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    Una lettura esistenziale della Bibbia come «evento narrativo»



    Carlo Molari

    (NPG 1989-06-96)


    Fare della lettura biblica comunitaria un «evento narrativo» è cercare di inserire la piccola storia degli uomini nella grande storia della salvezza, per coglierne il senso e svelarne i risvolti nascosti. Questo inserimento e questa epifania si realizzano con due movimenti concentrici: il primo coglie nel vissuto presente l'incidenza degli eventi passati che vengono narrati, il secondo vi individua le anticipazioni o le tensioni del futuro che preme.
    Questa operazione ha due presupposti: l'unità e la continuità della storia di salvezza, e la legge della incarnazione, conseguente al carattere trascendente dell'azione divina. Per chiarire quindi il valore ed eventualmente il metodo di una lettura comunitaria della Bibbia in gruppi giovanili, è opportuno riflettere su queste premesse teologiche. E l'intenzione di queste pagine.
    Le riflessioni qui proposte non nascono da esperienze dirette, se non molto sporadiche, e non hanno quindi carattere descrittivo, ma impostazione teorica.
    Esse sono una analisi delle premesse dottrinali e delle componenti essenziali di una narrazione salvifica, più che una presentazione sistematica di esperienze; sono espressione di un desiderio, più che di una acquisizione vitale. Non narro perciò episodi, ma chiarisco dottrine.
    È un limite di queste pagine e insieme la loro chiave di lettura.

    UNITÀ DELLA STORIA SALVIFICA

    L'interpretazione della esistenza umana come sviluppo di una storia salvifica è un recupero della teologia post-conciliare, ma ha una lunga tradizione: biblica, patristica e monastica.[1]
    Già secondo la tradizione jahvista e negli sviluppi che essa ha avuto, l'elezione di Abramo, le avventure dei patriarchi, l'esperienza centrale dell'esodo dall'Egitto e tutti gli avvenimenti successivi vengono inseriti nel quadro della creazione e interpretati unitariamente. Ciò che succede nella storia risponde ad attese, realizza profezie, compie promesse. Lo sviluppo della interpretazione tipologica e simbolica della Bibbia nella tradizione cristiana poggia su questa identica prospettiva unitaria di tutta la storia umana, come luogo dell'azione di Dio. Egli ha un proprio stile, precise regole di comportamento e, nonostante le infedeltà di molti uomini, mantiene fede alle proprie promesse.

    Il modello antropocentrico

    Questo modo di pensare segue un modello antropomorfico: attribuisce, cioè, a Dio modalità umane di pensiero e di azione. Rende tuttavia molto bene l'acquisizione fondamentale della religiosità ebraica, passata poi nella teologia cristiana: la storia non è un semplice riflesso di eventi trascendenti, come riteneva il pensiero mitico, ma lo svolgimento reale di un progetto organico, cui l'uomo è chiamato a collaborare.
    Anche la impostazione cristocentrica, per cui tutta la storia viene interpretata come preparazione o sviluppo della venuta di Cristo, posta al centro della storia umana, risente della tendenza di ogni uomo e dei popoli, di considerarsi il centro del cosmo e di giudicare tutto secondo questo punto di vista.
    Ma anch'essa traduce una scoperta fondamentale: il processo della storia umana consente una progressiva rivelazione dell'azione creatrice di Dio. In Cristo essa ha avuto un momento di particolare valore e ha assunto forme definitive. Vivere perciò un'esperienza di fede cristiana significa collegarsi a questa rivelazione e continuarla nella storia umana. Narrare l'esperienza vissuta significa, invece, chiarirne il senso e confrontarlo con quello emergente da altre analoghe esperienze.

    AZIONE DI DIO

    La narrazione di un'esperienza di fede religiosa suppone necessariamente una interpretazione dell'azione divina all'interno della storia umana e della creazione.
    Esistono molti modelli al riguardo. Ne indico tre: modello magico, modello miracolistico e modello trascendente.

    Modello magico

    Una concezione sacra della natura suppone una presenza attiva di Dio in senso spaziale e temporale, come se Egli abitasse luoghi particolari e vi operasse allo stesso modo delle creature.
    Secondo questo modello, l'azione di Dio è pensata come una componente intrinseca degli eventi e come una dimensione fisica delle cose. A questo si aggiunge la convinzione che alcune realtà create siano in grado di assorbire e di trattenere poteri trascendenti e quindi, a determinate condizioni, di poterli trasmettere. L'atteggiamento magico diffuso ancora presso molti anche in società secolarizzate, è espressione residua di queste convinzioni.
    Superata la fase sacrale è rimasta ancora a lungo la convinzione che l'azione divina fosse una componente fisica necessaria della natura e della storia. Dio è stato ancora concepito come la causa che attribuisce, con la sua presenza attiva, caratteristiche specifiche alla materia indifferenziata attraverso «una certa quantità di moto».[2]
    Solo in tale prospettiva Newton poteva definire i corpi: «quantità determinate di estensione che Dio, ovunque presente, dota di certe condizioni».[3]

