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    Una lettera «profonda» delle testimonianze /2. Un animatore di seminario



    Giuseppe Anfossi

    (NPG 1977-10-34)

    La lettura delle testimonianze mi lascia un'impressione molto positiva e un sentimento intimo di fiducia e quasi il desiderio di essere un po' come chi ha scritto o addirittura al suo posto.

    Prima «essere» e poi «fare»

    Trovo molto positiva l'importanza data dai più, se non da tutti, all'«essere» sul «fare». L'esigenza di unità interiore, personale e evangelica; il bisogno di vivere, in piena convinzione, valori, fede e preghiera prevale infatti sul «come fare», sul «come saperli prendere» o sul saper parlare e organizzare.
    È molto sentito anche il bisogno di «essere dentro», condividere, fare amicizia, non essere tagliati fuori, come lo sono molti adulti, e tuttavia non venir meno alla propria autenticità di convinzioni e di missione di preti. Questo modo di essere incarnati, e cioè come dice uno «star dentro ma non in perdita», questo starci come lievito e sale nella pasta, è più presente che non qualche anno fa. Tutto questo è positivo. Trovo che ha un buon rilievo la castità, sia come testimonianza, libertà, capacità di amore per tutti e per i più poveri, sia come disponibilità generosa e dedizione senza limiti: cosa importante per chi è giovane; un po' meno dopo una certa età.
    È fatto uso di riferimenti alla presidenza dell'Eucaristia e alla predicazione della Parola, ma il linguaggio usato sa ancora di cose nuove, per quanto giuste, non perfettamente entrate nell'esperienza di vita dei gruppi giovanili.

    Quale testimonianza?

    Mi pare di notare che ha molto minor rilievo che qualche tempo fa la parola «testimonianza». Si avverte – mi pare di capire – che per stare con i giovani non basta «amarli», «dedicare tutta la propria vita», «essere continuamente disponibili», «farsi mangiare», «essere amici»... come importanti in una certa luce di fede, ma non sufficienti (rischiano il moralismo).
    È detto anche che bisogna possedere idee personali, saperle confrontare e ingaggiarsi su temi impegnativi come il senso ultimo delle realtà che si vivono o quelli politici. E ancora si dice che bisogna saper prendere delle posizioni pratiche e decidere con chi stare.
    Questo permette di far notare quanto importante siano – e le testimonianze lo confermano – nel prete che sta con i giovani i suoi mezzi culturali e la sua personalità di uomo prima che di prete.
    Ho notato che il richiamo al Vangelo è fatto come al «discorso» unico che può essere preso in considerazione dai giovani: questo è positivo come ritorno all'essenziale della fede in Gesù, ma è nello stesso tempo il segno della debolezza degli altri discorsi che sono elaborati dai
    «movimenti» di Chiesa o dal magistero stesso della Chiesa. Questo fa però innalzare il livello di capacità culturale e di discernimento di fede richiesto al prete che sta con i giovani.

    Fare il prete «nella» comunità

    Il problema di tutti il più grave – non è un'accusa ai preti in causa ma la segnalazione di un problema che li tocca e insieme li supera – è che dalla lettura di tutte le testimonianze si riceve l'impressione poco simpatica di giovani che vengono contattati e aiutati a crescere lontano dal mondo degli adulti e fuori di una comunità di Chiesa in cui altri adulti siano presenti.
    Ci sono, è vero, casi-limite in cui il resto della parrocchia è addirittura contro-testimoniante, ma secondo me non c'è sufficiente tensione a situare il prete, con la funzione che gli è propria, in una comunità umana, sociale, ecclesiale più ampia. Alcuni preti danno l'impressione di proporre – grazie all'amicizia e dedizione di cui sono capaci – un rapporto io-tu con i giovani, in cui l'io-prete è eccellente ma solo, e i tu-giovani esseri speciali aiutati ad essere giovani solo fin quando non saranno ancora adulti.

    La dimensione sociale del servizio presbiterale

    Questo fatto, che ho detto globale, si sfaccetta in vario modo. Ad esempio, i giovani di cui si parla non hanno ambiente sociale di provenienza, sono quasi assenti gli operai e, soprattutto, non hanno mondo adulto di inserzione. Uno solo parla di matrimonio. Molti di educazione all'amore. Nessuno di professione, di lavoro o di mondo operaio o, comunque, di mondo del lavoro.
    Così ancora la funzione del prete stenta a venir fuori e nonostante il riferimento all'Eucaristia e alla Parola, si ha l'impressione che sia messo troppo da parte il rapporto misterico, l'azione dello Spirito, in ogni relazione di grazia e in ogni costruzione di comunità.
    Soprattutto non si giustifica l'assenza di altri adulti né ad una sola analisi socio-culturale né ad una ecclesiale e di fede.
    La stessa dedizione assoluta che fa della vita del prete un dono – cosa stupenda, intendiamoci – lascia supporre che gli altri adulti, i laici, gli sposati, gli altri preti debbano rimanere esclusi da un discorso con i giovani.
    Tutto questo, in poche parole, suona così: il limite della pastorale della nostra Italia è di investire la quasi totalità delle energie per i bambini, un rimasuglio per i giovani, nulla o quasi per gli adulti. Questa «politica» fa di molti preti degli eroi, ma lascia intatto il quadro ecclesiale che riguarda gli adulti nella Chiesa.

    La crisi di molti ruoli istituzionali

    Una considerazione a parte deve essere fatta per il prete quando assume ruoli istituzionali: il prete che è insegnante, il prete parroco o vice-parroco, il prete che assume ed esercita suoi ruoli «culturali» e quindi ufficiali di celebrante l'Eucaristia, di confessore...
    In entrambi i casi ci sono difficoltà: i ruoli istituzionali sono sempre – o quasi – visti come ostacolo o addirittura velo della propria intima verità di uomo e di prete.
    Nel caso dell'insegnante la difficoltà è vista come disagio dovuto ora all'essere in una scuola privata, ora all'avere un compito di giudizio (promuovere o bocciare), ora al contenuto del discorso culturale-scolastico che non è recepito. Nel caso del prete che dice messa e predica l'omelia... si avverte il bisogno di recuperare con altri rapporti più spontanei, di ricorrere a variazioni di atteggiamento (come è di chi presenta la sua omelia come parola di semplice cristiano, cosa teologicamente inaccettabile), porre giustamente il problema del linguaggio e dei segni usati o, infine, fare ricorso a comunità «speciali» come Bose, Taízé.
    Questo fatto pone degli interrogativi grossi ai pastori, vescovi compresi. Non solo è un mettere in discussione la riforma liturgica appena ultimata quanto a direttive e testi, non solo pone il problema di coerenza tra gesti liturgici e stile e scelte di vita nel gruppo che celebra, ma evidenzia rotture tra giovani e adulti, tra giovani e Chiesa e soprattutto costringe a constatare che non è possibile ridare al prete il suo posto se non si costruisce una comunità cristiana totale in cui tutti i ministeri e tutte le componenti siano presenti.
    In una società cristiana senza conflitti tra generazioni e tra concezioni diverse della vita e della vita cristiana, i ruoli istituzionali non fanno problema a nessuno. Se ora sono di ostacolo è perché la Chiesa nel suo complesso appare lontana dalle aspirazioni e dai valori che un cristianesimo giovanile va proponendo.


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