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    Un nuovo rapporto educativo



    Rosa Eugenia Briano

    (NPG 1977-07-45)


    LE PERSONE

    Può apparire ovvio soffermarsi su questo tema, tanto è scontata la sua preminenza. Tuttavia se c'è un «luogo» dove è urgente ricuperare in pienezza il senso della persona questo – e può sembrare un paradosso – è il rapporto educativo.
    Le strutture educative – e non intendo qui soltanto la scuola, ma anche le altre strutture in cui normalmente si fa l'educazione alla fede (parrocchia - catechesi dei sacramenti...) – oggi non facilitano l'incontro delle persone e il loro mutuo riconoscersi in un rapporto intersoggettivo autentico. I ruoli di docente e discente, così rigidi spesso nella realtà scolastica, si ripetono anche fuori di essa; il diaframma tra i due è spesso massiccio, impenetrabile e fortemente alienante. A livello adolescenziale, nel momento in cui l'esigenza del modello di identificazione adulto è più acuta, nella stragrande maggioranza dei casi viene rifiutato il modello rappresentato dal professore, dall'educatore in generale. Salvo rarissimi casi, in cui, da una rottura netta degli schemi, viene fuori un modello «diverso» e per ciò stesso esaltante e quindi appassionatamente accettato. Il che vale a dire, da un lato, la gravità del fenomeno di sclerosi delle strutture educative e, dall'altro, l'urgenza di un recupero del «modello diverso». Emerge qui drammatico il problema della crisi della scuola e, in parte anche delle strutture ecclesiali.
    Il rigetto violento da parte dei giovani di una scuola intellettualistica, astorica, sganciata dalla realtà esistenziale; la disaffezione frequente per la comunità cristiana, che appare non di rado ancorata alla pratica religiosa rituale più che al cammino di conversione e di comunione fraterna, impone a chi voglia porsi sul terreno educativo un ricominciamento, una metànoia radicali. Perché si possa osare un'educazione alla fede, mi pare che sia essenziale – sul piano pedagogico – trovare il modo di essere sempre e dovunque «persone» in dialogo, in ascolto, in cammino.
    E qui aggiungerei un'osservazione: se è essenziale il rapporto interpersonale a livello di individui, questo rapporto diventa realmente efficace solo nel contesto comunitario.
    Non è difficile rendersi conto del divario che esiste troppo spesso tra i modi attuali di vivere l'esperienza educativa e le modalità che esigerebbe una proposta di fede in un contesto educativo adolescenziale. Eppure è necessario che questo divario venga colmato, che i «ruoli» tradizionali vengano abbandonati e che un rapporto nuovo di umiltà, di amore da parte dell'educatore, di scoperta gioiosa e di progressiva fiducia da parte del giovane, venga a permettere una crescita educativa in un contesto autentico di vita e di esperienza esistenziale. Se l'educazione cristiana ha come meta l'integrazione fede-vita, e non credo che ne possa avere di più alta, questa integrazione deve essere un processo graduale ma costante, un dinamismo vitale che sottenda tutta l'azione educativa.
    Cambiare il tipo di relazione tra docente e discente, tra docente e docente, tra alunno e alunno, tra giovane e adulto, tra struttura formativa e realtà (sociale - politica - ecclesiale) significa allora individuare in modo creativo, originale nuovi progetti educativi, adeguati alle situazioni, alle istanze di coloro ai quali vengono proposti.
    La riforma della scuola, qualora andasse in porto, come il rinnovamento della catechesi già in fase così avanzata di elaborazione, resterebbero inutili cattedrali nel deserto se non venissero ripensati, «ricreati» nella realtà educativa «concreta» in cui ognuno opera, semi che devono dar vita a tante piante diverse e irripetibili quante sono le zolle di terra in cui vengono trapiantati.
    La proposta educativa, soprattutto sul piano dell'educazione alla fede, non è mai fatta: è sempre tutta da fare, perché coinvolge in un cammino di crescita comune, di educazione permanente, di conversione comunitaria tutti coloro che ne sono protagonisti come educatori o come educandi, con reciprocità e ambivalenza di ruolo per tutti e per ciascuno.
    Da questa ottica l'immagine del «luogo educativo per una proposta di fede» si diversifica in un pluralismo inesauribile di espressioni pedagogico-operative, all'interno delle grandi strutture che tutti conosciamo (scuola statale - scuola libera di ispirazione cristiana - parrocchia - gruppi ecclesiali organizzati...); la diversificazione è legata infatti alla capacità di interpretare le istanze profonde della comunità – e qui si intende soprattutto in essa la componente «adolescenti» – e di radicarsi nell'humus culturale e sociale che si esprime nel territorio.
    Penso che oggi non sia possibile essere educatori – e soprattutto educatori cristiani – senza un impegno di inculturazione autentico, senza uno sforzo creativo, capace di libertà evangelica e di evangelica accettazione del rischio, senza – soprattutto – essere «comunità di fede in cammino».