    Modello miracolistico

    Man mano che la scienza ha individuato i nessi operativi dei diversi fenomeni naturali e storici, si è diffuso il concetto di legge naturale e di storia, ed è diventata sempre più comune l'idea di una azione divina iniziale, che avrebbe impresso il movimento a tutti gli esseri del cosmo creato i quali, procedendo secondo natura o libertà, non esigono altri interventi operativi.
    Restava però da chiarire il caso di fenomeni inconsueti e straordinari che sembravano esigere ulteriori interventi di Dio.
    Per questo si pensò a interventi specifici di Dio che, modificando le leggi della natura, aggiungevano energia vitale o forza fisica in modo da produrre effetti non previsti nello sviluppo naturale del creato. In tale modo si sviluppò una teologia del miracolo, che cercò anche sostegni filosofici.
    Si parlò così di fenomeni preternaturali e soprannaturali. Come tali vennero considerati: l'origine della vita dalla materia inanimata, l'emergenza dell'uomo da forme animali preesistenti e i diversi eventi straordinari della storia salvifica. L'agire divino era pensato ancora come una componente fisica del cosmo e della storia, anche se l'intervento di Dio veniva limitato ad alcuni momenti particolari.

    Modello trascendente

    Anche il modello miracolistico è entrato in crisi. Le acquisizioni scientifiche di questo ultimo secolo hanno modificato alla radice il modo di interpretare la materia e le forze che la pervadono, come pure la storia umana e le sue dinamiche. La filosofia, anche se non sempre in modo consapevole, ha puntualmente registrato queste mutazioni dell'orizzonte culturale.
    La teologia ha resistito più a lungo alle sollecitazioni scientifiche e, spesso solo attraverso la mediazione della filosofia, con cui ha conservato un dialogo più assiduo, la teologia ha acquisito modelli culturali nuovi.
    Dopo la scoperta della radioattività e dopo l'acquisizione della relatività, non è più possibile pensare alla natura come a un principio autonomo, alla materia come un sostrato inerte ed immobile di movimenti impressi dall'esterno, e all'azione di Dio come il sostegno fisico necessario al moto delle creature.
    Analogamente lo sviluppo delle scienze storiche ha messo a punto criteri e metodi per individuare le dinamiche interne dei fenomeni, che si succedono nelle società umane, senza dover ricorrere a causalità trascendenti.
    La teologia è stata condotta a formulare un modello diverso dell'azione divina che, da una parte, tenga conto del concetto di creazione come dipendenza totale e radicale nell'essere e, d'altra parte, chiarisca il carattere trascendente dell'azione divina.
    Senza ripercorrere tutte le tappe e i diversi aspetti di questo cammino teologico,[4] vorrei richiamare soltanto due affermazioni di grande portata teorica. Esse valgono non solo per i fenomeni fisici, ai quali direttamente si riferiscono, ma anche per quelli storici.
    La prima, di Teilhard de Chardin, esprime efficacemente l'acquisizione di nuove categorie teologiche: «Quando la causa prima opera, non si inserisce nel mezzo degli elementi di questo mondo, ma agisce direttamente sulle nature in modo che, si potrebbe dire, Dio non fa tanto le cose, quanto opera in modo che esse si facciano».[5]
    K. Rahner in dialogo con gli scienziati, analogamente scriveva: Dio «non opera qualcosa non operata dalla creatura, né si affianca all'agire della creatura: rende solo possibile alla creatura superare e trascendere il proprio agire». E ne concludeva che: «Dovunque si riscontra nel mondo un effetto, se ne debba postulare la causa nel mondo stesso e la si possa e debba cercare appunto perché Dio, rettamente concepito, opera tutto mediante le cause seconde».[6] Più recentemente scriveva: «Le vicende e gli eventi di un ente finito stanno continuamente sotto la pressione (se così possiamo dire) dell'essere divino. Tale pressione non rientra nei costitutivi essenziali di un esistente finito, però può farne sempre qualcosa di più di quanto essa sia in sé o farlo propriamente diventare quello che è».[7]
    È forse utile ricordare che tale concezione rappresenta il traguardo di uno sviluppo di pensiero continuato per millenni. Senza richiamarsi al pensiero indiano, ancora molto distante dalla nostra cultura, è sufficiente richiamare la teologia deuteronomistica relativa all'azione di Javhé nei confronti di Israele.
    N. Lohfink riassume in questo modo tale teologia: «L'agire di Jahvé nei confronti di Israele è unico e inconfondibile. Non è questione di individuare accadimenti in cui sia riscontrabile l'azione di Jahvé e altri che ne siano esenti. Piuttosto il suo agire è riscontrabile ovunque da nessuna parte. La sua azione abbraccia i secoli. L'agire di Jahvé non è una azione puramente storica, ma si manifesta anche nella fertilità della natura».[8]
    In questi testi però manca completamente l'idea di sviluppo, di crescita e di progresso. Non viene prospettato un futuro superiore, che invece appare nei brani messianici e nella prospettiva abituale del Nuovo Testamento.[9]

