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    Ragioni, nodi, sentieri educativi (dell'educazione politica dei giovani)


    Una tavola rotonda [1]

    (NPG 2009-02-5)


    Sulla base del dossier NPG «Giovani e politica (2/2008), di altri studi sociologici (IARD) e delle recenti elezioni politiche italiane, tentiamo di individuare i nodi educativi in vista di una progettazione con i giovani.

    DOMANDA 1
    LE RAGIONI DELLA DISTANZA

    Il primo dato è la situazione dei giovani, che esprimono soprattutto disagio, disaffezione, anche disgusto verso la politica e le forme in cui essa si esprime. La politica è avvertita come «cosa dei politici», non come cosa pubblica, interesse di tutti.
    Possiamo elaborare una fenomenologia più attenta e soprattutto individuare le ragioni di tale distanza? Quali fattori giocano ancora un forte ruolo presso i giovani sia nella scelta dell’interesse verso la cosa pubblica che nella scelta dell’orientamento politico (e per quest’ultimo, valgono ancora distinzioni ideologiche destra-sinistra?).

    Antonio Nanni
    Anche in passato si è incontrata sempre una qualche difficoltà nel decifrare i giovani di questa o quella stagione storica. A 40 anni dal famigerato ’68 è fin troppo scontato stare qui a rimarcarlo.
    Da anni stiamo vivendo una transizione profonda verso un tempo post-ideologico in cui antiche certezze faticano a resistere. Per comprendere i comportamenti politici, indifferenti o apertamente antipolitici dei giovani di oggi, non possiamo pretendere che siano loro ad adattarsi alle logiche e agli standard degli adulti, ma siamo noi che dobbiamo fare silenzio e metterci in ascolto.
    Infatti, le ragioni della loro indecifrabilità sono anche dovute al fatto che noi adulti siamo rimasti legati al Novecento con le nostre categorie di pensiero, mentre le nuove generazioni sono del tutto post-moderne e post-ideologiche. In questo senso i giovani di oggi non sono più da leggere con le stesse categorie interpretative del passato.
    Voglio dire che certe espressioni che per noi adulti descrivono i «cambiamenti» sociali, come modernità liquida, età dell’incertezza, pluriverso, società delle reti, meticciamento ecc., per i nuovi giovani sono già un habitat naturale che essi vivono concretamente sulla propria pelle. Sono abbastanza convinto, ad esempio, che il tema della flessibilità del lavoro sia vissuto come un dramma soprattutto da noi adulti, ma che per i giovani sia del tutto «normale». Per loro tutte le scelte diventano più leggere e transeunti, quasi mai definitive e irreversibili: negli studi, nel lavoro, negli affetti, nella vita religiosa, nella politica.
    Questo senso di provvisorietà e di mutevolezza fa tutt’uno con la crisi della progettualità e della fiducia nel futuro. I ventenni di oggi mi sembrano una generazione molto distante da sogni, miti e utopie. Possiamo dire che rispetto alle generazioni precedenti quella attuale appare più disillusa, realista, pragmatica e perfino cinica.
    D’altra parte, lo spettacolo quotidiano che ad essi offre la politica è francamente scoraggiante e non può che aumentare la loro distanza.
    So bene che oggi molti parlano di Destra e Sinistra dopo le ideologie. Ma il problema sta tutto in quell’avverbio: «dopo». È proprio così? In che senso possiamo affermare che viviamo nel tempo della «fine delle ideologie»? E come è possibile argomentare questa posizione?
    Vi è chi ritiene che dopo la morte delle ideologie resti soltanto il riferimento ai valori. Ma questo modo di ragionare potrebbe essere niente di più che una comoda scorciatoia per mettere subito le mani sull’attrazione che i valori esercitano su di noi, dal momento che il modo di amministrare la politica rispetto ad essi è tutta un’altra cosa.
    Bisogna insomma prendere atto che anche una politica più legata ai «valori» non è priva di insidie, poiché oggi tutto è oggetto di mercificazione e subordinato all’utilitarismo.
    D’altra parte, le ideologie si sono dissolte e il riferimento ai valori rimane troppo distante e inaccessibile da parte della politica, che è sempre alle prese con l’arte della mediazione e del compromesso. Non si corre allora il rischio di avere a disposizione della politica soltanto il terreno del pragmatismo e del realismo che poi sfociano inevitabilmente nel cinismo più spietato?

    Sergio Abbruciati
    Se andiamo a vedere i dati statistici della Camera dei Deputati, abbiamo subito una prima risposta al perché i giovani si sono allontanati dalla politica. I giovani parlamentari al di sotto dei 30 anni sono 7 su 630, circa l’1,1% dei Parlamentari, e non moltissimi di più sono quelli al di sotto dei 35 anni. Nella precedente legislatura c’era un solo deputato sotto i 30 anni e nella XIV (2001-2006) e nella XIII (1996-2001) nessuno. Per fare un po’ di storia, basti ricordare che Andreotti eletto alla Costituente aveva all’epoca 27 anni, Moro 30 anni compiuti da un mese, Scalfaro 28. È vero che nel 1946 i 28 anni erano già il segno di una vita significativa; resta il fatto che con il passare del tempo la politica istituzionale ha letteralmente cancellato i giovani, al punto di smettere di rappresentarli, pur essendo citati nelle classiche dichiarazioni d’intenti la risorsa principale di un paese. Non si capirebbe per quale motivo allora i giovani dovrebbero avvicinarsi ad un mondo che li respinge. Per un puro dovere? I giovani non sono sicuramente interessati né allo stoicismo, né all’etica kantiana.
    Ciò che in essi muove alla partecipazione sono le grandi passioni etico-sociali come il tema della Pace o le grandi domande esistenziali come quelle che sapeva interpretare Giovanni Paolo II nelle tante Giornate della gioventù da lui vissute. Spesso questa passione non è canalizzata in strategie e obiettivi riconoscibili e condivisibili, ma si veste di rabbia, di aggressività, di sfogo proprio come nei scorsi mesi di ottobre e novembre hanno evidenziato le numerosissime manifestazioni di protesta al Decreto Gelmini e in generale alle azioni del governo verso la scuola pubblica. In questi momenti di vita pubblica dei giovani, in grande parte studenti liceali ma anche giovani universitari, si osserva un repertorio di slogan, temi, gesti connotato dall’emotività, dall’impulsività, a mio avviso non solo legati allo specifico dell’età, ma generati dalla consapevolezza di difendere un punto di vista altro e di riprendersi una dimensione di serietà, di autenticità nella partecipazione.
    Credo che proprio il tema dell’autenticità possa essere considerato decisivo nel capire le ragioni della partecipazione. L’essere dei movimenti viene concepito come portatore di autenticità rispetto a quello dei partiti. Il «farsi parte» non viene letto nelle categorie dell’integrazione, dell’inglobamento. Vi è un forte senso di repulsione alla disciplina strategica e morale dei partiti. D’altronde nel movimentismo di sinistra questi aspetti risultano impliciti anche nel nome preso dai vari movimenti succedutisi nel tempo (dalla Pantera all’Onda attuale) che ribadiscono l’inafferrabilità della protesta, il non essere etichettabile. Credo si possa estendere questo ragionamento anche a certe esperienze giovanili di destra che si sono trovate in sintonia (anche sul piano logistico-organizzativo) con quelle di sinistra.
    D’altronde, come suggerisce l’ultima indagine IARD, i giovani non amano collocarsi, solo il 58% degli intervistati accetta di collocarsi, mentre il restante o non vuole o non sa collocarsi. Certo la partecipazione ai movimenti per esser oltre che autentica anche efficace risente della concretezza degli obiettivi del movimento. L’indagine IARD sostiene che essa deve legarsi ad obiettivi visibili e concreti come per esempio la difesa della libertà di opinione o appunto l’azione del governo in un determinato settore. In caso contrario scade nella ritualità, nel gioco fine a se stesso come nel caso delle famigerate autogestioni o occupazioni scolastiche che non fanno altro che segnalare appunto il degrado della partecipazione quando questa si svincola dall’obiettivo originale e primario.
    I partiti politici non sono in grado né di ispirare questa concretezza, né di incanalare al loro interno le forze vive che dai movimenti provengono. Certo che il dialogo e la mediazione con i giovani per un partito significherebbe darsi una struttura sensibile anche all’educativo, quindi poco immediata e poco visibile. Credo che le forze politiche organizzate questa tipo di partita abbiano da tempo smesso di giocarla.
    Aggiungerei un’altra considerazione al motivo del distacco dei partiti dai giovani (più che dei giovani dalla politica). Forse la categoria sociologica, data la diversa conformazione demografica del nostro Paese, non interessa più in termini elettorali. Fatti i dovuti conti magari è più importante intercettare gli umori dei pensionati o piuttosto dei vip che quello di soggetti considerati poco significativi per l’affermazione elettorale (dato che negli ultimi anni il Paese pare essere sempre in campagna elettorale).

