente e con ambo le mani una pistola. Altre figure si vedono sullo sfondo, ma la struttura della foto è di una semplicità classica: la figura centrale domina isolata.
    Se è lecito (ma è doveroso) fare osservazioni estetiche in casi del genere, questa è una di quelle foto che passeranno alla storia e appariranno su mille libri. Le vicende del nostro secolo sono riassunte da poche fote esemplari che hanno fatto epoca: la folla disordinata che si riversa nella piazza durante i «dieci giorni che sconvolsero il mondo»; il miliziano ucciso di Robert Capa; i marines che piantano la bandiera sull'isolotto del Pacifico; il prigioniero vietnamita giustiziato con un colpo alla tempia; Che Guevara straziato, steso sul tavolaccio di una caserma. Ciascuna di queste immagini è diventata un mito ed ha condensato una serie di discorsi. Ha superato la circostanza individuale che l'ha prodotta, non parla più di quello o di quei personaggi singoli, ma esprime dei concetti. È unica ma al tempo stesso rimanda ad altre immagini che l'hanno preceduta o che l'hanno seguita per imitazione. Ciascuna di queste foto sembra un film che abbiamo visto e rimanda ad altri film che l'avevano vista. Talora non si è trattato di una foto, ma di un quadro, o di un manifesto.
    Cosa ha «detto» la foto dello sparatore di Milano? Credo abbia rivelato dí colpo, senza bisogno di molte deviazioni discorsive, qualcosa che stava circolando in tanti discorsi, ma che la parola non riusciva a far accettare. Quella foto non assomigliava a nessuna delle immagini in cui si era emblematizzata, per almeno quattro generazioni, l'idea di rivoluzione. Mancava l'elemento collettivo, vi tornava in modo traumatico la figura dell'eroe individuale. E questo eroe individuale non era quello della iconografia rivoluzionaria, che quando ha messo in scena un uomo solo lo ha sempre visto come vittima, agnello sacrificale: il miliziano morente o il Che ucciso, appunto. Questo eroe individuale invece aveva la posa, il terrificante isolamento degli eroi dei film polizieschi americani (la Magnum dell'ispettore Callaghan) o degli sparatori solitari del West – non più cari a una generazione che si vuole di indiani.
    Questa immagine evocava altri mondi, altre tradizioni narrative e figuratiche che non avevano nulla a che vedere con la tradizione proletaria, con l'idea di rivolta popolare, di lotta di massa. Di colpo ha prodotto una sindrome di rigetto. Essa esprimeva il seguente concetto: la rivoluzione sta altrove e, se anche è possibile, non passa attraverso questo gesto «individuale».
    La foto, per una civiltà ormai abituata a pensare per immagini, non era la descrizione di un caso singolo (e infatti non importa chi fosse il personaggio, né la foto serve a identificarlo): era un ragionamento. E ha funzionato. Non interessa sapere se si trattava di una posa (e quindi di un falso); se era invece la testimonianza di un atto di spavalderia cosciente; se è stata l'opera di un fotografo professionista che ha calcolato il momento, la luce, l'inquadratura; o se si è fatta quasi da sola, scattata per caso da mani inesperte e fortune. Nel momento in cui essa è apparsa il suo iter comunicativo è cominciato: e ancora una volta il politico e il privato sono stati attraversati dalle trame del simbolico che, come accade sempre, si è dimostrato produttore di realtà.
    (Umberto Eco in L'Espresso).

    Documento quarto
    VIOLENZA ALLE DONNE E VIOLENZA DELLE DONNE

    Violenza o non violenza; femminismo armato sì o femminismo armato no? Il problema della violenza sta maturando da qualche tempo anche nel vasto crogiuolo delle «donne che hanno preso coscienza». Tra le femministe «storiche», quelle dell'autocoscienza e della liberazione della donna, e le nuove streghe del femminismo più ribelle, sembra scavarsi un fossato sempre più profondo. Diciamolo subito: a Padova, a Milano, a Roma, città dove il fenomeno si è manifestato in modo preciso, difficilmente le interessate ammettono che il problema vada posto in questi termini. «Porre la questione in questo modo significa snaturarla secondo un'ottica tipicamente maschilista, peggio ancora, poliziesca», sostengono le giovani «violente» padovane che non si riconoscono più nei gruppi femministi tradizionali (come il Movimento per il salario al lavoro domestico); «in realtà il dibattito verte sul significato e sul valore attuale dell'autocoscienza e sulla scelta tra salario al lavoro domestico sotto forma di denaro o di servizi sociali». E alcune militanti milanesi del coordinamento femminista di via dell'Orso spiegano che «non si tratta di optare o meno per la violenza, ma di scegliersi degli obiettivi politici, passando dall'obsoleto attacco alla famiglia all'attacco alle istituzioni statali».