    STORIA QUOTIDIANA DELLA SALVEZZA

    Nella prospettiva delineata, ogni luogo e ogni tempo può permettere una esperienza religiosa, ogni evento e ogni situazione può essere vissuta in modo salvifico. Il che significa che l'uomo è in grado di vivere tutte le circostanze della sua esistenza in modo da accogliere doni di vita e crescere come figlio di Dio.
    La maturità della persona, perciò, è la capacità di portare tutte le situazioni, anche quelle avverse, senza esserne schiacciati, ma crescendo, anzi, come figlio di Dio. Il divenire persone non è semplicemente risultato del tempo che passa, e la identità di figli di Dio non si acquisisce automaticamente, frequentando certi ambienti o appartenendo a gruppi sociali Essa è risultato di rapporti vissuti, di persone interiorizzate, di amore accolto.
    La natura e la storia non sono quindi estranee all'esistenza redenta, anzi ne sono una componente essenziale, ma non come spazio riservato a Dio, bensì come ambito aperto alle possibilità dell'uomo in virtú di una presenza indicibile, di un'azione trascendente e di un amore fondante.
    Dio, allora, non viene pensato come agente tra gli enti creati, ma viene colto nella sua indicibile presenza che fa di ogni tempo un suo tempio, di ogni luogo un suo spazio, ma solo in quanto essi sono abitati dall'uomo e vengono percorsi dal suo amore.

    LEGGE DELLA INCARNAZIONE

    In questa luce appare in tutta la sua portata la legge fondamentale della salvezza, realizzatasi con evidenza concreta in Cristo: la legge della incarnazione. Essa può essere espressa in questo modo: l'azione di Dio non è efficace nella storia umana se non diventa gesto di uomini: la parola di Dio è silenzio finché non risuona in parole umane; la presenza di Dio è irrilevante finché non si fa carne.
    Con il termine «incarnazione», nella fede cristiana si riassume il mistero di Cristo come presenza di Dio nella storia degli uomini.
    «Incarnazione», però, non significa discesa in terra di un essere celeste, bensì l'apparire della perfezione divina nella carne umana. Per la fede cristiana Gesù non è un semidio o un mostro umano, ma la realizzazione perfetta del progetto divino sull'uomo, l'accoglienza totale dell'azione creatrice di Dio a livello umano. Nella sua natura umana egli è perfettamente ed esclusivamente uomo e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi.
    Gesù rivela Dio agli uomini perché è compiutamente umano. Come tale egli è salvatore. Non ci ha salvato perché ha offerto qualcosa a Dio da parte degli uomini, ma perché ha svelato, nella sua esperienza storica, i tratti essenziali dell'azione e della realtà divina. Egli poteva dire: «Le parole che io vi dico non le dico da me stesso; il Padre che dimora in me fa le sue opere» (Gv 14,10). Nella sua realtà umana egli ha reso visibili la misericordia di Dio e la sua compassione per gli uomini.
    Ma la rivelazione di Dio non si è esaurita in Gesù. Egli è stato costituito Messia e Signore perché altri, riferendosi a lui, possano continuare la sua missione. Per questo egli ha assicurato i suoi: «In verità, in verità vi dico: chi crede in me, anch'egli farà le opere che io faccio e ne farà anche di più grandi» (Gv 14,12).

    Una Incarnazione che continua

    Le opere che possono consentire il proseguimento della rivelazione di Dio, come si è realizzata in Cristo, sono principalmente le opere della solidarietà con gli ultimi e della compassione per i sofferenti.
    Altre forme religiose hanno altri carismi, quella cristiana è definita dalla croce. Essa è diventata nel mondo il simbolo di una solidarietà che non teme la condivisione della morte, di una compassione che sa portare il male altrui fino all'estremo della sofferenza. Questa strada, segnata dal cammino storico di Gesù, è stata percorsa da numerose schiere di eroi che hanno introdotto nella storia umana correnti nuove di umanità e hanno consentito uno sviluppo inedito di intere società.
    Le sfide attuali della storia attendono altre forme di rivelazione, invenzioni nuove di solidarietà che introducono a inediti livelli di umanità.
    Narrare perciò le proprie esperienze salvifiche, indicare il cammino compiuto nello sviluppo personale e comunitario, significa riassumere la ricchezza di un passato, individuarne frutti nuovi e aprire inedite vie alle rivelazioni future.
    La storia salvifica, così, riassunta nel presente si fa messaggio per risposte da tempo attese, perché annunciate da promesse antiche, ma ancora non emerse nella storia.