    Agesci

    In relazione al disagio e alla disaffezione dei giovani verso la politica, allo scopo di individuarne una fenomenologia più attenta, si possono indicare alcuni elementi tratti da una ricerca promossa dalla Provincia di Firenze e realizzata dall’Istituto degli Innocenti, in accordo con la FIS, in occasione del Roverway (incontro per i giovani tra 16 e 22 anni promosso dai Comitati europei degli scout e delle guide e organizzato nell’agosto 2006 dalla FIS. Hanno partecipato circa 5000 giovani scout provenienti da 25 paesi europei. In totale sono stati intervistati 2522 giovani). Tra le risposte più significative segnalo le seguenti:
    – per quanto riguarda le attività caratterizzanti la partecipazione sociale, svolte dagli intervistati, oltre allo scoutismo, una o più volte la settimana nei 12 mesi precedenti l’intervista, i dati relativi ad «organizzazione politica» e «manifestazione politica» sono molto bassi (rispettivamente 2,5% e 1,8% degli intervistati) contro risultati assai più significativi per «associazione religiosa» e «associazione di volontariato» (rispettivamente 20% e 18%);
    – in una scala di valori da 1 (minimo) a 7 (massimo) il grado di fiducia nei politici si ferma a 2,35 e quello relativo ai partiti al 2,78 (la famiglia riscuote 6,30). Per il 42,5% degli intervistati i politici non meritano «nessuna fiducia».
    Le ragioni della distanza sono molte e complesse. Solo a titolo di esempio indicherei le seguenti:
    – i giovani attualmente si percepiscono come soggetto debole (sono pochi, con prospettive di affermazione sociale e lavorative assai incerte, con valori non sufficientemente solidi) e pensano pertanto di non avere la forza di affermarsi sulla scena politica, di esprimere un loro protagonismo, di riuscire a orientare le scelte più rilevanti;
    – in tutti i paesi europei la democrazia e la partecipazione politica dei cittadini sono avvertite con un senso di stanchezza e mancano valori politici identitari e trascinanti (il riformismo socialdemocratico o il riformismo liberal-conservatore non scaldano sufficientemente i cuori e non risvegliano abbastanza la passione politica e civile). Se ciò vale per tanti adulti a maggior ragione vale per i giovani;
    – nel caso italiano tutto risulta complicato da una particolare autoreferenzialità della politica dovuta alla notevole numerosità della classe dirigente dei partiti e delle istituzioni formatasi negli anni ’70, che tende a mantenere le proprie posizioni nel tempo scoraggiando nuovi ingressi. Inoltre vi è da considerare una situazione politica italiana sempre caratterizzata da forti contrasti e difficoltà di funzionamento a partire dagli eventi del ’92 e ’93 che pure avevano acceso molte speranze, e che rende difficile un ingresso graduale senza doversi immediatamente schierare nettamente.
    Nella scelta dei giovani di interessarsi della cosa pubblica e nella determinazione del proprio orientamento politico credo contino molto la famiglia, l’ambiente scolastico e gli altri ambienti educativi.
    Quanto alle distinzioni ideologiche, i giovani faticano a capire quali sono i contenuti specifici e alternativi tra destra (o centro-destra) e sinistra (o centro-sinistra). Peraltro fatichiamo a volte anche noi adulti. Così spesso si schierano secondo l’orientamento familiare, «giocando» alle contrapposizioni come fossero squadre di calcio e in taluni casi (vedi movimenti politici giovanili nelle scuole) riesumando i miti ideologici più vecchi (da Mussolini al comunismo duro e puro).
    I partiti politici hanno perso la loro funzione formativa, così come è stato massicciamente a partire dal secondo dopoguerra fino agli anni Settanta. Non si propongono più come luoghi di conoscenza della realtà, confronto e dibattito. Non ci sono strutture che hanno supplito a questa funzione, se non parzialmente. I giovani per questo sono spesso confusi e disorientati. Nonostante il senso di smarrimento, negli ultimi anni, si stanno sempre di più organizzando movimenti, associazioni, gruppi più o meno informali di giovani, intorno a temi che riguardano i problemi del vivere quotidiano. I meet-up di Beppe Grillo, la recentissima Onda anomala, solo per citare i più visibili. Questo forse ci dà un’informazione sulla nuova interpretazione che i giovani danno della «cosa pubblica» e della possibilità di far convergere i loro interessi, se solo riescono a conquistarsi lo spazio necessario per potersi organizzare e agire.

    Armando Matteo
    Il recente comportamento dell’attuale classe politica è senza ombra di dubbio alle sorgenti della crescente disaffezione dei giovani alla politica. È difficile dar torto a chi avverte la sensazione che quello politico sia un mondo autoreferenziale, molto attaccato ai suoi privilegi, e, più in generale, che in relazione a certe urgenze non ci sia nulla da fare, perché fuori dagli interessi dei politici di oggi.
    È proprio la scarsa incisività che la base sociale – ed è noto che i giovani siano più sensibili – avverte di avere sulle istituzioni che incarnano la democrazia civile che quasi giustifica quel sentimento di indifferenza generalizzato oppure di rabbia nei confronti della cosiddetta «casta». Come dimenticare poi il mancato ricambio della classe politica, l’aumento esponenziale di privilegi che questa classe si assegna puntualmente, anche in tempi di crisi, l’impossibilità di bloccare l’accesso a Montecitorio o a Palazzo Madama a persone plurinquisite e già condannate?
    Insomma la politica – e chi la fa come mestiere – non fa nulla per eliminare l’impressione (e che impressione!) di essere una cosa molto ambigua.
    Da qui deriva il fatto che la scelta politica dei giovani segua piste più affettive che ideologiche: non si scelgono idee o programmi, di destra o di sinistra, ma questo o quel leader che risulta in qualche misura più simpatico o semplicemente più «figo».