    Fatto sta che negli ultimi mesi sempre più frequenti sono diventate le azioni di commandos femminili e gli episodi, di vario tipo, che si possono siglare come «lotta armata femminista». L'ultimo, al momento in cui scriviamo, è del 18 aprile, a Roma. In una camiceria del quartiere Monteverde un commando di sei giovanissime, impugnando le pistole e a viso scoperto, lega e imbavaglia le tre persone presenti e, dopo aver scritto con lo spray rosso sul pavimento «no ai padroni», si impossessa dell'incasso della giornata: nelle cronache nostrane si tratta del primo «esproprio proletario» effettuato da sole donne.
    Era dall'inizio del '76 che si parlava di femminismo violento, da quando cioè fu lanciato il nuovo slogan «donne, donne, usciamo dal privato, tutte insieme facciamo fuori lo Stato». Il 17 gennaio a Milano, durante una manifestazione per l'aborto, un drappello di femministe invadeva il Duomo e veniva chiuso dentro dai carabinieri.
    Ma la cronologia del «femminismo armato» inizia ufficialmente nel marzo dell'anno scorso quando tre donne e un uomo penetrano in un ambulatorio del Cisa e sparano nelle gambe del ginecologo Fulvio Neri: l'attentato viene rivendicato in un volantino in cui si dichiara guerra «all'aborto di classe e a quei macellai che con gli aborti si arricchiscono sulla pelle delle donne proletarie». Se l'azione fu un «successo» sul piano operativo, non andò liscia dal punto di vista ideologico: infatti il particolare della partecipazione dell'uomo (anche se con funzione secondaria) sollevò subito una viva polemica tra i gruppi femministi più radicalizzati. Il 25 ottobre '76 nella boutique di Luisa Spagnoli in via Manzoni, Milano, scoppia una potente bomba carta e tutte le vetrine vanno in frantumi: la maternità dell'ordigno femminista è rivendicata da un gruppo che si firma «streghe fuori, streghe dentro, siamo tutte nel movimento», e che in un volantino motiva l'azione dimostrativa col fatto che «la Spagnoli paga alle detenute che confezionano i suoi prodotti 3.000 lire per un abito che vende a 150 mila lire, e 1.500 lire per un golf venduto a 20.000 lire».
    È però nel marzo di quest'anno che esplode la vera girandola di violenza femminista (dai primi del Novecento l'8 marzo è la «giornata internazionale di lotta delle donne»). Il 2 di quel mese a Milano un gruppo di militanti e di donne di Seveso invade il rettorato dell'Università cattolica lanciando slogan e insulti contro il rettore Lazzati ritenuto uno dei corresponsabili del dramma della diossina: «Oggi le streghe non stanno più ad aspettare il rogo; il fuoco lo attacchiamo noi; bruciamo i centri della nostra oppressione». Quattro marzo, sempre a Milano: alle 8,30 tre donne, capelli sciolti, viso scoperto e pistole puntate irrompono negli uffici della Mondial-Lus (una ditta che produce penne a sfera e articoli di cancelleria). Quattro impiegati vengono legati e imbavagliati; scrivanie e mobili devastati: sul muro la scritta: «No al lavoro nero, costruiamo noi la nostra storia nella lotta di liberazione contro tutti i padroni», firmato: «Donne combattenti per il comunismo». Poco dopo una voce femminile telefona all'Ansa rivendicando l'episodio e spiegando che la ditta sfrutta il lavoro delle carcerate di San Vittore. Otto marzo, ancora a Milano: una cinquantina di donne occupa la sede dell'Inam («strumento di controllo poliziesco contro l'assenteismo delle donne operaie che sono costrette a praticarlo per sopperire alla mancanza di servizi sociali»), e un centinaio di abortiste invade la clinica ginecologica Mangiagalli, «covo di macellai».