    IL PRESENTE COME VERITÀ DEL PASSATO

    Ogni esperienza anche individuale è il risultato di una storia e ha i caratteri di un compimento. Ciascun uomo raccoglie in sé una tradizione e la sviluppa portandone frutti, o la disperde annullandone la carica.
    Narrare, quindi, le esperienze attuali acquista una funzione ermeneutica riguardo al passato: ne chiarisce le dinamiche, ne svela le ricchezze, ne individua le carenze. E tutto questo attraverso la proposta degli sviluppi, che il passato ha, in chi ne accoglie il messaggio, o delle conseguenze negative in chi ne subisce le passività deleterie.
    Nell'uno e nell'altro caso è la verità del passato, che appare in un compimento del presente. Il «fare memoria», perciò, ha una funzione essenziale nella tradizione ebraico-cristiana. La me moria permette di rintracciare nel passato le ragioni del presente e quindi di compierne le premesse.
    Anche la messianicità di Gesù e, quindi, il valore della sua missione, non sono stati ancora compiutamente svelati. Che egli salvi ancora può essere solo proclamato da chi fa esperienze salvifiche, cioè da chi, riferendosi a lui, impara ad amare, a perdonare, a fare comunione.
    Se scomparissero uomini salvati, non sarebbe possibile oggi proclamare la messianicità di Cristo; se nessuno potesse narrare esperienze salvifiche, la tradizione sorta da Gesù di Nazareth apparirebbe insufficiente.
    La verità della tradizione cristiana è stabilita dalla presenza attuale di santi. La narrazione delle meraviglie di Dio resta il nucleo del messaggio salvifico.

    L'EMERGENZA DEL FUTURO: I SEGNI DEI TEMPI

    La prospettiva storica conferisce al presente anche una particolare funzione in ordine al futuro. In questo ambito è la teologia dei segni ad offrire criteri e indicazioni.
    Il Concilio ha posto le premesse per un cammino teologico che ancora non ha avuto ampi sviluppi. Ha detto il Concilio nella Costituzione pastorale.
    «È dovere permanente della chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» (GS 4, EV 1, 1324). «È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l'aiuto dello Spirito santo, di ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari modi di parlare del nostro tempo, e di saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venire presentata in forma più adatta» (Gs 44, EV 1,1461).

    Il Concilio e i segni dei tempi

    I tratti essenziali della dottrina proposta dal Concilio sono indicativi per una comprensione della esperienza salvifica e della sua narrazione. Essi possono essere così riassunti:
    Soggetto della lettura dei segni dei tempi è il popolo di Dio o la chiesa intera, con particolare compito dei pastori e dei teologi.
    Luogo od oggetto materiale della lettura sono: «i vari modi di parlare del nostro tempo», altrove indicati come «gli avvenimenti» in particolare, le «attese, le aspirazioni, l'indole spesso drammatiche» (GS 4,11) della storia umana.
    Oggetto specifico dello sguardo ecclesiale devono essere i «segni della presenza o del disegno di Dio» (GS 11).
    Fine di questa ricerca è la missione ecclesiale: «capire la verità rivelata, approfondirla e presentarla in maniera più adatta» (GS 44), «rispondere ai perenni interrogativi dell'uomo sulla vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto» (GS 4).
    Luce di questa lettura viene alla chiesa dalla sua tradizione, dalla fede, dall'azione dello Spirito santo.
    La luce della fede, occorre ricordarlo, in rapporto al futuro, non offre contenuti propri, ma fa scoprire ciò che si fa presente o è nascosto nella realtà. La fede non può sostituire l'analisi delle cose, ma ne rende possibile la lettura in una prospettiva diversa.
    La chiesa e, quindi, la teologia, riconoscono di non possedere tutti gli elementi per svolgere la loro missione, né di conoscere tutti i contenuti necessari per annunciare in modo adatto la verità rivelata.
    Essa deve volgersi alla storia degli uomini, al loro linguaggio, per cogliere gli aspetti non ancora scoperti della verità e per poterli annunciare agli uomini in vista della loro salvezza.
    Il linguaggio umano in tutte le sue espressioni viene quindi indicato come un luogo epifanico e uno spazio rivelativo della verità di Dio. Il racconto dell'azione divina avvertita nella storia personale e comunitaria, acquista, in questa prospettiva, una funzione epifanica. Esse servono per leggere in continuità con il passato gli eventi che accadono.
    Nella teologia recente questi elementi non sono stati sufficientemente sviluppati a livello formale, ma sono stati largamente praticati, soprattutto dalla teologia della liberazione e dalle timide teologie occidentali della prassi.
    Ma non sono mancate le critiche. Alcuni, in particolare, hanno notato un ottimismo rozzo nei confronti della storia e una visione antropomorfica nel concepire l'azione di Dio «come se egli fosse più impegnato in certi avvenimenti».[10]
    In realtà i difetti dipendono da una nozione non sufficiente di azione di Dio.
    Da questa prospettiva appare chiara l'importanza che per la teologia ha acquistato l'analisi e quindi le narrazioni di esperienze salvifiche.