    Mario Pollo
    E se provassimo a spostare il fuoco della domanda? Ad esempio, non vedendo nella disaffezione dei giovani verso la politica la loro reazione ai «mali» e alle «degenerazioni» dell’attuale vita politica, ma un atteggiamento la cui origine ha altre cause, perché è prodotto da motivazioni intrinseche alla condizione esistenziale della stragrande maggioranza dei giovani (e degli adulti).
    La mia ipotesi è che alla base del tenersi lontani dei giovani dalla politica vi sia la convergenza di due processi che caratterizzano la nostra cultura sociale contemporanea: l’individualismo e il soggettivismo, da un lato, e l’oscuramento del futuro, dall’altro lato.
    L’individualismo fa sì che ogni persona si senta esclusivamente responsabile del proprio personale progetto di vita e non di quello delle altre persone con le quali ha la ventura di condividere il frammento di spazio-tempo che abita. Vi è, infatti, in questa cultura sociale una sorta di inflazione dell’io, una ego-centratura narcisistica, che imprigiona le persone nel desiderio mimetico, nella ricerca avida di ciò che appaga la propria bramosia, la propria affermazione personale.
    L’oscuramento del futuro si manifesta, invece, nell’incapacità delle persone di governare la propria vita lungo l’asse storico del tempo e in una concezione di vita a-progettuale, di una vita cioè che si costruisce attraverso la capacità di cogliere, con un atteggiamento pragmatico e utilitaristico, le occasioni e le opportunità che la vita quotidiana offre, senza la necessità di porsi domande se queste occasioni sono coerenti o meno con i propri sogni di futuro e con la propria storia, individuale e sociale.
    Il risultato è una persona che vive senza un’etica che non sia quella dell’utilità personale e dell’adattamento alla realtà sociale e alla sua cultura. Di una persona che non sa assumere impegni a medio e a lungo termine, che non sa sacrificarsi e rinunciare alle gratificazioni che il presente offre in nome della coerenza a un impegno di costruzione di un futuro personale e sociale.
    L’opacità dello sguardo verso il futuro è prodotta sia dalla crisi della nootemporalità che dalla fine delle grandi narrazioni o delle ideologie che ha attraversato l’ultima parte del secolo scorso. Ideologie che hanno rappresentato una sorta di messianismo scientifico che postulava un futuro luminoso e felice prodotto dallo sviluppo della scienza e della tecnica.
    Il sogno prometeico dell’uomo di essere il proprio salvatore si è dissolto, e la speranza di un futuro migliore è stata sostituita da un radicale pessimismo che lascia intravedere un futuro pieno di minacce e angoscianti incognite: inquinamento e degrado ambientale, disuguaglianze sociali, disastri economici, nuove malattie, terrorismo, ecc.
    A queste ragioni culturali, che spiegano più in profondità la distanza della politica da parte dei giovani, è poi necessario aggiungere le reazioni di disgusto dei giovani che sono provocate dalle cronache che raccontano di una politica di basso profilo, non nutrita di valori, di ideali e di senso del servizio e che manifesta carenze a livello etico. Una politica quella attuale che appare dotata di un ben misero appeal, che non solo non offre sogni e speranze alle nuove generazioni, ma che, anzi, cerca di non renderli protagonisti della vita sociale ed economica se non quando non sono più giovani, e che non investe risorse adeguate per la loro formazione umana, sociale e culturale-professionale. In altre parole, una politica che ha abdicato la futuro e che non li considera più, quindi, il seme della società futura.

    DOMANDA 2
    LE RAGIONI DELL’IMPEGNO

    Perché e come attivare una riscoperta delle ragioni dell’educazione alla politica?

    Sergio Abbruciati
    La mini indagine che ho condotto per NPG (febbraio/2008) sul rapporto giovani e politica dimostra che non siamo di fronte ad un disinteresse cronico e senza possibilità di cambiamento. In realtà molti giovani (circa il 50% degli intervistati) hanno espresso sul piano della sensibilità un certo interesse e curiosità. Segno questo che esiste uno spazio di manovra che però si restringe in mezzo allo sdegno e al senso di confusione che dalla politica promana. Ciò che diviene barriera insormontabile sono le questioni morali. I giovani mostrano attenzione ai valori e alla moralità e in un certo senso, nonostante il loro analfabetismo civico e le difficoltà di analisi nell’individuare i nessi critici, ciò che chiedono di più al mondo della politica è proprio l’attenzione all’etica e ai valori. Chiedono coerenza, fine della corruzione, impegno e dedizione, passione. Vogliono meno baruffe e scontri frontali e, senza cedere a tentazioni compromissorie, vedere un confronto aperto tra gli attori della politica.
    Il rapporto tra etica e politica si muove almeno a due diversi livelli:
    – fare dell’attività politica un impegno al servizio degli altri senza secondi fini, riscoprendo l’autenticità del proprio agire, la dimensione del Sé nell’impegno politico. Si potrebbe dire che i giovani chiedono e cercano nell’impegno politico, quella coincidenza di citoyen e bourgeois di roussoiana memoria, in cui sparisce ogni senso di alienazione;
    – riprendere il tema del rispetto, della dignità dell’avversario. La politica, nella sua dimensione d’agone, deve funzionare come tutte le competizioni che hanno senso solo se basate su regole certe, nelle quali il competitore non è il nemico ma l’avversario.
    Riportare l’attenzione sulla validità delle regole del gioco vuol dire affermare come fondamento la validità intrinseca dell’agire umano. Nel gioco l’altro, con la sua dimensione d’alterità, è parte ineliminabile. Il suo essere ostacolo esalta e non appanna il «bello del gioco». Occorre riportare alla luce nella politica quel rispetto dell’uomo in quanto tale che le è proprio, congeniale.
    In ultima analisi, l’etica della politica è ineludibile anche per scongiurare le forme di aggressività che si muovono «nella pancia» della società. Intendo dire che è prima forma di prevenzione della violenza e del disagio non esasperare il cittadino con comportamenti pubblici informati al disinteresse per le conseguenze, al sentimento dell’al di là o al di sopra della legge o privi di ogni riferimento alla responsabilità sociale. È facile prevedere che superata una certa soglia di fisiologica sopportazione le forze più vive e più fresche di una collettività reagiranno – magari più per leggi di fisica sociale che di psicologia sociale – nutrendosi non certo di strategie gandiane e una società non la si può governare solo con la repressione.
    Invece in una società che non vuole rischiare l’atrofia i giovani sono le indispensabile vitamine e proteine necessarie per la vita dei tessuti. I giovani sono nel loro presentarsi disarmati e ingenui, il terreno vergine sul quale trapiantare germi di speranza. Bellissime sono le parole che a tal proposito scrisse E. Lévinas al termine di un suo importante saggio:

    «La giovinezza è autenticità. Giovinezza però definita dalla sincerità, che non è la brutalità della confessione né la violenza dell’atto, ma il farsi incontro agli altri, farsi carico del prossimo, sincerità che nasce dalla vulnerabilità umana. Capace di ritrovare le responsabilità sotto la spessa coltre delle letterature che ce ne assolvono, la gioventù – di cui non si può più dire ‘se gioventù sapesse’ – cessa di essere l’età della transizione e del passaggio (‘la gioventù vuol fare il suo corso’), per rivelarsi umanità dell’uomo».

