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    Grammatica e sentieri di sinodalità nella PG /8

    Gianluca Zurra

    (NPG 2023-04-44)


     

    L’esperienza della sinodalità intende rispondere all’urgenza di un nuovo slancio della missione ecclesiale. In modo esplicito papa Francesco non riduce lo stile sinodale ad una pura procedura ecclesiastica, ma insiste nel sottolinearne la qualità missionaria. Più la Chiesa assume forma sinodale e più dovrebbe aprirsi e riguadagnare la freschezza dell’annuncio.
    Sinodalità, dunque, significa rimettere in circolo la consapevolezza che la comunità dei credenti non esiste per sé, ma a servizio dell’incontro sempre nuovo di tutti e di ciascuno con il Signore Risorto. Possiamo dire che la prova di una buona sinodalità è la vivacità missionaria e, viceversa, la prova di una buona missione sta nella sua effettiva forma sinodale. Missione e sinodalità si intrecciano e si compenetrano: la prima è espressione della seconda, mentre la seconda è il linguaggio irrinunciabile della prima.
    Che cosa significa, allora, la parola “missione”? Riguarda le nuove Chiese lontane dal continente europeo, oppure sono le nostre Chiese locali a ridiventare luogo di missione? È un termine che richiama tristi storie di conquista e di colonizzazione, oppure può essere restituito alla freschezza del suo significato evangelico? Certo, nell’epoca del superamento della cristianità è necessario ripensare la presenza missionaria della Chiesa, che non ha più nulla da spartire con l’idea di monopolio e di controllo sulla società: questo passaggio epocale ci fa molto bene, perché ci chiede un sano ridimensionamento e una maggiore capacità di dialogo. Proprio la sinodalità può essere la strada per riguadagnare una figura più evangelicamente corretta della missione.

    La missione come esperienza di cura

    La parola “missione” ha bisogno di essere liberata dalla sua accezione esclusivamente ecclesiastica. Soprattutto per le nuove generazioni è urgente una riflessione che la declini prima di tutto come espressione umana di cura e di dedicazione di sé agli altri. In effetti, nell’apertura missionaria è in gioco la nostra capacità di generare e restituire vita in abbondanza: ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto come un dono non può che essere condiviso, in modo che ciascuno possa portare avanti, a favore di tutti, questa catena feconda di vita che si moltiplica. L’individualismo, al contrario, non ha gli anticorpi per evitare la sterilità e rischia di bloccarsi dentro una strana contraddizione: se da un lato esprime la giusta ricerca di autenticità interiore, dall’altro non la potrebbe raggiungere senza l’esperienza reale della dedizione e dell’uscita da sé.
    Prenderci cura di altri, di un ambiente, di un territorio, evitando l’attorcigliamento nell’intimismo, è quindi l’operazione più grande che possiamo compiere come esercizio educativo verso l’età adulta: diventiamo noi stessi nella misura in cui ci prendiamo cura di altri e dunque in qualche modo siamo la nostra missione che portiamo avanti in un tempo e in un luogo molto precisi. Anche in questo caso nulla di tutto ciò avviene in solitudine: più entriamo nella prospettiva missionaria della cura e più ci diventa abituale riconoscere tutto ciò che ci accomuna come un bene da custodire e rilanciare, a servizio di una socialità abitabile.
    Dunque, il gesto missionario, dentro e fuori la Chiesa, è sempre connotato da una disposizione di fede e di comunione: l’atteggiamento di fiducia ci mette in movimento nella dedicazione verso altri e questa postura di uscita ci pone immediatamente in un contesto di comunione e di cittadinanza più grande di noi e che noi stessi possiamo contribuire a edificare in prima persona.