    Teologia: analisi dell'esperienza salvifica

    La teologia avverte l'esigenza di costituirsi come «teoria critica della prassi cristiana ed ecclesiale»;[11] come analisi dell'esperienza di salvezza o della vita di fede che la comunità ecclesiale conduce nel nostro mondo.
    La teologia della prassi «non solamente parte dalla prassi come luogo teologico, ma è pronta a lasciarsi mettere in questione dalla prassi. Non si tratta di dare un primato alla prassi, né di identificare teoria e prassi, ma di parlare di una tensione fra le due. Una teoria ha costantemente bisogno di essere verificata o infirmata costantemente dalla prassi. E questa deve essere di nuovo trascesa da una teoria.
    A queste condizioni si può parlare di una teologia critica».[12] In questa luce emerge con evidenza il valore ecclesiale e teologico di una lettura biblica comunitaria realizzata come evento narrativo.

    LECTIO DIVINA E NARRAZIONE VITALE

    La formula lectio divina (lettura sacra) si trova nella regola di S. Benedetto per indicare un esercizio fondamentale per la vita monastica: la prolungata lettura quotidiana della Bibbia (Regola 48,5) e dei grandi Padri della chiesa (ib 73). La lectio divina costituisce, assieme all'opus dei (liturgia) e al lavoro manuale, il nucleo essenziale della vita monastica. Questa pratica si richiama alla tradizione biblica e patristica, ma ha assunto forme definite e precise nel medioevo.[13]

    Lectio divina: dalla Tradizione al Concilio

    Già Ugo di S. Vittore (+ 1141) aveva indicato un itinerario della lectio divina in cinque momenti: lettura, meditazione, orazione, operazione, contemplazione.[14] Il monaco Guigo II (+ 1193), superiore generale dei certosini dal 1173 al 1180, in un breve trattato riassunse la tradizione monastica nei quattro momenti che resteranno fissati nella dottrina spirituale e nella pratica della comunità religiosa: lettura, meditazione, orazione, contemplazione.[15]
    Dopo il Concilio il rinnovamento biblico, iniziato già molto prima, si è espresso nell'impegno di fare della lectio divina una abitudine dell'intero popolo di Dio.
    Anche i laici sono stati sollecitati a utilizzare la Bibbia come libro di lettura spirituale e come fonte di preghiera. La Costituzione sulla rivelazione si augura che «tutti i fedeli ...apprendano per mezzo della lettura frequente della sacra Scrittura la suprema conoscenza di Gesù Cristo» (DV 25).

    Momenti della lectio divina e forma narrativa

    Ai fini di una pratica della lectio divina oggi in gruppi giovanili, è forse utile osservare che i suoi quattro momenti possono assumere forme narrative.
    Leggendo la Scrittura (ma ciò vale anche di ogni libro che traduce una autentica esperienza religiosa), il fedele si inserisce in una storia e, in rapporto alla propria esperienza, ne cerca il senso. Con le narrazioni tale senso viene esplicitato, comunicato e confrontato. Ci può essere così una lettura narrativa della Bibbia, una meditazione narrativa ispirata al testo meditato e una contemplazione riassunta in racconti. Ciò acquista particolare significato nella preghiera comunitaria.

    Lettura narrativa

    Già nella Bibbia ci sono esempi di narrazioni che applicano a situazioni nuove gli eventi e ne traggono insegnamenti per il presente. Ad esempio i capitoli 10-19 della Sapienza sono la rilettura della Genesi e dell'Esodo, con vistosi adattamenti e riduzioni, secondo gli insegnamenti che si desiderano trarre in ordine alla situazione presente. Attraverso questa tecnica sono sorti i Targum aramaici, quando la conoscenza della lingua ebraica declinò.[16]
    I targum più che una semplice traduzione, come significa il termine, sono spesso un esempio di rilettura narrativa della storia biblica. Essi, infatti, hanno a volte tali adattamenti, note, glosse e parafrasi, da fare della pagina biblica un nuovo racconto.
    Sarebbe forse utile ripristinare anche nelle nostre comunità questo modo di rileggere gli eventi salvifici e gli insegnamenti sapienziali. Il testo scritturistico, assimilato e reso familiare, offrirebbe la possibilità di essere rinarrata con riferimenti la propria esistenza letta alla luce della esperienza biblica. Le esperienze nelle comunità di base dell'America latina sulla rilettura comunitaria dell'Esodo sono, a questo proposito, significative.[17]