    Lo stesso giorno le guerrigliere milanesi bruciano le automobili del prof. Amico, primario ginecologo a Desio, e dell'ostetrico del Mangiagalli, dottor Polvani: il volantino che rivendica gli attentati è firmato: «Violenza femminista».
    Anche a Padova l'8 marzo le «streghe arrabbiate» non stanno con le mani in mano: «una ronda militante» penetra nella clinica ostetrica dell'ospedale, distrugge lo studio del primario ginecologo Antonio Onnis («sporco barone antiabortista») e «punisce» alcuni suoi giovani aiutanti. Il giorno successivo dei volantini firmati da «donne in lotta per il comunismo» rivendicano l'attentato contro l'automobile del dottor Walter Ancona, «medico fascista che da anni pratica aborti clandestini», e promettono un futuro di fuoco: «Non è che l'inizio, pagherete caro, pagherete tutto». Ancora il 9 marzo, sempre a Padova, un corteo di donne attraversa il centro e distrugge il negozio di abiti da sposa «Modabella» in piazza dei Signori. Le femministe padovane militanti nei gruppi tradizionali hanno criticato queste azioni definendole «non utili alla crescita organizzativa del movimento femminista»; la distruzione degli abiti da sposa sarebbe poi anche un gesto simbolico sbagliato perché «insulto alle donne che per il momento non hanno il potere di rifiutare il matrimonio».
    Chi sono le nuove streghe della «violenza femminista»? Da una parte le giovanissime, le sedicenni, che entrano oggi nel movimento, e che, avendoli «respirati» sin da piccole, sentono superati i temi dell'autocoscienza, della liberazione sessuale, dello scontro con il potere del maschio nella sfera privata. Dall'altra le militanti ed ex militanti dei gruppi «misti» extraparlamentari e autonomi (Potere operaio, Lotta continua, Comitati autonomi comunisti, ecc.) che pur aderendo alla tematica femminista affermano il bisogno di un'azione che «esca dal privato» per partecipare direttamente alle lotte sociali. Un gruppo di «compagne femministe autonome» milanesi scrive in un suo documento: «La violenza non è un fatto esterno alla donna, non è " poco femminile "; noi la violenza la subiamo quotidianamente, è violenza il pappagallo che ti tocca il culo, è violenza che in Parlamento decidano leggi sulla nostra pelle; è assurdo non rispondere violentemente, e lo scontro contro lo Stato è la logica estensione della reazione alla violenza quotidiana».
    (Mario Scialoja in L'Espresso).

    Documento quinto
    VIOLENZA DEI GIOVANI E VIOLENZA SUI GIOVANI

    Una società che sforna disoccupati

    Quale avvenire la società prospetta alle giovani leve? 800 mila giovani iscritti alle liste di collocamento, 500 mila apprendisti, 1 milione di studenti universitari, un numero imprecisato di lavoratori precari. Questo il dato da cui non si può prescindere, una delle cause fondamentali della rabbia che si manifesta in queste settimane nelle strade e nelle piazze. E non si tratta di un semplice prodotto della crisi economica, benché il persistere della crisi economica certo non giovi ad incrementare l'occupazione; c'è da tener conto che in tutto il mondo industrializzato si va precisando una preoccupante tendenza al restringimento della base produttiva.
    Oggi nei paesi della CEE esistono 2.000.000 di giovani ufficialmente disoccupati; la disoccupazione giovanile si profila anche nelle economie più forti (Germania) che fino a ieri erano importatrici di forza lavoro. Dunque, non è affatto detto che, superata questa crisi, i giovani del nostro Paese riescano a trovare facilmente uno stabile inserimento all'interno del ciclo produttivo.
    Gli investimenti sono oggi diretti prevalentemente verso settori che richiedono molti capitali, ma scarsa mano d'opera; perciò, a meno che non si facciano decise scelte per una politica economica di segno nuovo, la disoccupazione giovanile rischia di diventare una caratteristica permanente della società moderna. Per combatterla i piani di preavviamento dei giovani al lavoro possono costituire al più solo provvedimenti tampone, forse utili; il problema va tuttavia senz'altro affrontato preparando interventi molto più sostanziali.