    Agesci
    La riscoperta delle ragioni dell’educazione alla politica è un compito che attende non solo le associazioni religiose, educative e culturali ma che dovrebbe impegnare direttamente le istituzioni e i partiti. È importante che le associazioni religiose ed educative, la Chiesa, tutti coloro che hanno a cuore il bene comune (e a lungo termine) segnalino l’allarme e l’esigenza di cambiare strada.
    Occorre far capire che è in gioco in primo luogo la qualità della democrazia e della politica e poi a lungo andare la democrazia stessa, la quale, senza «cittadini attivi» (per Baden Powell, fondatore dello Scoutismo, il buon cittadino è il cittadino attivo, che esprime e pratica un attaccamento attivo alla vita sociale e politica) non può che deperire.
    Uno dei problemi dell’educazione e degli educatori, in tema di educare alla politica, credo sia l’immagine di futuro che viene proposta. La sfiducia e la paura sono le emozione che caratterizzano la relazione tra giovani e adulti. Tant’è che le famiglie sempre di più si propongono come luoghi di rifugio dove collezionare esperienze senza progettualità e effettuare scelte sempre più reversibili e sempre meno definitive. Credo sia indispensabile per gli educatori interrogarsi sull’immagine di futuro che propongono e sullo spazio che lasciano ai giovani di «prendersi cura» della loro vita e degli spazi di gestione comune.

    Armando Matteo
    Dal punto di vista cristiano, il compito della costruzione del regno di Dio passa attraverso il concreto impegno per il bene comune, cui dovrebbe essere per vocazione indirizzata l’azione politica. C’è quindi una naturale inclinazione «politica» nell’azione del laico cristiano, il quale desidera un mondo in cui nessuno possa addurre ragionevoli motivi per maledire la propria esistenza. Rimuovere tali motivi non è possibile fuori da un impegno politico.
    Oggi, almeno nell’Occidente, sono soprattutto i giovani a non avere più ragioni per benedire la loro esistenza: preoccupazioni sul piano economico, sul futuro lavorativo, sulla possibilità di trovare una casa, di poter mettere al mondo dei figli. I giovani hanno bisogno di una politica che ritrovi se stessa, ritrovando i giovani come punto di riferimento privilegiato.
    Sotto questa luce, però, l’attuale classe politica è oltre misura sorda.
    E penso che gia giunta l’ora in cui i giovani non si sentano una specie in via d’estinzione da proteggere, ma che trovino il coraggio di farsi avanti, di impegnarsi, di far sentire la loro voce, di spezzare l’incanto/incubo in cui al momento ci troviamo nei confronti della cosa pubblica.
    Dal mio punto di vista educare alla politica significa aiutare i giovani a diventare i promotori della loro causa, gli avvocati di se stessi. Aiutarli a capire che non ci sarà nessun futuro se non abitano con coscienza il presente.

    Mario Pollo
    La risposta al perché dell’educazione alla politica è offerta dalla constatazione che la progettualità non riguarda solo la dimensione individuale dell’essere umano, perché essa investe direttamente anche le condizioni dell’ambiente naturale e sociale in cui la persona costruisce se stessa e la propria vita.
    La risposta alla domanda sul come è implicita nella risposta a quella sul perché, in quanto un giovane che voglia tentare di assumere la capacità di governare il proprio personale progetto di vita deve, necessariamente, cercare di ottenere un minimo di capacità e di possibilità di controllare il proprio ambiente sociale di vita.
    A questo proposito è utile ricordare che oltre che con il proprio lavoro, l’uomo esercita il controllo dell’ambiente sociale e, perciò, il modo in cui i singoli progetti individuali convivono, per mezzo dell’azione politica e della sua fonte energetica: il potere, inteso come capacità di un soggetto, individuale o collettivo, di raggiungere i propri fini in una sfera specifica della vita sociale, nonostante la volontà contraria di altri.
    L’azione dell’educazione nei confronti della coppia politica/potere è motivata dalla consapevolezza che nessun progetto personale può realizzarsi in un ambiente ostile o che semplicemente faccia mancare gli elementi necessari al concretarsi del progetto stesso.
    Si può addirittura affermare che alcuni progetti d’uomo non possono neppure essere pensati se l’ambiente sociale non fornisce la cultura e i linguaggi necessari a pensarli.
    Nessun individuo può credere di costruirsi in modo isolato dal farsi degli altri. Senza partecipare alla costruzione del Noi, l’individuo non può pretendere di costruire il proprio Io. La realizzazione dell’Io avviene, infatti, anche attraverso la realizzazione del Noi.
    Il rapporto tra l’educazione, il potere e la politica è, quindi, la via obbligata se si vuole affrontare il problema di quel particolare aspetto della realizzazione personale che è la costruzione del Noi.

    Antonio Nanni
    Se ci chiediamo da dove possiamo ripartire e quali siano le ragioni per cui educare i giovani alla politica, la mia risposta è che bisogna ricostruire prima di tutto le basi della socialità. Senza il legame tra l’io e il noi, senza la rinascita dell’appartenenza ad una comunità non si va da nessuna parte. In una società come la nostra, sempre più disgregata e sfarinata, è chiaro che ricostruire i legami sociali diventa una scelta «controcorrente» perché viene a svolgere una funzione ri-socializzante e di ritessitura del «noi».
    In questa nostra epoca caratterizzata dalla «dittatura del presente» (come dice Marc Augè) l’oblio del passato si aggiunge alla rimozione del futuro: La pubblicità rafforza tale presentismo come dimostra lo slogan «life is now». In questo contesto una forza che potrebbe contrastare tale sistema culturale è la valorizzazione del codice delle emozioni positive perché, come sostiene il biologo cileno, Humberto Maturana, ciò che spinge l’uomo ad agire non è la ragione ma l’emozione. I giovani hanno bisogno di ritrovare la molla della passione e dell’entusiasmo altrimenti prevarrà il fatalismo e la rassegnazione. Anche il clima di paura e di insicurezza che da tempo viene creato ad arte non contribuisce certamente per impegnarsi in politica in quanto alimenta la sfiducia nel cambiamento e blocca la speranza nel futuro.
    Una seconda ragione che vorrei sottolineare, che però vale solo per una parte dei giovani, quelli che fanno riferimento a Dio e alla fede cristiana, è la forza di agire per il bene comune che viene dallo spirito delle Beatitudini e dai valori del Regno. Coloro che si impegnano a comportarsi come «cittadini degni del Vangelo» sanno bene che esistono precisi doveri di responsabilità e quella duplice forma di cittadinanza di cui troviamo una testimonianza eloquente nella celebre «Lettera a Diogneto». Non vi è dubbio che chi vive nel suo cuore la speranza come «virtù performativa» è lontano dalla presente stagione delle passioni tristi che spengono ogni tensione di novità e desiderio di «vita eterna».