    Meditazione narrativa

    Le forme di rilettura meditativa della Bibbia, nella tradizione ebraica, sono numerose. Una delle più significative è rappresentata dal Midrash. Il Midrash è una meditazione sul testo biblico, di cui offre una interpretazione creativa e attualizzante. Essa, spesso, assume modalità narrative.
    Già all'interno della Bibbia ebraica e in particolare nel NT esistono midrashim narrativi o haggadici, cioè meditazioni su eventi biblici rapportati a fatti presenti, tradotte in racconti. Anche nella tradizione rabbinica successiva al NT il midrash ha avuto ampio sviluppo come metodo interpretativo della sacra Scrittura.
    Nella sua forma narrativa il Midrash consiste nell'oltrepassare il senso ovvio del testo per scrutare «il testo in profondità e sotto tutti gli aspetti, per attualizzarlo e adattarlo ai bisogni e alle concezioni delle comunità»..[18]
    Nell'uso cristiano spesso il midrash consiste nell'interpretare eventi recenti sulla scorta di parole o racconti relativi a eventi antichi già noti nel loro sviluppo. L'interpretazione allora si concretizza in un racconto che collega in unica trama gli eventi antichi e quelli recenti. Esso non ha l'intento principale di narrare ciò che è accaduto recentemente, quanto di rilevarne il significato alla luce degli eventi passati.
    È da tutti riconosciuto, ad esempio, che i Vangeli dell'infanzia hanno carattere prevalentemente midrashico.[19] Ma anche altri racconti neotestamentari, conservati nei Vangeli, sono sorti come Midrashim cristiani.[20] Sarebbe un grave errore ripetere tali racconti senza tener conto della loro origine e del loro particolare carattere.
    Chi, ad esempio, narrasse le tentazioni di Gesù secondo Matteo (4,1-11) e Luca (4,1-13), come episodi accaduti durante la permanenza di Gesù nel deserto, si lascerebbe sfuggire il significato profondo che, invece, secondo lo stile midrashico, viene offerto dal rife rimento esplicito alle tre tentazioni del popolo ebraico nel deserto secondo le formulazioni del Deuteronomio (Dt 8,3; 6,13s; 6,16).
    Le numerose tentazioni subite da Gesù nella sua esistenza terrena (cf Mt 16,23) vengono poste nel deserto per il valore simbolico che il deserto aveva assunto nella spiritualità e cultura ebraica, e vengono presentate con la trama delle tre tentazioni subite dal popolo ebraico lungo il cammino verso la libertà: la tentazione del pane, la tentazione di Dio, e la tentazione dell'idolatria. Gli evangelisti perciò, con il loro racconto, non intendono tanto narrare le esperienze vissute da Gesù nel deserto, quanto esplicitare il significato delle tentazioni di tutta la sua esistenza e il valore salvifico della sua fedeltà.[21]

    Orazione narrativa

    La preghiera narrativa è una espressione tradizionale della spiritualità biblica. La formula del credo deuteronomistico è insieme narrazione, offerta e preghiera: «Mio padre era un arameo senza patria. Scese in Egitto, visse là come forestiero con poche persone e divenne là un popolo grande, potente e numeroso. Gli egiziani ci maltrattarono, ci privarono dei nostri diritti e ci imposero una dura schiavitú. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri Padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente... e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese, dove scorre latte e miele. Ed ecco, ora presento qui le primizie del paese che tu mi hai dato, Jahvé» (Dt 26, 5-10).
    È questo un modo di pregare narrando la storia o di leggere la storia pregando. La possibilità di questa preghiera sta nel principio della incarnazione: la Parola che diventa evento continua la sua azione nella storia umana e può essere perciò accolta e riespressa.
    Non è difficile educare i cristiani, soprattutto i giovani, a formulare preghiere narrando la propria esperienza, letta in filigrana con eventi salvifici.