    Oltre alla scarsa ricettività del mercato, vi sono però anche altre ragioni che tengono a lungo i giovani fuori dal mondo del lavoro.
    Una parte non trascurabile delle famiglie appartenenti ai ceti più umili, ín conseguenza dello sviluppo economico, aspetta dai figli una promozione sociale. Spesso sono proprio i genitori a spingere i giovani verso il diploma e verso la laurea, e non è un fenomeno da sottovalutare. Il fatto poi che il maggior numero di iscritti si registri nelle facoltà ad indirizzo umanistico (lettere su tutte), benché siano proprio quelle che offrono minori prospettive, conferma come veritiera l'ipotesi della propensione dei giovani al lavoro non immediatamente produttivo, anche quando si tratta di lavoro intellettuale.
    Infine c'è da constatare una fuga dal lavoro manuale (cui qualcuno preferisce la disoccupazione) che provoca le reprimende indignate di tanti neo-moralisti da cattedre per lo meno sospette. Se teniamo conto del fatto che le condizioni di vita degli operai dell'industria sono sinora state tra le peggiori e che per giunta gli altri ceti si sono sempre dati un'aria di superiorità riguardo ai lavoratori manuali, allora questa tendenza non rimane inspiegabile, né deve far gridare allo scandalo. Anche se va combattuta, beninteso, con strumenti tuttavia meno spuntati e farisaici della «moralina» ammanita da articoli e corsivi di certi quotidiani.
    In questo quadro l'Università si è gonfiata in un enorme parcheggio per forza lavoro che il mercato non riusciva ad assorbire e che, in parte, non voleva essa stessa venire assorbita. Le strutture universitarie non si sono però adeguate: i contenuti dello studio ed il modo di studiare non hanno subito sostanziali modifiche: su quest'ultimo punto è anzi intervenuto un netto peggioramento in quanto moltissimi studenti non frequentano affatto (e se lo volessero non lo potrebbero) e si presentano all'Università solo per dare gli esami.
    L'unica vera scelta politica compiuta in questi anni è stata di consentire agli studenti di studiare di meno, di facilitare l'arrivo al dottorato. La risposta fornita alla contestazione è stata la dequalificazione dell'istituzione. Nel mentre numerosi membri dei partiti di governo davano in prima persona esempio di parassitismo e diffondevano attraverso metodi clientelari (specie nel centro sud) una ideologia assistenziale e qualunquista.
    Per questo insieme di ragioni l'Università, e purtroppo non soltanto essa, ha perso gran parte della credibilità che aveva e si è arrivati alla tragica situazione attuale, quasi uno sfascio completo, e con una parte degli studenti che scambia per rivoluzionarie le richieste del 27 garantito agli esami e del presalario per tutti. e

    «Riprendiamoci la vita»

    Oggi si cerca di «andare a prendere subito» tutto quello che c'è poiché adesso sono assai diminuite le possibilità di inserimento nella società e contemporaneamente si è molto accresciuta l'angoscia prodotta dall'esperienza di non vivere pienamente. Così, non potendo pensare a costruire una nuova società (in quanto
    e, non lo si ritiene possibile) si finisce col pretendere di vivere in modo parassitario nella società attuale di cui non si può e/o non si vuole entrare a fare pienamente parte. Perciò ecco emergere le richieste di «diritto al lusso», «diritto alla laurea», diritto alla casa ed al salario per tutti i maggiorenni, «la retribuzione dell'ozio giovanile», come dicono gli «indiani», e così via: poiché manca un futuro, le rivendicazioni possono riguardare solo i beni (ed i simboli) dell'ordinamento esistente. Partendo da questo presupposto allora è vero che lavorare serve solo al capitale ed a rafforzare il sistema capitalistico, per cui occorre cercare di non lavorare e di non studiare, o perlomeno di lavorare e di studiare il meno possibile. L'insieme di questi ragionamenti è di una coerenza assoluta.