    DOMANDA 3
    I NODI EDUCATIVI

    Quali i nodi che essa deve cercare di sciogliere?
    Possiamo individuare tre aree fondamentali: esistenziale, socioculturale, teologica.
    – Dal punto di vista del giovane, l’analisi verte sulle caratteristiche della sua identità oggi in relazione al tema politico, con aperture e chiusure. Ad esempio il costituirsi come soggetto autoreferenziale o con deboli appartenenze, preso dalle dinamiche del consumo e del presentismo, aprogettualità…
    – Dal punto di visto socioculturale la cultura del relativismo e nichilismo dei valori, la sovraesposizione mediatica, il dominio del mercato…
    – Dal punto di vista della fede una certa persistente ambiguità-contrapposizione laici-credenti, il rischio del fondamentalismo, la trascendenza della fede rispetto alle scelte politiche concrete, le varie ingerenze ecclesiali, l’abbandono della comunità ecclesiale di riferimento…
    – Rispetto poi alla partecipazione politica, è difficile non vedere la chiusura degli apparati di partito, la difficoltà a gestire il cambio generazionale, la non preparazione politica, la difficoltà del passaggio dall’impegno prepolitico e nel sociale a quello direttamente politico…

    Mario Pollo
    Il primo nodo che è necessario sciogliere riguarda la dimensione esistenziale del giovane e in particolare la costruzione del suo Sé attraverso l’uscita dalla prigione dell’io attraverso la scoperta dell’alterità come elemento costitutivo di un io maturo. Infatti, l’elemento che è in grado di condurre fuori dalla soggettività solitaria verso l’oggettività della compagnia è l’esperienza dell’alterità, ovvero l’esperienza dell’ascolto e della condivisione dell’Altro.
    Dove l’alterità deve essere intesa come la restituzione al soggetto di quel confronto con l’altro da me essenziale per la realizzazione di una identità personale meno narcisistica. La coppia identità/alterità, infatti, costituisce il nucleo essenziale della vita umana attraverso cui si esprime l’anima.
    È attraverso le relazioni con le persone, con le istituzioni, con la cultura e la natura, con tutto ciò che è altro da sé, che ogni individuo umano disegna i suoi confini individuali e sociali, si autocomprende e comprende, dandogli una forma intelligibile, il mondo che abita.
    L’Alterità, quindi, come movimento attraverso il quale la persona può sfuggire all’implosione verso quella forma di soggettività distruttiva che è il narcisismo o semplicemente l’egocentrismo e aprirsi a quella soggettività, specchiata dalle soggettività altre, che è alla base sia della costruzione di un Sé maturo che della capacità di una efficace partecipazione solidale alla vita sociale.
    Questa azione educativa appare tanto più urgente in quanto in questa fase storica i mass media sono diventati lo strumento principale della mediazione del rapporto della persona con la realtà. E questa sostituzione da parte dei media delle mediazioni simboliche è la principale responsabile dell’interruzione o del rallentamento della dialettica identità/alterità.
    Oggi si vede tutto ma non è detto che si sappia ancora guardare e conoscere. I media, infatti, consentono spesso solo di ri-conoscere dando però l’illusione di conoscere.
    Questo indebolisce indubbiamente la possibilità di stabilire un contatto con l’altro reale offrendo in cambio la possibilità di un contatto esteso con il simulacro, dell’altro. Se l’alterità è un simulacro, anche l’identità diviene un simulacro. Perdere il contatto con l’altro significa perdere il contatto con se stessi.
    Per recuperare il contatto con l’altro è necessario quell’esperienza di uscita e di ritorno a sé che si vive all’interno di una esperienza di condivisione autentica, ossia di una condivisione che valorizza la differenza come dono reciproco delle persone in relazione.
    Per questo motivo l’educazione alla condivisione assume un ruolo centrale nel percorso di formazione delle nuove generazioni il cui orizzonte di crescita è limitata dalla prigione del soggettivo, del relativo e del presente.
    Questa educazione può avvenire all’interno dell’iniziazione alla responsabilità sociale di cui la politica è una delle principali forme.
    Il secondo nodo che è necessario sciogliere riguarda la cultura sociale, e in particolare la sua deriva verso l’individualismo esasperato e la diffusione di un senso di impotenza nelle persone circa la possibilità di modificare con la loro azione il sistema sociale di cui fanno parte.
    Per comprendere questa affermazione è necessario ricordare che la comunità, come espressione prossima della società, nelle sue varie forme e manifestazioni culturali, ha sempre rappresentato il luogo in cui le persone potevano inscrivere il proprio personale progetto di vita all’interno di un progetto collettivo e, quindi, condividerlo attraverso i vincoli di solidarietà e altruismo che caratterizzano le comunità autentiche.
    Oggi, in questa fase storica, che si proietta al di là della modernità, si assiste all’attribuzione all’individuo di una centralità assoluta che gli assegna, in modo esclusivo, l’onere di tessere l’ordito della sua vita e la connessa responsabilità del successo o del fallimento, che cade perciò principalmente sulle sue spalle.
    Questo individualismo, che si nutre dell’illusione della assoluta libertà individuale, si manifesta all’interno di sistemi sociali che appaiono sempre più rigidi e immodificabili dall’azione dei singoli.
    E questo genera una profonda angoscia, essendo ogni individuo sotto-determinato rispetto alla propria autocostruzione, che viene esorcizzata in vari modi, ma in particolare con espressioni di forme di egoismo radicale che sconfinano verso il narcisismo e che sono socialmente validate attraverso i miti dell’autorealizzazione. Per riattivare la passione per la politica è necessario combattere questo modello culturale dominante per sostituirlo con un modello che rimetta al centro della vita sociale il valore solidale del legame comunitario.