    Contemplazione narrativa

    Molti racconti dei mistici sono contemplazioni tradotte in narrazioni simboliche.
    Molti testi zen, ad esempio, sono concentrati di lunghe ore trascorse nell'immersione della interiorità. La contemplazione rende capaci di cogliere, oltre la superficie, la realtà della vita umana che si svolge. L'occhio contemplativo sa vedere nelle persone e negli eventi il Bene che si offre, la Verità che si svela, la Bellezza che si manifesta, la Giustizia che suggerisce nuovi progetti, la Vita che emerge in nuove forme.
    Anche per un laico, osservava un monaco occidentale del quattordicesimo secolo, «il mondo intero può costituire un libro per leggervi la potenza di Dio e la sua bontà..., le sofferenze dei malvagi e le ricompense per chi fa il bene, le gioie dei beni eterni e la vanità di quelli temporali».[22]

    Conclusione

    Un racconto religioso intende trasmettere un messaggio di salvezza richiamandosi a eventi riconfigurati in un narrazione.
    La intenzione prima di un racconto salvifico non è di narrare ciò che è accaduto, ma di proclamare il messaggio emerso dagli eventi accaduti. Anche quando racconta fatti con intento di cronaca, la narrazione salvifica non ha come motivo principale quello di tracciare il loro svolgimento, ma quello di chiarirne il valore rivelativo, di comunicare la forza che essi esprimono, di diffondere l'ideale che attraverso essi si impone. Per raggiungere il suo scopo, il racconto salvifico crea nessi tra eventi distanti, ricorre a traslati narrativi, riconfigura l'accaduto.
    Ricoeur scrive: «Con il racconto, l'innovazione semantica consiste nell'invenzione di intrigo che è, a sua volta, lavoro di sintesi: grazie all'intrigo, fini, cause e finalità vengono raccolti entro l'unità temporale di una azione totale e completa. È questa sintesi dell'eterogeneo che avvicina racconto e metafora. Le opere letterarie rappresentano la realtà accrescendola di tutti i significati grazie alla capacità di abbreviazione, saturazione, culminazione, mirabilmente illustrate dalla costruzione dell'intrigo».[23]
    Educarsi al racconto delle esperienze vitali secondo queste diverse forme, significa penetrare progressivamente i segreti della Scrittura, assumerne lo Spirito, imparare a pregare la vita e a leggerla nel contesto della storia salvifica.