    Chi urla «riprendiamoci la vita» non vuole semplicemente ottenere un impiego – magari deresponsabilizzato e ben retribuito. Esclamare «riprendiamoci la vita» di cui uno si sente espropriato, ha senso soltanto se qualcuno si accorge di essere un individuo apatico e vuoto e rovescia poi istantaneamente sulle spalle del «sistema» (concetto questo che anziché precisarsi sta annebbiandosi sempre più) la causa della propria apatia e del proprio vuoto. Quel che riesco a distinguere è un bisogno di certezze/ valori non soddisfatto con una conseguente forte carenza di esperienze esistenziali ed emotive, di emozioni, di una intensità di vita rispetto a qualcuno o a qualcosa, che non siano una rabbia cieca ed accecante. Il che significa innanzitutto non riuscire a convivere ed a comunicare. Non ritrovare un'unità profonda con il mondo, gli altri, se stesso, il proprio corpo. Gli sforzi, che sono stati fatti di organizzare «feste» all'interno delle facoltà occupate potrebbero dunque costituire un tentativo di ritrovare una gioia di vivere di cui ci si sente derubati, il gusto di stare al mondo e di starci assieme ad altra gente, sperimentandosi così, anche sensibilmente, vivi, viventi. Esisto anch'io, insomma. Anche se voi mi ignorate.
    Seguendo questo ragionamento, le ultime manifestazioni di violenza e di intolleranza si potrebbero definire anche «l'esplosione dell'apatia», in un rifiuto dell'insignificanza e della inutilità. Come non considerare che, nonostante gli ultimi poco gloriosi clamori, la grande maggioranza degli studenti oggi è totalmente disimpegnata, non partecipa nemmeno alle manifestazioni? Il rischio più grave è forse che nei più si sviluppi un atteggiamento di individualistica chiusura. A me personalmente torna in mente la tematica moraviana degli «indifferenti». La finora evidenziata «non-volontà» del grosso dei giovani ad isolare le minoranze più violente, potrebbe proprio costituire un segno di quanto sia già reale questa «indifferenza».
    (Silvano Ghilino in Il Gallo).

    Documento sesto
    MANIFESTO PER UN'ALTERNATIVA NON VIOLENTA

    1. La presenza della violenza nel mondo ci fa prendere coscienza che «la vera vita è assente» e la volontà di «cambiare il mondo e la vita» ci impegna nel dinamismo della non-violenza. La non-violenza, liberandoci dalla fatalità della violenza che sembrava pesare sull'uomo e sulla storia, alimenta allora una nuova speranza, un nuovo benessere, una nuova cultura.
    2. La violenza non deve sempre essere considerata come frutto della malvagità e della cattiva volontà. Essa svolge nella nostra società delle funzioni necessarie, sia che si tratti di difendere la libertà oppure di combattere per la giustizia. Quindi non si tratta tanto di condannare la violenza, quanto di ricercare una alternativa alla violenza. La non-violenza non può dunque essere definita come il semplice rifiuto dei mezzi violenti: essa implica il ricercare e tradurre in azione dei metodi e delle tecniche che mirano a una reale efficacia.
    3. L'impegno nella non-violenza ci obbliga a mettere in evidenza í meccanismi che generano la miseria, l'oppressione, la rivolta e la violenza. Non ci è permesso condannare nello stesso modo «tutte le violenze, di ogni genere e da qualunque parte esse vengano». Noi non dobbiamo mettere su uno stesso piano la violenza dei ricchi e dei potenti che si sforzano di mantenere il loro dominio e di difendere il disordine stabilito, e la violenza degli oppressi che si sforzano di conquistare la loro dignità e la loro libertà.
    Se, di fronte all'ingiustizia, la scelta fosse soltanto tra la resistenza violenta e la collaborazione rassegnata, allora meglio sarebbe scegliere la violenza. Quelli che hanno scelto questa via, prendendo su se stessi i più grandi rischi meritano il nostro rispetto e la nostra solidarietà.
    4. La lotta non-violenta implica una attenzione particolare alla dimensione politica degli avvenimenti. Esige:
    – una informazione permanente,
    – una rigorosa analisi politica ed economica,
    – un progetto politico,
    – l'elaborazione e la messa in opera di una strategia.
    La non-violenza non deve affatto fermarsi alla contestazione, essa deve anche elaborare la gestione della nuova società che vuole edificare, attraverso la realizzazione di un programma costruttivo.