    OBIETTIVI

    Una prospettiva educativa in ascolto delle voci e dei segni che salgono dagli eventi e dagli uomini ha bisogno più di ogni altra di avere degli obiettivi a cui tendere. Ma tutti sappiamo quanto fluida, mutevole, contraddittoria sia la vicenda odierna, quante tensioni, quanti conflitti ne modifichino senza tregua le connotazioni, quanto ambigui e devianti possano essere le chiavi di lettura e di interpretazione che ci vengono offerte.
    Pertanto se vogliamo indicare come obiettivi finali la maturazione di una struttura di personalità, di un progetto di sé ordinato a Dio perché nato dall'incontro vitale con Cristo, o, – in altra forma – l'integrazione della fede nella vita, vista come un cammino di progressiva liberazione dell'uomo e degli uomini attraverso il mistero di salvezza, rimane oscuro l'itinerario che conduce a tale meta. Rimane soprattutto problematica la scelta delle tappe, delle mete intermedie, dei passi successivi. E qui ho l'impressione che la nostra esperienza recente sia una storia di tentativi generosi, qualche volta audaci, ma in molti casi piuttosto deludenti, da un punto di vista critico.
    Da un lato, una preminenza assoluta data ai grandi obiettivi ha creato la illusione di poter sopprimere l'andare faticoso e paziente su un itinerario tracciato e ci si è spesso smarriti in avventure pionieristiche che, senza aprire nuove strade, hanno lasciato ricoprire d'erbe le vecchie. Da un altro lato l'apprensione della novità, la paura non ingiustificata del rischio, ha fatto ridimensionare le ambizioni e si è ridotto l'annuncio di Cristo e la proposta di fede a un sociologismo terrestre e pseudorivoluzionario, in pura dimensione orizzontale, oppure ci si è attestati su posizioni di cauto riformismo didattico, pur di salvare il salvabile.
    E possibile uscire oggi da questa ambiguità e dall'equivoco?
    Usando un'altra traduzione verbale degli obiettivi suaccennati, mi pare di poter affermare che educare alla fede significhi, in termini pedagogici, aiutare l'adolescente a scegliere liberamente Cristo, a impegnare consapevolmente la sua vita per Lui, a riconoscersi in una comunità, la Chiesa.
    Aiutare, cioè promuovere, stimolare, ma anche rispettare i ritmi, accettare i tempi lunghi, le involuzioni, le crisi.
    Scegliere liberamente, cioè offrire spazi di autonomia, di esercizio di libertà, aree di errori possibili; accettare di non esercitare direttività e autoritarismo, senza peraltro rinunciare ad accompagnare, a fare insieme il cammino.
    Impegnare consapevolmente la vita, cioè favorire il contatto con il mondo, con i gruppi sociali e la loro conflittualità, ma in pari tempo fornire gli strumenti di capacità critica, di razionalizzazione dell'esperienza, di valutazione oggettiva; demistificare strumentalizzazioni, manipolazioni e condizionamenti.
    Riconoscersi nella comunità-Chiesa, cioè offrire la possibilità di vivere la esperienza comunitaria nei suoi difficili dinamismi di socializzazione, aperti alla solidarietà, al servizio, all'autocritica onesta, condividendola in tutte le sue dimensioni. Su quest'ultimo punto, le prospettive sono apertissime e ancora in gran parte da esplorare. Il senso della comunità, il senso della Chiesa non sono una realtà già acquisita: se ne parla molto, ma più per denunciare la carenza e l'esigenza, che per viverne l'esperienza; d'altra parte i gruppi che stanno traducendo nella loro prassi con vigore e convinzione la dimensione comunitaria, spesso tendono a difenderla e a esaltarla chiudendosi su di sé e, in certo senso, isolandosi dagli altri e «ghettizzandosi». Il che contraddice di fatto, se non intenzionalmente, la volontà di comunione e di socializzazione da cui partono. Il cammino è quindi ricco di contraddizioni e di errori. Ci si può infatti facilmente incontrare nell'enunciazione degli obiettivi di un'educazione alla fede, sia pure attraverso la mediazione dei linguaggi delle diverse discipline; si può anche senza troppa fatica delineare quella tipologia dell'uomo liberato da Cristo e capace di un'opzione radicale di fede che è oggetto di ogni proposta di annuncio e di catechesi. Ma la difficoltà e l'impegno crescono a dismisura quando si tratti di calare e tradurre nell'hic et nunc di una ben localizzata situazione una risposta concreta e di farne un progetto educativo tale da sollecitare il consenso e la partecipazione di quanti ne sono destinatari o soggetti attivi. L in questa fase che gli obiettivi devono assumere i contorni capaci di renderli comprensibili, devono trovare l'espressione verbale che li renda leggibili, devono esprimere una credibilità e una carica vitalizzante dalla testimonianza e dall'impegno degli adulti, tali da promuovere nei giovani disponibilità e fiducia.