    Sergio Abbruciati
    Vorrei rispondere toccando due sollecitazioni: il nodo di tipo esistenziale e quello culturale.
    La formazione dell’identità del giovane passa inevitabilmente attraverso il recupero del ruolo dell’adulto significativo. I giovani, lasciati ad una «falsa» libertà, diventano facili prede del consumismo esistenziale. Laddove non vi è traccia del futuro, il presente come prospettiva unilaterale prende il sopravvento proprio nella forma del consumo (carpe diem). La figura dell’adulto più che significare la certezza della trasmissione generazionale, rappresenta la prefigurazione del futuro, in quanto proiezione del proprio vissuto in una identità altra in termini temporali-generazionali. Per l’adulto il primo compito è quello di accompagnare, sostenere, farsi parte del mondo giovanile senza pretendere di istituire un rapporto alla pari (in nessuna delle due direzioni). Educare alla politica allora significa confrontarsi con le «personalità» (nel senso etimologico del termine) politiche, con gli uomini e le donne della scena politica e la loro vita, sia quando parliamo di grandi figure del passato, sia quando facciamo riferimento a chi oggi opera concretamente nei diversi ambiti afferenti al mondo della politica.
    Per quanto riguarda il secondo nodo, mi sembra di capitale importanza, indipendentemente dalle tesi singolarmente svolte, il richiamo di Umberto Galimberti all’inquieto ospite che scorazza oggi tra i nostri giovani.
    Secondo la nota tesi del libro, anche il mondo dei giovani in modo drammaticamente virulento, sperimenta su di sé il profondo senso di inquietudine dato dal nichilismo, in seguito alla fine delle grandi narrazioni del passato (morte di Dio, fine delle promesse marxiste, disincanto del mondo del progresso e della felicità per tutti) e della crisi delle secolari istituzioni sociali (la famiglia, lo Stato, la chiesa, il partito).
    È possibile oltrepassare il nichilismo? Non certo negandolo o relegandolo a questione «evolutiva». Provo a ricavare dalle tesi di Galimberti due suggestioni: il sogno utopico e il pellegrinaggio.
    Occorre riportare l’educazione alla dimensione del sogno. Senza la forza e la potenza dell’onirico, educare si risolve nell’allevare, riducendo i giovani a polli in batteria. La politica presa separatamente dalla dimensione del calcolo, della prudenza e della strategia fine a se stessa, è da sempre irrorata dall’utopia, si alimenta di quello che E. Bloch chiama il «principio di speranza». Riscoprire la dimensione utopistica della politica mi appare come una possibile cura nei confronti del dilagare del nichilismo tra i giovani.
    Per loro e grazie a loro si può e si deve coltivare l’utopia, il sogno, l’illusione senza aver paura di trasformarli in anestetici, mantenerne il potenziale evocativo ed esortativo di tensione dell’orizzonte. L’umanità senza orizzonte avvizzisce, invecchia come recita il salmo 127: «Come frecce in mano ad un eroe sono i figli della giovinezza/ Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici».
    A proposito della seconda suggestione, nel capitolo 10 del libro dove si discute dell’oltrepassamento del nichilismo, si invoca «l’etica del viandante». Secondo Galimberti i giovani hanno già fatto proprio il senso del post-moderno così coraggiosamente interpretato dal carattere anti-metafisico di Nietzsche. Dal momento in cui essi fanno a meno di una visione del mondo imperniata sulla «meta» da raggiungere, si trovano una situazione di nomadismo. Sono così pronti e attrezzati al deserto del senso che ci attende nella stagione post moderna. Ma più che configurare uno «über-Junge», un super-giovane, l’etica del viandante a mio avviso evoca il senso del pellegrinaggio, dell’aver sempre accanto a sé pronto lo zaino colmo della voglia di camminare, di guardare, di scoprire. In sintesi educare vuol dire approntare al viaggio, alla scoperta, all’uscire fuori di sé. La prima grande impresa «politica» del popolo ebraico l’ha compiuta Abramo, uscendo dalla propria terra.

    Agesci
    Quanto ai nodi dell’educazione alla politica, ritengo che il problema non stia nei contenuti, piuttosto nel metodo e nei mezzi da usare, nelle priorità da adottare e nei tempi. Un’associazione come l’Agesci possiede potenzialmente i contenuti necessari per rilanciare l’educazione alla politica:
    – da un punto di vista esistenziale l’educazione scout aiuta il giovane a fondare la propria identità su scelte autonome e meditate, con il senso dei valori eterni (di fede o morali) e con il senso della politica come attività umana imperfetta (che non genera identità e che non porta alla felicità in terra) ma anche come servizio imprescindibile per il bene comune.
    Tutto ciò combinando la riflessione con un’esperienza attiva di comunità e servizio che può far maturare progressivamente nell’interezza della persona (e non solo nella sua sfera intellettuale) l’importanza di impegnarsi in politica, perché si sperimenta la possibilità di incidere nella realtà, per operare un cambiamento, attraverso la propria azione e l’azione della comunità. Non solo in termini di azioni concrete, ma anche di relazioni, di conoscenza, di partecipazione alla vita e ai problemi delle persone che si incontrano nelle esperienze di servizio;
    – dal punto di vista della fede l’educazione scout, nell’esperienza dell’Agesci, la inquadra in una prospettiva di apertura al mondo e al diverso da sé (internazionalismo scout, non emarginazione, ecc.) che consente di rifuggire dal fondamentalismo e dal clericalismo.
    I problemi diventano la qualità dell’azione educativa dei singoli Capi, la qualità e l’investimento dell’Agesci nella formazione al senso politico dei Capi, la priorità di questa azione nel complesso delle attività dell’Agesci, lo sviluppo più accurato di una metodologia e di mezzi adeguati per l’educazione al senso politico dei ragazzi.
    Perché questa azione abbia maggiore efficacia occorrono comunque segni concreti di cambiamento e di apertura da parte di partiti, istituzioni e classe politica. Occorrono segni nel senso dell’apertura ad una maggiore democratizzazione della vita interna e ad un ricambio generazionale: ad esempio: disciplina per legge delle elezioni primarie a tutti i livelli, limite ai mandati istituzionali e di partito, priorità a temi di interesse dei giovani, discussioni e assemblee pubbliche con i giovani, sviluppo dell’e-democracy (nella ricerca sul Roverway solo il 2,7% degli intervistati non usava Internet e l’86,7% disponeva di un PC; credo che i dati relativi agli adulti siano molto diversi).

    Armando Matteo
    Il discorso va senz’altro inquadrato in una ampia «frattura intergenerazionale» per la quale tutto il mondo adulto sembra difatti oggi aver rinunciato ad adempiere al suo naturale compito educativo nei confronti delle nuove generazioni.
    Detto questo, bisogna subito ricordarsi che la questione educativa non si risolve in una bella teoria. È un cammino, è un mettersi alla prova, un uscire fuori dalla propria cuccia e respirare l’aria che tira fuori. È non è cosa facile: l’attuale sistema socio-politico cerca di «parcheggiare» il più a lungo possibile i giovani in questi centri di permanenza assistita che sono le università con master I e II e III, e poi le convivenze prematrimoniali oltre ogni pazienza, e poi ancora le nuove forme di lavoro di una precarietà definitiva assurda… e in tutto ciò favorendo percorsi molto individualistici.
    Il soggetto invece si costruisce agendo, impegnandosi, scontrandosi, mettendosi alla prova con gli altri. Per questo è necessario ridare maggiore slancio all’associazionismo giovanile – e si badi bene: «giovanile» non significa associazioni di adulti che si occupano di giovani, ma associazioni costituite da giovani.
    Uscire da grembo familiare, mettersi insieme, elaborare insieme il rapporto tra convinzioni di fede e realtà, mi sembra la cosa più importante oggi per i giovani. Per questo bisogna di nuovo scommettere sulle associazioni, sostenendo quelle di vecchia data e favorendo la nascita di nuove.
    Dobbiamo smettere di pensare l’educativo come un sistema di montaggio alla cui uscita troviamo un giovane maturo, credente e possibilmente ben educato…