    5. L'azione non-violenta intende sfruttare tutti i mezzi di persuasione; ma essa non si limita solo a questi. Al momento opportuno non esita a ricorrere a dei mezzi di pressione e di costrizione che mirano a far cadere l'avversario e a metter fine all'ingiustizia. Essa è allora la messa in azione di una forza capace di offrire grandi possibilità all'amore e alla verità. Per non contraddirsi, l'azione non-violenta esige:
    – un profondo accordo fra i mezzi utilizzati e il fine ricercato,
    – una ricerca di riconciliazione e di giustizia, non di vendetta o di sopraffazione,
    – il rifiuto di ogni atto e di ogni parola che confermerebbe l'avversario nella propria violenza e gli offrirebbe un pretesto per giustificarla.
    6. Il principio essenziale della strategia dell'azione non-violenta è il principio della non cooperazione o della non collaborazione. Si fonda sulla seguente analisi: la forza delle ingiustizie in una società viene dal fatto che esse beneficiano della cooperazione della maggior parte dei membri di questa società. Attraverso l'organizzazione di azioni collettive questa strategia mira non alla presa del potere per il popolo, ma alla presa del potere da parte del popolo.
    La non-violenza ci conduce dunque ad azioni di rottura con il disordine stabilito, giungendo fino alla disobbedienza civile quando le possibilità offerte dalla legge sono state sfruttate invano.
    7. La non-violenza non fa sue, né a livello di analisi né a livello di progetto, le affermazioni abusivamente semplificatrici del pacifismo e dell'antimilitarismo quali si sono tradizionalmente espresse. Ancora, piuttosto che moltiplicare le condanne, che l'esperienza ci dice essere inoperanti, la non-violenza si sforza di ricercare i mezzi di una difesa civile non-violenta che possano permettere alla popolazione di organizzare una vera resistenza in casi di aggressione.
    In questa prospettiva, la non-violenza ci porta a preconizzare l'obiezione di coa scienza di fronte alla guerra e alla sua preparazione. Questo implica in particolare il rifiuto del servizio militare e la sua sostituzione con un servizio civile che sia occasione di una ricerca teorica e pratica dei metodi di azione non-violenta capaci di promuovere la giustizia sociale e di assicurare la sicurezza delle comunità.
    8. La non-violenza ci porta a condividere l'analisi e la ricerca di coloro che denunciano contemporaneamente l'incapacità del capitalismo a organizzare la società secondo le esigenze della libertà. La non violenza, 'attraverso il dinamismo proprio al suo spirito e ai suoi metodi, ci porta a promuovere un «socialismo dal volto umano», fondato sulla corresponsabilità e l'autogestione.
    9. La libertà, l'uguaglianza e la fraternità esigono, per essere vissuti nella società, ad un tempo una rivoluzione delle strutture e una conversione delle persone, l'una congiungendosi all'altra in un movimento dialettico. Non possiamo attendere che l'una sia finita per poter cominciare l'altra. Sviluppando all'interno stesso del conflitto la padronanza di sé, il rispetto dell'altro e il senso della responsabilità, l'azione non violenta permette di intraprendere l'una e l'altra contemporaneamente.
    10. Dobbiamo resistere alla tentazione di parlare sempre della rivoluzione degli altri, senza impegnarci e comprometterci personalmente in casa nostra. Ogni problema deve essere affrontato partendo dagli aspetti dove si trovano direttamente impegnate le nostre responsabilità. a questo livello che noi possiamo e di conseguenza dobbiamo agire.
    Coloro che hanno scelto la non-violenza non devono isolarsi nella loro ricerca della giustizia e della pace. Essi devono impegnarsi nei diversi movimenti e nelle diverse organizzazioni che lavorano già in questo senso, facendovi valere la fondatezza dei metodi dell'azione non-violenta. Tuttavia essi devono ritrovarsi per approfondire le esigenze e le possibilità della non-violenza e prendere subito l'iniziativa di azioni non-violente alle quali possa partecipare il più gran numero di persone.
    La riflessione sulla non-violenza e l'azione che essa preconizza dovrebbero riunire in uno stesso dibattito e una stessa lotta tutti coloro che, venendo da orizzonti filosofici o religiosi diversi, hanno ugualmente fame e sete di una vera giustizia. (Comunità di Ricerca e di Azione non-violenta di Orléans).


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