    LINEE OPERATIVE

    Non mi pare utile porre pregiudizialmente distinzioni nette tra la educazione alla fede nella scuola e quella che si attua in ambienti non scolastici. L evidente tuttavia che i condizionamenti che intervengono nella scuola sono diversi, e talvolta di segno contrario, da quelli che incontriamo altrove, così come appare evidente la diversità di situazioni tra scuola statale e scuola libera di ispirazione cristiana. Ricorderei soltanto il peso di indiscutibile valenza negativa della struttura scolastica in quanto tale, e, per riscontro, l'incidenza di una consuetudine di vita e di rapporti offerta proprio dalla scuola per la continuità dei rapporti, rispetto a strutture più labili e occasionali quali i gruppi e la catechesi parrocchiale. Ma, se vogliamo rifarci alle premesse, il problema non sta tanto nel tipo di strutture o nella «quantità» o durata degli interventi, quanto nella «qualità» dei rapporti e nei «modi» di operare.
    Volendo semplificare ed esemplificare, non per esaurire l'argomento, ma solo per stimolare il dibattito e porre interrogativi, indicherei qui alcune delle linee operative che mi sembrano essenziali in qualsiasi situazione di proposta di fede:
    – Stabilire relazioni per una comunicazione a livello delle persone.
    – Promuovere una partecipazione reale, consentendo ai giovani di gestire, o per lo meno di cogestire, il loro processo di crescita.
    – Tendere con tutte le forze a convertire il progetto educativo in un'esperienza di vita comune, per quanti sono coinvolti in esso, per giungere infine a un'esperienza comune di fede.
    – Aprire a queste esperienze spazi e orizzonti sempre più ampi, con un inserimento progressivo nelle strutture del territorio – civiche ed ecclesiali – e promuovere un impegno di tutte le componenti nel sociale, con assunzione personale, consapevole e senza ambiguità, della propria identità di cristiano.
    Commentando brevemente e riferendomi a quanto già è stato detto, aggiungerei soltanto che l'incontro delle «persone» (l'educatore, anzi gli educatori adulti con il giovane) sul piano dell'educazione alla fede conduce, se è autentico, a una «comunicazione» a livello di esperienza profonda. Ci si apre allora all'ascolto reciproco; il cammino dalla parola dell'uomo alla Parola di Dio favorisce il passaggio dalla relazione con la persona (educatore – amico – genitore) a quella con la Persona di Cristo.
    Questa situazione è rara e privilegiata: non è certo un punto di partenza e per lo più rimane meta in prospettiva, più che punto di arrivo verificabile; tuttavia importa chiederci qui se e quando abbiamo posto il problema dell'educazione alla fede (ma anche quello dell'educazione in generale) in questi termini. Non si educa e non ci si educa interpretando ruoli, ma «crescendo» insieme, autenticamente, dopo che noi adulti avremo abbandonato le difese e le paure che ci impediscono di presentarci a volto scoperto. E può parer banale, ma forse non lo è del tutto, ricordare che l'educazione alla fede dura tutta la vita e finisce solo con l'incontro, a faccia a faccia, col volto di Cristo, nel Regno del Padre.
    Promuovere la partecipazione e la cogestione nei giovani vuol dire ascoltarli, con serietà e con rispetto, senza atteggiamenti demagogici o giovanilistici, ma con la sincera volontà di porre i problemi nei termini esatti che la loro coscienza e la loro voce ci fornisce. E questo implica cercare anche insieme le possibili soluzioni, motivare preferenze e scelte, accettare il rischio di sbagliare, sottoporre a revisione critica il cammino percorso. Può significare anche destrutturare piani, previsioni, programmi organizzativi, con conseguenti disagi, inefficienza apparente, anche se momentanea, forse insicurezza. una esperienza nuova, non facile da gestire, perché può sfuggire dalle mani se non è frutto di una vera comunità di sforzi e, più ancora, di comunione nello spirito.
    Per questo motivo il trapasso tra un progetto educativo elaborato secondo una linea dinamica, storicizzato tappa per tappa dalla partecipazione di tutti, non può non trasformarsi in autentica esperienza di vita – e perciò in processo di crescita –, e più ancora, nel nostro caso, in esperienza di fede. Posso testimoniare, per esperienza personale, che questo trapasso, anche se lento, faticoso, sofferto, è nella logica normale e che, anche nella scuola, – dove inizialmente appaiono preminenti gli aspetti didattico-metodologici, – il cammino di fede, se c'è una comunità educativa che ha conoscenza lucida delle sue finalità, diventa la chiave di lettura e il segno caratterizzante di tutta la realtà educativa.


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