    L’invio di Gesù

    Quando il Risorto, facendosi riconoscere dai discepoli, chiede di uscire e di andare per annunciare, non si riferisce, dunque, ad un compito che ci raggiunge dall’esterno, ma a quella “disposizione missionaria” senza la quale nessuno di noi potrebbe dare forma buona alla propria vita. Nell’invio del Signore si manifesta così una lieta notizia: prima delle cose da fare o da dire, quel desiderio di apertura e di condivisione che è parte di noi, spesso mortificato dalla paura e dallo smarrimento, ora ritorna possibile, viene risvegliato e concretizzato nelle molteplici forme missionarie che scaturiranno dalla fantasia dello Spirito. Questo rilancio di Gesù è già Vangelo di per sé in quanto, suscitando la missione, rimette in movimento la cura e la dedicazione come dinamica fondamentale dell’esistenza umana, prima ancora che ecclesiale.
    Ci soffermiamo su due testi di invio missionario: la finale del vangelo di Matteo e l’incontro del Risorto con Maria di Magdala. Tenendo sullo sfondo questi riferimenti testuali, emergono due aspetti fondamentali della missione: la sua universalità, che parte sempre da tempi e contesti molto precisi, e la sua forma fraterna, che risuona sempre attraverso pluralità di doni e di compiti.
    “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”[1]: sono queste le ultime parole di Gesù, vincitore della morte, secondo Matteo. Per comprenderle appieno può essere di aiuto tradurle così: “Io sono con voi tutti i giorni, fino in fondo ad ogni tempo della vostra vita e dell’intera storia”. L’universalità della missione passa attraverso la particolarità dei tempi e dei luoghi di ciascuno: ogni situazione che viviamo può così essere vissuta fino in fondo e fino alla fine come spazio di novità evangelica. Che ci si possa dedicare agli altri con passione e costanza non è dovuto a tempi e luoghi ritenuti ideali per la missione, ma al fatto che tutti i tempi e luoghi, così come sono, diventano il terreno dentro il quale è già all’opera lo Spirito stesso di Gesù. Non si tratta, dunque, di condurre l’intera storia al recinto della Chiesa, quasi alla maniera di una conquista; al contrario, il compito consegnato dal Risorto è abitare, come Chiesa, i luoghi e i tempi di vita comuni a tutti, contribuendo alla loro umanizzazione insieme ad ogni uomo e donna di buona volontà. Il Risorto promette di essere già sempre lì, davanti a noi e prima di noi, ad aprire il cammino.
    “Non mi trattenere, ma va’ dai miei fratelli”[2]: suona così l’invio di Maria di Magdala da parte di Gesù. Il tratto universale della missione, che si concretizza in Matteo dentro e attraverso la particolarità di contesti precisi, si colora qui della sua forma fraterna. Maria non viene inviata come testimone solitaria, ma verso una comunità di fratelli: l’esercizio fraterno del mandato missionario è già di per sé e a tutti gli effetti una testimonianza evangelica, nella pluralità di volti che non solo non vengono cancellati, ma valorizzati e messi in circolo nell’indispensabile ricchezza che portano. Componendo i due riferimenti testuali possiamo dire che la forma fraterna, dunque sinodale, della Chiesa, è richiesta da una missione che non può sostituire il Signore, né trattenerlo per sé, ma lo può soltanto riconoscere già presente nella storia a favore di tutti, e che non è riducibile a proselitismo, ma condivide gratuitamente la passione per la vita umana alla luce del Vangelo, senza volere nulla in cambio.

    Il tratto missionario della sinodalità ecclesiale

    Se la missione è esperienza umana di cura a partire dai luoghi quotidiani della vita e viene vissuta in forma fraterna e non solitaria, è necessario riguadagnare con urgenza il primato della Chiesa locale, cioè la forma immediata, reale e sintetica della comunità cristiana[3]. La sinodalità si fa missione dentro un preciso contesto culturale, perché la fede stessa non è vivibile se non a partire dall’esperienza di vite concrete, impastate con i tratti singolari di una terra e di una cultura specifiche. Non a caso il decreto conciliare Ad Gentes sull’attività missionaria della Chiesa ricorda in modo suggestivo che ogni Chiesa locale trova il suo posto nella comunione ecclesiale attraverso la ricchezza della propria tradizione e mai senza di essa, o meglio tramite la creatività missionaria che permette all’annuncio evangelico di incontrarsi con la cultura locale, assumendola e leggendola in modo profetico alla luce del Vangelo[4].
    Per compiere questo lavoro è necessario che la missione sia connotata sinodalmente e dal basso e non gerarchicamente e dall’alto, con il coinvolgimento di tutti. Lo stile sinodale diviene così il linguaggio quotidiano di comunità che non hanno come fine il controllo e il presidio di un territorio, ma la custodia e la trasmissione del fuoco evangelico tramite relazioni di prossimità, gesti di benedizione e parole di sapienza sugli avvenimenti che accadono. Non si tratta di essere in maggioranza, né di cercare visibilità in senso pubblicitario, ma di riconoscere che prossimità, benedizione e sguardo sapienziale sulla vita sono i gesti missionari che seminano il Vangelo nei solchi domestici di tempi e di luoghi precisi.
    Per questo vivere sinodalmente la Chiesa nel suo insieme è già di per sé una forma di missione e non una riduttiva procedura organizzativa: più si impara a lavorare insieme e più ci si abitua a essere prossimi di chiunque, più si sperimenta la diversità di compiti e carismi e più ci si educa a saper benedire e accompagnare tutto ciò che nasce davanti a noi come bene possibile e imprevisto, più ci si esercita nel discernimento comune e non solitario, e più si troveranno parole creative e sorgive per scorgere la sapienza del Vangelo ben oltre gli stessi confini ecclesiali.
    Una piccola e possibile “agenda sinodale e missionaria”, con il sapore umano di una cura capace ancora di appassionare verso un obiettivo comune, potrebbe ripartire proprio da queste priorità: senza inventarci la Chiesa dal nulla, leggere la Parola biblica come parola di sapienza sul vissuto concreto delle persone, vivere lo spazio sacramentale come gesto benedicente e accogliente verso chiunque e testimoniare la comunione e i compiti ministeriali nella forma della prossimità quotidiana e dell’accompagnamento responsabile. In questo “andare”, fattibile e vivibile fin da ora, non siamo certo orfani: “Io sarò con voi fino alla fine di ogni tempo”. E questo ci basti, per diventare noi stessi dentro e attraverso la missione che possiamo essere per altri!

     
    NOTE

    [1] Cfr. Mt 28, 16-20.
    [2] Cfr. Gv 20, 11-18.
    [3] Come ricorda Lumen Gentium 23, l’una e unica Chiesa universale esiste in e a partire dalle Chiese locali.
    [4] Cfr. AG n. 22.


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