    Antonio Nanni
    Certamente un nodo centrale che se non viene sciolto diventa un disturbo nella vita del giovane è quello dell’identità. Infatti, non sapere quale sia la propria identità, non poter raccontare una storia di sé piena di senso, né dire a quale comunità si appartiene come tradizione, è forse uno dei più inquietanti problemi dei nuovi giovani, sospesi in molti casi tra nichilismo, relativismo e fondamentalismo.
    È inevitabile allora che in una società plurale e multiculturale, complessa e disorientata come la nostra, i giovani siano alle prese con le sfide dell’identità. E, forse anche per questo, essi appaiano così spesso inquieti, insicuri, insofferenti e smarriti.
    Ma, come altre generazioni del passato, anche i giovani d’oggi sono affascinati dall’esperienza del viaggio e dalla metafora del cammino, della strada e del traguardo da raggiungere.
    La strategia che può orientarli all’impegno politico, non sta allora nell’inseguirli nei luoghi che già abitualmente frequentano, ma nell’inventarsi per loro un luogo di ritrovo intorno ad un centro di interesse comune che abbia anche caratteristiche di solidarietà e di cooperazione oltre che di divertimento, di protagonismo e di autorealizzazione. Penso soprattutto alle esperienze di volontariato e di servizio civile.
    Mentre si opera in tal senso ritengo opportuno sottolineare che sia più importante valorizzare la prospettiva dello «stare con» i giovani che non quella del «fare per» i giovani.
    La presenza dell’adulto che educa viene, infatti, ad essere decisiva anche quando rimane sullo sfondo come una figura simbolica che indica il carattere inter-generazionale su cui non è mai esagerato insistere, soprattutto in un tempo di assenza di prossimità o impotenza della famiglia ridotta a pezzi.
    È l’ascolto che i giovani cercano ovunque. Non perché abbiano un particolare racconto da fare, ma perché se un altro è disposto ad ascoltarli, ciò significa che esiste qualcuno che si è accorto di loro. È forte, infatti, nei giovani il bisogno di sentirsi accettati, riconosciuti per quel che si è, come persone, e quindi di ricevere una risposta non generica o massificata ma personalizzata e specifica.
    Ecco perché l’adulto non può ridurre la missione educativa alla sola socializzazione. Educare vuol dire assicurare ai ragazzi un accompagnamento generazionale nella vita e questo concretamente si fa percorrendo un tratto di strada insieme.
    Invece la proposta che oggi un giovane riceve nella realtà sociale in cui vive è che deve affermare se stesso in solitudine, cioè potendo contare solo sui propri mezzi, solo su se stesso. E questo è drammatico perché in tal modo il giovane cresce «senza l’altro».
    Se proviamo a capire le nuove generazioni attraverso l’analisi di alcuni oggetti-simbolo che i giovani usano possiamo cogliere aspetti non secondari della loro complessa identità. Tra i tanti oggetti-simbolo possiamo selezionare ad esempio il lucchetto, il videotelefonino, il blog, l’i-pod, il piercing (o il tatuaggio), il casco, (o il motorino) il pupazzetto (o il peluche ). Ma ci sembra che ciascuno degli oggetti richiamati, apparentemente insignificanti, ci aprano un piccolo spiraglio per accedere nel mondo enigmatico e misterioso dei giovani di oggi.

    DOMANDA 4
    PISTE DI EDUCAZIONE

    Quali vie per un possibile scambio virtuoso tra politica e giovani? Cioè, su quali ambiti e processi lavorare per rimettere nell’educazione degli adolescenti e giovani il tema della politica?

    Armando Matteo
    Ritengo che siano necessari gesti coraggiosi da parte dei nostri politici, sia in ordine alla disponibilità di lasciare maggiore spazi di presenza «giovanile» dentro i luoghi istituzionali, sia offrendo maggiore attenzione al Forum nazionale dei giovani, sia infine concedendo priorità alle questioni legate alle nuove generazioni nell’agenda politica: dal problema dell’istruzione a quello delle case, dal problema del lavoro a quello degli asili nido, dal tema dell’ecologia a quello della pace mondiale.
    Non posso tuttavia nascondere un certo scetticismo, in quanto l’attuale classe politica non dà se non pochi segnali in questa direzione.
    Per quel che riguarda infine l’educazione politica dei giovani tout court, direi che si tratta di aiutare questi ultimi a divenire consapevoli che il futuro non aspetta nessuno, specialmente in un tempo in cui tutti ci sentiamo permanentemente «giovani» e proviamo pertanto «autentico fastidio» per coloro che giovani lo sono davvero e non solo cerebralmente.
    I giovani di oggi debbono uscire dai recinti che così abilmente abbiamo costruito intorno loro e prendere la parola. Oggi. Domani potrebbe essere troppo tardi.

    Sergio Abbruciati
    Rispetto agli ambiti e ai processi su cui lavorare indico quelli che definisco i cinque sensi dell’educazione politica. Si tratta di assegnare all’educazione una funzione anche strumentale oltre che pedagogica, ossia quella di fornire ai giovani «competenze» politiche, in senso alto ed eminente. Quindi non formare «manager o professionisti» della politica, ma cittadini dotati del senso della politicità, della politeia, come asserivano i greci.
    Ecco allora l’impegno di sviluppare cinque fondamentali sensi: il senso del limite, il senso della ricerca, il senso delle radici, il senso dell’attesa, il senso del gioco.
    Per senso del limite intendo la capacità di gestire i conflitti, di riconoscere la conflittualità senza oltrepassare determinati confini, pena lo snaturamento dell’umano.
    Per senso della ricerca intendo la capacità d’incontrare l’altro nella forma della natura, del prossimo, dell’assolutamente Altro. Solo misurandosi con l’alterità il giovane può schiudersi evitando i fenomeni di ripiegamento e autosufficienza.
    Per senso delle radici intendo la capacità di fare ed essere memoria come presa di coscienza di un’identità-dono nella quale si valorizzi il passato, recente e remoto, luogo privilegiato e misterioso del nostro essere.
    Per senso dell’attesa intendo la capacità complementare a quella della memoria di abitare il domani, cioè di garantire al sogno e alla speranza diritto di cittadinanza all’interno della nostra esistenza.
    In ultimo per senso del gioco intendo la capacità di produrre regole e stili di vita nella libertà che sola unicamente rappresenta la condizione del loro rispetto.
    Credo che all’interno di questa richiesta di senso (o di sensi) si possa giocare una felice interazione tra le esigenze dell’educazione e l’autonomia della politica.
    Mi sia concesso inoltre richiamare una considerazione sulla chiusura degli apparati di partito e la loro difficoltà a gestire il ricambio generazionale.
    Fino a quando il farsi da parte del politico non diventerà un meccanismo o un aspetto virtuoso originario della politica, non potremo mai aspettarci il farsi parte dei giovani.

    Agesci
    Gli ambiti e i processi sui quali lavorare sono a mio avviso:
    – le leggi elettorali, semplificandole e prevedendo la scelta dei candidati con elezioni primarie obbligatorie e regolate per legge;
    – le politiche sull’istruzione e sul tempo libero, sull’accesso al mondo del lavoro, coinvolgendo nella predisposizione delle proposte più giovani possibile con incontri e uso del web;
    – la democrazia elettronica, approfondendo i mezzi con i quali si può dialogare direttamente tra giovani, istituzioni e partiti;
    – la proposta di assegnare ai genitori la facoltà di votare per i loro figli minori, che mi pare possa suscitare un dibattito fecondo e che potrebbe aiutare ad aumentare il peso politico delle generazioni più giovani.