    NOTE

    [1] Cf Vagaggini C., Storia della salvezza, in Nuovo dizionario di Teologia, Paoline, Roma 1977, 1559-1583. Cf Lohfink N , La storia della salvezza, in Le nostre grandi parole, Paideia, Brescia 1986 pp. 87-104.
    [2] Pacchi A., Cartesio in Inghilterra, Laterza, Bari 1973, a p. 12 riassume la dottrina cartesiana come accolta e tradotta dal filosofo inglese Moore. Aggiunge Mamiani M., che cita il testo: «ornando all'argomento di Moore, l'estensione divina segue necessariamente dal fatto che Dio ha comunicato il movimento alla materia almeno una volta», in Teorie dello spazio da Descartes a Newton, F. Angeli, Milano 1979 p. 61.
    [3] Newton I., De gravitatione, secondo la trascrizione di Hall A.R. e Hall M. Boas, Unpublished Scientific Papere ofI. Newton, Cambridge U.P., Cambtidge 19782, p. 106, cit. da Mamiani M., o.c., p. 147.
    [4] Cf Molari C., Darwinismo e teologia cattolica, Boria, Roma, 1984.
    [5] Teilhard de Chardin P., Comment se pose aujourd'hui la question du transformisme, in Etudes 5-12 juin 1921,. ripubblicato ora in La vision du passé, Seuil, Paris 1957, p. 39.
    [6] K. Rahner, Il problema dell'ominizzazione, Morcelliana, Brescia 1969, p. 98 e p. 96.
    [7] Rahner K., Scienze naturali e fede razionale, in Id., Scienza e fede cristiana, Paoline, Roma 1984, p. 58
    [8] Lohfink N., Le nostre grandi parole, Paideia, Brescia 1986, p. 203.
    [9] Id, ib, p. 104.
    [10] Boff C., I segni dei tempi, Borla, Roma 1983, pp. 174-175. Per questo C. Boff pensa che sia necessario «abbandonare l'espressione «ST» nell'uso teologico... sottrarre questo linguaggio, che è stato segnato da illusioni e romanticismo. Esso ha svolto il suo compito. Ma a questo punto l'espressione corre il rischio di bloccare il pensiero teologico con il linguaggio pasticciato di cui è stata avvolta e che essa richiama» (ib). Queste conclusioni sono forse troppo affrettate. Credo sia opportuno mantenere la formula «ST» per il riferimento al Concilio che contiene e per la forza evocativa che conserva.
    [11] W. Kasper, La funzione della teologia nella chiesa, in AA.VV, Avvenire della chiesa, Queriniana, Brescia 1970, p. 72. Cf C. Molari, Natura e funzione della teologia, in Bruxelles Documenti, Dehoniane, Bologna 1970, pp. 85-97.
    [12] C. Geffré, Le christinisme au risque de l'interprétation, Paris, Cerf 1983, p. 344. Ho tradotto 'pratique' con 'prassi' dato il contesto in cui viene usata.
    [13] Cf Baroffio B., Lectio divina e vita religiosa, LDC, Leumann, 1983; Bianchi E., Pregare la Parola, Gribaudi, Torino 1974; Calati B., Parola di Dio, in Nuovo dizionario di spiritualità, Paoline, Roma 1979, 1134-1151; Gribomont J., Lectio divina, in Dizionario Patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale M., 2(1983), 1918-1920.
    [14] Ugo di S. Vittore, De meditando seu meditandi artificio, PL 176, 993-998.
    [15] Lo scritto, pubblicato fra le opere spurie di S. Agostino De scala paradisi seu tractatus de modo orandi et de vita contemplativa (PL 40, 996-1004) e, con il titolo Scala claustralium sive tractatus de modo orandi, fra le opere di S. Bernardo (PL 184, 457-487). In traduzione italiana si trova in E. Bianchi, Pregare la Parola, Gribaudi, Torino 1974, pp. 75-91.
    [16] McNamara M., Il Targum e il nuovo testamento, EDB, Bologna, 1978; Le Déaut R., Targum, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, 2 (1983), 3344-3346. Alcuni frammenti di targum risalgono al 1° sec. prima di Cristo, ma i Targum che ci sono pervenuti sono tutti posteriori al NT.
    [17] Cf Mesters C., Il popolo interpreta la Bibbia, Cittadella, Assisi 1974.
    [18] Le Déaut R., Midrash, in Dizionario patristico e di antichità cristiane, Marietti, Casale Monferrato 1983, 2242. Cf Id., A propos d'une définition du midrash, in Biblica 50(1969), pp. 395-414; Di Segni R., Introduzione al Midrash e alla 'Aggadah', in Pacifici R., Midrashim. Fatti e personaggi biblici, Marietti, Casale Monferrato 1986, pp. XI-XIII, Il midrash narrativo narrativo è detto aggada. «Con l'intento di rendere più chiaro il messaggio religioso della Bibbia, questa forma di interpretazione tende a indulgere all'aneddoto e all'uso di materiale leggendario. Questi elementi non storici sono spesso chiamati aggadot (plurale di aggada)», McNamara M., I Targum e il Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna 1978, p. 15.
    [19] Scrive ad es. Laurentin R. dl midrash non è un genere letterario particolare, ma una ricerca...: si tratta di chiarire la realtà vissuta attuale alla luce della Parola di Dio... Tale fu l'esegesi dello stesso nuovo Testamento e in modo particolarissimo dei Vangeli dell'infanzia» (I Vangeli dell'infanzia di Cristo, Paoline, Cinisello Balsamo, 1985, p. 65). Egli, però, richiamandosi a Le Déaut mette in guardia dal riferirsi alle forme «tardive decadenti» di midrash per definire quello neotestamentario. Scrive nello stesso senso Testa E.: «Nei Vangeli dell'infanzia compare il Midrash pesher, che non è un vero genere letterario, quanto piuttosto un modo rabbinico di fare l'esegesi... Questa esegesi è fondata sopra una minuziosa e profonda ricerca e una narrazione libera, strettamente collegata alla Bibbia, che, partendo da un nucleo storico, geografico e ambientale, lo ha elaborato secondariamente con allusioni a vecchi eroi popolari (Mosé, Giacobbe, Giuseppe, ecc.), con riferimenti filologici e citazioni profetiche a commento..., con aggiunte leggendarie folcloristiche, con abbellimenti in vista edificante..., per insegnare e attualizzare un dato, un tema biblico, la parola di Dio e la sua opera» (Maria terra vergine, I. Franciscan Printing Press, Jerusalem 1985 p. 239).
    [20] Il racconto della morte di Giuda in Matteo, ad es., «aggiunge ai ricordi concreti una interpretazione midrashica molto sottile di diversi testi profetici» (Léon Dufour X., I Vangeli e la storia di Gesù, Paoline, Cinisello Balsamo, 1986, p. 357). Dei racconti midrashici egli scrive: «non sono racconti di genere puramente storico; ma, nei limiti del loro genere letterario particolare, ci offrono una tradizione solida perché nutrita di ricordi reali», ib.
    [21] Ciò non impedisce che i racconti possano essere riferiti a Cristo stesso come sostengono alcuni esegeti, cf Dupont J., Le tentazioni di Gesù nel deserto, Paideia, Brescia 1970; Léon-Dufour X., I vangeli e la storia di Gesù, Paoline, Cinisello Balsamo 1986, p. 357 nega che le tentazioni di Gesù in Mt e Lc possano essere interpretate come racconti midrashici. Ma non porta argomenti convincenti.
    [22] Anonimo, Speculum inclutorum, ed. L. Oliger, Roma 1938, p. 107.
    [23] Ricoeur P., Tempo e racconto, v. 1, Jaca Book, Milano 1986, pp. 7-8 e p. 130.


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