    Antonio Nanni
    Forse i fattori che più di altri potrebbero ancora esercitare un ruolo motivazionale per ri-collegare i giovani alla politica sono soprattutto quattro:
    – quelli che passano per la vita delle persone (la biopolitica );
    – i luoghi in cui si abita e si vive con gli altri (la politica della città);
    – le istituzioni e le regole della convivenza in una società complessa (la politica come riforma delle istituzioni, il federalismo, l’etica pubblica);
    – infine, l’ambiente e le risorse energetiche (la politica ecologica).
    Sono dunque quattro gli «ambiti» sui quali lavorare in via preferenziale per rilanciare la formazione dei giovani alla politica.
    Il primo è l’ambito della vita (bios), che comprende tutti i temi eticamente sensibili, dal nascere al morire, dal dolore alla malattia, dal formare una famiglia al mettere al mondo dei figli. È questo l’ambito emergente della biopolitica che in futuro è destinato ad acquistare ancora più centralità.
    Il secondo ambito è quello della città (polis) in cui viviamo con gli altri che sempre più spesso sono diversi per etnia, cultura, lingua e religione. Oggi la politica della città deve fare i conti con i modelli della multiculturalità e le regole dell’etica pubblica tra le spinte contrastanti del fondamentalismo e del laicismo. Serve allora aiutare i giovani a scoprire un nuovo statuto di laicità intelligente e positiva, non pregiudiziale e antireligiosa. Si tratta di illustrare ai giovani le caratteristiche di una società democratica e post-secolare dove, anche i simboli del sacro e il riferimento pubblico e visibile ai valori religiosi, hanno pieno diritto di cittadinanza.
    Il terzo ambito, poi, è quello della riforma delle istituzioni perché sia a livello internazionale che a livello europeo, nazionale e locale si è ancora fermi al passato. Si pensi al sistema degli Stati nazionali che ci riporta indietro fino al trattato di Westfalia (1648!) mentre oggi viviamo nel tempo della globalizzazione e nella società delle reti. Si pensi ancora alla riforma del federalismo di cui l’Italia avrebbe sicuramente bisogno se fosse realizzato secondo il principio di solidarietà e di unità nazionale.
    Il quarto ambito, infine, è quello dell’ambiente naturale, dello sviluppo sostenibile, della salvaguardia del creato, della sobrietà come virtù civile, in una parola della politica ecologica verso la quale i giovani si mostrano oggi sempre più attenti e sensibili.
    Come si vede, siamo dinanzi ad una politica sostanzialmente pragmatica e post-ideologica che dovrà però guardarsi bene dal non diventare anche post-democratica, perché il processo di mediatizzazione dello spazio politico rischia di trasformare i cittadini in tanti «spettatori» di una politica oligarchica e populista che sfocia poi di fatto in un regime medio-cratico.
    Non credo che i giovani accettino di essere trasformati in tanti manichini o in semplici comparse della politica. Ecco perché occorre che gli adulti promuovano percorsi orientati alla democrazia deliberativa dove ciò che conta non è solo la partecipazione e la decisione ma la comparazione delle proposte in gioco, la valutazione del peso di ciascuna di esse, la scelta dell’ipotesi migliore e infine la decisione sulla base di un consenso informato.

    Mario Pollo
    Esiste un’unica via percorribile per questo scambio virtuoso data la convergenza di due azioni. Una da parte dei partiti e l’altra da parte dei giovani opportunamente stimolati a livello educativo.
    Per quanto riguarda i partiti è necessario che essi si riapproprino di una visione progettuale fondata sui valori, orientata alla ricerca delle condizioni che rendono possibile sia al declinarsi dell’umano nell’attuale temperie storica e di un futuro, che se non terra promessa, possa essere percepito almeno come luogo accessibile al sogno e all’impegno che questo genera.
    Per quanto riguarda, invece, i giovani è necessario che essi si riapproprino della capacità di progettare la propria vita e, quindi, della capacità e della volontà di selezionare nel presente ciò che è funzionale alle loro attese verso il futuro, sacrificando alla realizzazione di queste attese ciò che è necessario e opportuno, ovvero rinunciando a molte delle offerte che la vita in una società tutto sommato opulenta offre loro.
    Perché queste due azioni si realizzino è però necessario che la cultura politica riscopra che se è pur vero che la politica è anche ragione, e la scienza un suo utile supporto, che essa non può assolutamente esaurirla. Essa deve fare un po’ di spazio al discorso che narrando svela, seduce, convince nell’amore e mette a nudo le più profonde ragioni dell’essere. Se vuole ridare la speranza terrena all’uomo, deve dare spazio ai simboli e alla narrazione che li tesse nelle varie forme del discorso, che vanno dal mito al poema, dall’immagine evocata con suggestione al racconto, dal sogno ad occhi aperti all’utopia.
    Il linguaggio del simbolo, in virtù del fatto che affonda le proprie radici nell’oggettivo arcaico della condizione umana, nelle più segrete, universali e atemporali modalità dell’essere, è l’unico collante in grado di garantire la transazione dell’individuo verso il sistema sociale senza che questo metta in crisi la dimensione individuale dell’esistenza nella libertà. Esso garantisce, poi, allo stesso linguaggio della ragione dialettica, le fondamenta a cui ancorare i segni, le strutture logiche del suo discorso, e quindi gli consente di evitare la babele dei significati individuali che sempre minaccia la convenzione semantica.
    Il linguaggio della ragione dialettica è oggettivo solo se le sue radici affondano nel linguaggio del simbolo. Solo così, allora, risulta in grado di rendere oggettivo, razionale e financo scientifico il declinarsi del discorso e della realtà del sistema sociale.
    Da questa rappacificazione del linguaggio del simbolo con quello dialettico può nascere quella narrazione che può far superare l’isolamento all’interno di un nuovo modello di convivenza sociale non più fondato sull’unità nell’uguaglianza, ma sulla vicinanza nella diversità, e anche nel conflitto, in cui regna però la solidarietà e la giustizia.
    Una convivenza, cioè, fondata sull’accettazione dell’esistenza di altri e diversi mondi vitali accanto al proprio; estranei e non facilmente leggibili attraverso il dato obiettivo, ma la cui vicinanza solidale può essere sperimentata. Solo così sarà possibile all’uomo contemporaneo abitatore delle società industriali di riconnettere il proprio destino con quello del mondo, pur permanendo, e anzi, accentuando la sua diversità da esso.
    È necessario, perciò, ribadire che la politica, se vuol tornare ad essere compresa non solo come alchimia del potere, deve ridare spazio al narrare attraverso il linguaggio del simbolo. Potrà così costruire dei sistemi sociali che, nella misura del possibile, non opprimono l’individualità e nello stesso tempo rendono a questa tutta l’oggettività e la forza del sociale.
    Ci si potrà avviare a ridurre lo stato ad una solidarietà, che si esprime attraverso il servizio, superando così la mostruosa concezione dello stato come entità sovra-individuale. Simbolo e segno, sogno e ragione, poesia e scienza, sono i poli, attraverso cui può declinarsi ogni discorso politico che voglia riattivare senza abolirlo il contrasto essenziale individuo/società. Contrasto che, al pari di altri, è il motore della storia, dell’accadere umano nel mondo e dell’amore per la vita.


    NOTE

    [1] Tavola rotonda con Sergio Abbruciati (docente scuole superiori), Armando Matteo (assistente nazionale FUCI), Antonio Nanni (responsabile Ufficio Studi ACLI), Mario Pollo (docente di Pedagogia LUMSA e di animazione culturale UPS), AGESCI (Michele Pandolfelli responsabile Centro Documentazione Agesci, Francesca Loporcaro incaricata nazionale branca R/S e Flavio Castagno incaricato nazionale branca R/S).


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